“Il Giappone quotidiano, vissuto nelle sue pieghe, sfugge a ogni catalogazione…”

 

“Il Giappone quotidiano, vissuto nelle sue pieghe, sfugge a ogni catalogazione…”

Alessanro Mavilio

Napoli e Kyoto, così vicini e così lontani, nelle riflessioni di Alessandro W. Mavilio, laureato in Lingue e Culture Orientali ed ora attivo in Giappone nell’insegnamento della lingua italiana e nella realizzazione di film taoisti

Innanzitutto, grazie per aver accettato il nostro invito, dottor Mavilio. Ci può dire qualcosa sulla sua provenienza e formazione?

“Grazie a voi per l’ospitalità sul vostro Magazine.
Io sono nato a Napoli nel 1974 e sono stato un pauroso ragazzino del Vomero. Per qualche motivo ricordo la mia infanzia attraverso un filtro di colore verde scuro, forse a causa di qualche vecchio autobus cittadino ancora di colore verde, e per via di tutte le persiane dei palazzi che osservavo con morbosa curiosità. Pauroso, perché in quegli anni sentivo praticamente solo parlare di attentati terroristici: bombe in treni e stazioni, aerei dirottati... Ricordo come mia madre smise di farmi indossare un passamontagna, molto in voga tra i bambini freddolosi, perché – se ricordo bene – era diventato un indumento fuorilegge. Da piccolo disegnavo continuamente, e presto divenni bravo a osservare e riprodurre le cose, misurandomi poi con diverse tecniche e finendo per approdare al fumetto. Avrei voluto diventare l’erede di Charles M. Schulz, con il quale ho anche scambiato qualche lettera! Devo qui puntualizzare che, grazie a una vecchia macchina da scrivere e a una enorme scorta di francobolli scoperta a casa dei miei nonni, ho cominciato – da bambino – a scrivere senza sosta e vergogna ai miei idoli, e perfino ad alcune aziende: quelle di trenini elettrici e macchinine, implorando (e qualche volta ottenendo) regali, sconti, cataloghi o addirittura modifiche personali ai modelli che producevano...”

Perché proprio la scelta dell’Orientale?

“Io ho frequentato l’Istituto Statale d’Arte Filippo Palizzi, a piazzetta Salazar, dietro piazza Plebiscito. Ero nella sezione Arti della Stampa. Dopo un primo anno di confusione quella scuola mi ha donato subito una forma di maturità: la capacità di gestire lo studio, l’amicizia, il diritto al sogno, alla scoperta, all’errore. Quella scuola è riuscita nel miracolo di conservarmi bambino pur mentre crescevo: ricordo con chiarezza che non esisteva l’ombra della paura di sbagliare. Ogni fallimento poteva rientrare nella prova d’artista. Furono anni in cui lo studio si tramutò presto in una vera corrente produttiva e anche creativa. Nonostante il forte impegno avevo sempre molto tempo libero e in un’estate dei miei quindici anni ho avuto il primo incontro con il Giappone: una notte vidi su Raitre un film di Yasujiro Ozu. Restai folgorato, ma a lungo. Ero diventato un neon acceso anche di giorno. Avevo scoperto all’improvviso che esisteva il cinema, l’uomo e un mondo lontano. Nell’estate del terzo anno dell’Istituto d’Arte ho dunque studiato giapponese da autodidatta. I miei professori, che mi seguivano con stupore e molto affetto, mi invitavano a continuare il mio percorso di studi all’Orientale. Ero felicissimo di aver trovato una strada ma avrei dovuto aspettare ancora due anni prima della maturità…
Il giapponese mi ha dato da subito tante soddisfazioni. Già da liceale avevo superato l’esame del Japanese Language Proficiency Test e avevo qualche amico di penna giapponese. Tuttavia ho cominciato a frequentare l’Orientale ben prima di iscrivermici, seguendo alcune lezioni dei proff. Sakamoto e Cutolo, di Scienze Politiche. A Palazzo Giusso avevo cominciato a studiare norvegese, da solo e in biblioteca, sotto gli incuriositi sguardi della prof. Saquella. Mi sentivo come Hermann (il protagonista di Heimat II) che da Schabbach arriva a Monaco! Già da ospite mi ero trovato benissimo all’Orientale! Provavo una sensazione di onnipotenza simile a quella che poi ci avrebbe dato Internet: non avrei potuto immaginare che a Napoli ci fosse un luogo sempre aperto con libri esotici, aule, studenti e professori disposti a insegnare perfino a un… clandestino come me!”

Qual è stato il contributo del nostro Ateneo nell’attività che ora svolge?

“Attualmente in Giappone insegno presso l’Università Kyoto Sangyo, ho una piccola attività imprenditoriale che sviluppa sistemi didattici per le lingue (per aziende e privati) e sono il vicepresidente di Emergency in Giappone.
L’Orientale non mi ha insegnato a… insegnare, non mi ha insegnato a programmare, non mi ha insegnato a raccogliere fondi. La mia Laurea in Lingue e Civiltà Orientali ha fatto tutto l’incalcolabile resto. Ha preparato l’uomo in grado di fare cose – molte e diverse – fuori dal suo sistema culturale di riferimento.
L’Orientale mette a disposizione di tutti il suo buon nome. È davvero un nome prestigioso, una sorta di assegno in bianco. Occorre uscire fuori dalle sue mura per capire quanto valga questa moneta. Proprio un paio di settimane fa la televisione di stato giapponese (NHK) ha mandato in onda un servizio sull’Orientale, e che nostalgia per me! Il servizio televisivo mostrava al Giappone dove vengono forgiati tra i migliori yamatologi del mondo!
All’Orientale il più delle volte mi sentivo il coccolato rampollo di chissà quale fortunato gruppo di giovani: altro che la Casa del Grande Fratello! Vi ho studiato giapponese e indonesiano, con un’escursione clandestina di sei mesi (ancora!) nel corso di cinese, e in tutti i casi ricordo chiaramente la severità e insieme l’affetto degli insegnanti: un mix perfetto. Ma oltre a questo discorso di percezioni tutte personali sono convinto che l’Orientale fornisca ai suoi studenti tutto ciò che occorre per formarsi nel campo prescelto. Certamente la voglia di imparare devono portarla gli studenti, gli spazi fisici sono un po’ ridotti e certa burocrazia potrebbe essere snellita, ma se parliamo di didattica, di strategie e di umanità sento di poter dire che l’Orientale è ben più che un’università.”

Che differenze vede tra le università giapponesi e gli atenei italiani? Del livello di preparazione, della qualità, degli studenti: che cosa pensa?

“Questa è una domanda imbarazzante per me che mi trovo nel mezzo. Mettiamola così: le università giapponesi offrono ciò che gli studenti italiani desiderano, ovvero servizi precisi e puntuali, enormi spazi e perfino attività ricreative. Quelle italiane offrono da sempre ciò di cui gli studenti giapponesi hanno bisogno e che non riescono sempre a ottenere in patria: un sistema didattico che garantisca l’individualità dello studio, l’originalità degli interessi e che consegni alla società del lavoro un cittadino che sia tessera unica eppure modulare del mosaico sociale.
Stesso discorso per il livello di preparazione: poiché la scuola è un luogo vivo e organico, secondo me non è possibile né giusto misurare certi trend con un approccio lineare. Troppo dipende da fattori esterni all’ateneo: forza di volontà dello studente, bioritmo del docente, umidità dell’aria. Ho avuto studenti che avrebbero potuto tranquillamente sostituirmi in cattedra e altri che certo non brillavano per volontà. Molto in Giappone sembra dipendere dalle annate. Del resto l’università accoglie gli studenti da tutto il Giappone nel loro ultimo ciclo formativo e molto dipende da che cosa e quanto è stato fatto nelle scuole precedenti.
Ma in un punto vince l’università italiana: bisogna sempre dare agli studenti occasioni di sfida sia nello studio che nella vita universitaria. Si è bravi studenti se si è brave persone: la capacità di problem-solving (e con stile!) di molti giovani italiani credo che sia un nostro punto forte e ci è molto invidiata. Ma è chiaro che noi la sviluppiamo esposti ai problemi che tanto ci annoiano: burocrazia, spazi ristretti, libri introvabili, eccetera. Io spesso aggiungo volutamente al quotidiano dei miei studenti tali sfide, come fossero un additivo magico. Il prevedibile è nemico di una mente che si deve formare all’imprevedibile! E se qualcuno si lamenta posso sempre dire: «anche questa è cultura italiana! Che fai, vuoi cambiarla?»”

E il suo primo incontro con il Giappone? A quando la decisione di trasferirsi?

“La mia prima volta in Giappone è stata a Tokyo, nel 1996, quando ero forse ancora al secondo anno all'Orientale. Ero ospite a casa di alcuni parenti che si trovavano per lavoro in Giappone. Mi sono trovato catapultato nel jetset internazionale tra ambasciatori e ricchi industriali. Non mi rendevo bene conto di dove mi trovassi: la prima sera mi avevano portato a mangiare cucina italiana a Yokohama. Poiché per due settimane sarei stato loro ospite mi ero riproposto di offrire una cena per sdebitarmi con i miei parenti. Decisi di cogliere l’occasione quella sera stessa. Quando portarono il conto sbiancai: cinque persone in un paio d’ore avevano mangiato per poco più di… dieci milioni di lire! Per fortuna tutti risero e qualcuno mi sfilò con garbo il foglietto dalle mani. E che resti tra noi, io ero partito dall’Italia con sole seicentomila lire! Quel Giappone credo che non ci sia più…
Sono poi tornato da solo molte altre volte in Giappone, per prendere libri, per fare fotografie, per staccare un po’ dall’Italia. Ecco, per me il Giappone ha sempre avuto il valore di un personale posto delle fragole dove andare per mettere in ordine le idee e per avere nuovi input creativi. La finale decisione di trasferirmi l’ho maturata tardi, attorno al 2003, quando ho capito di sentirmi bloccato in Italia. Paradossalmente mi sentivo troppo ricco (interiormente) per restare in Italia. Tutto il mio percorso formativo mi aveva reso troppo carico di… abilità! Ma questo non è il solito discorso sulla fuga dei cervelli che non trovano lavoro. Alcuni percorsi ci formano, dall’inizio, per andare via ma noi non ce ne rendiamo conto; e questo lo vorrei ricordare a molti studenti dell’Orientale: ogni scelta che facciamo porta in sé un destino naturale che certamente possiamo scegliere di ignorare, ma che non dovremmo completamente ignorare.”

Che differenze ha incontrato tra il Giappone sognato e quello reale?

“Io non ho mai davvero sognato un Giappone, forse ho sognato per un breve periodo un me-stesso-in-Giappone. Ma questa cosa è ben presto diventata realtà con i miei primi viaggi e poi con il mio trasferimento. Piuttosto, oggi mi sembra di vivere in un Giappone da sogno. Non perché sia bello o incantevole, più che altro perché il Giappone quotidiano, vissuto nelle sue pieghe, sfugge a ogni catalogazione ed è ben diverso dall’immagine pubblica che circola nel mondo o da quella che ci si costruisce standoci per il tempo di un corso di lingua. Il Giappone reale è lungi dall’essere compreso e risolto, soprattutto se guardiamo all’immenso e misterioso cosmo dei Kato-san (il tipico sig. Rossi d’Italia).”

Lei definisce le sue produzioni film taoisti (o film della via, della strada, leggendo i kanji di DO-EI): una definizione ambiziosa. Quali caratteristiche rendono tali i suoi cortometraggi? Realizza tutto da solo o con lei collaborano altre persone?

“Io sono laureato in Lingua e Letteratura giapponese, con una tesi sul film Sogni di Akira Kurosawa, con il professor Amitrano.
Quando avevo quindici anni il professor Amitrano era il docente di italiano, all’Università di Osaka, della mia amica di penna giapponese. Fu lui, attraverso la mia amica (disperata per il mio giapponese di epoca Meiji), a consigliarmi una grammatica di giapponese moderno per studenti italiani, nuova di zecca (Kubota) ed alla fine (gentilezza della sorte) è con lui che mi sono laureato!
La tesi col professore Amitrano su un’opera di Kurosawa di cui nel mondo si è scritto molto poco ha lasciato in me un forte interesse per un cinema che tornasse nuovamente a essere puro sogno, che proprio come sogni fosse capace di esprimersi libero dalle costrizioni e dalle consuetudini del mercato. La produzione DOEI è dunque nata come una prova, un’applicazione sul campo della mia tesi.
In Italia avevo già lavorato nell’ambito del video ma ancora doveva aversi la rivoluzione del digitale: telecamere e strumenti per il montaggio restavano oggetti dal costo proibitivo. Il mio venire in Giappone ha coinciso con la disponibilità, per tutti, di nuovi strumenti videocreativi che finalmente davano ai filmmaker la libertà di esprimersi davvero. Tale rivoluzione è ancora in corso. Io realizzo generalmente tutto da solo tranne in alcuni casi. Profitto per fare un po’ di chiarezza: TaoistMovies è il nome dell’entità produttiva generale, che tra l’altro, a breve, si trasformerà in un nuovo progetto produttivo e distributivo. DOEI è il nome dell’esperimento cinematografico che si basa sul Taoismo (sul Tao te Ching) per ottenere film che non siano violenti nei confronti del mondo reale e del pubblico finale. Gli Street Movies sono i film più precisamente girati per strada e con tecnica taoista, quelli che di fatto descrivono il mio Giappone, la mia Kyoto, sempre di tono un po’ verde, spesso molto triste e per nulla turistica. A causa della sovrapposizione semantica tao-strada il pubblico percepisce il tutto come cinema taoista”.

Molte sue opere sono costituite da frammenti di paesaggi e vita quotidiana kyotese. Come nasce un nuovo filmato?

“Tecnicamente un film nasce grazie a una camera. Questo strumento somiglia troppo spesso a una pistola, a un’arma. In Occidente una camera (o un viso nascosto da una camera) attiva quasi sempre una reazione nelle persone, spesso infastidita, altre volte fintamente gioviale. C’è un che di minaccioso in una camera, specie se ce la punta addosso uno sconosciuto. È comunque la rapina dell’immagine. In Giappone mi sono accorto subito che le camere sono percepite in modo totalmente diverso, e proprio come le armi da fuoco! Cioè: non sono percepite. Qui puoi camminare per strada portando una pistola finta, senza tappo rosso, e senza che ci sia una minima reazione. Allo stesso modo si vedono persone entrare in banca (sprovvista di metal detector) con il casco integrale e tuta nera, e fare normali operazioni di sportello senza che nessuno pensi alla rapina. Una tale purezza del Giappone mi ha colpito da subito e ho capito che era la terra ideale per studiare attivamente cinema. Per inciso: i Giapponesi temono le telecamere nascoste e se parliamo di armi vere e proprie essi temono ancora oggi le lame. Interessante, no?
La mia camera (che si chiama Michiko in onore alla cinepresa Mitchell adoperata di Ozu e a un personaggio di un suo film) è il mezzo centrale; ma più che come un’arma io la porto in giro come fosse un vaso di Pandora all’inverso. Lei risucchia dentro tutta la realtà a disposizione nel momento in cui le si toglie il tappo all’obbiettivo. La storia vera e propria nasce al montaggio, è lì che aggiungo la vera sensibilità poetica al girato, ed è una sensibilità che credo di mutuare dal mio pubblico sconosciuto in un rapporto empatico che ancora non mi so spiegare bene...”

Avrebbe potuto secondo lei svolgere la stessa attività anche in Italia?

“Credo di no… Non con la totale libertà creativa che mi dona il Giappone, e quella espressiva che dona la lontananza dal proprio Paese…”

Quanto conta l’influenza dei generi poetici tradizionali giapponesi, come lo haiku, nelle sue opere?

“Credo di poter dire che molta poetica tradizionale asiatica (e non solo) sia presente nei miei film. Un certo minimalismo, una certa tendenza alla sottrazione, all’azzeramento, alla reversibilità Tang; un lavorare per suggerimenti stagionali e universali, un troncare proprio dove magari il pubblico si aspetta un fiorire esteriore. Tutto ciò è naturalmente connesso al volermi esprimere in pochi secondi o minuti e soprattutto all’intendere il film come un’opera che coinvolga lo spettatore.”

Il treno, specialmente quello della piccola linea locale di Kyoto Eiden, così come il fiume Kamo sono elementi molto presenti nei suoi cortometraggi. Perché? Cosa simboleggiano?

“Qui andiamo molto sul personale perché il treno simboleggia il controllo che da bambino volevo avere sulla realtà. Oggi da adulto capisco che i treni sono parte di un meccanismo senz’altro umano ma più ampio, e che il loro andare e tornare è l’immagine stessa della realtà. La realtà va compresa, non necessariamente controllata. I miei treni forse simboleggiano questo, e i trenini Eiden sono tra i più carini e sinceri (kawaii+makoto) che il Giappone possa offrire.
Il fiume Kamo che spesso ha un ruolo nei miei film è un omaggio al fluire buddhista (nagareru). In quanto originario di una città di mare (Napoli) ritrovo spesso in me un temperamento ondoso, nervoso, ottuso e caparbio, mentre mi pare di capire che una città dove scorra un fiume abbia cittadini più serafici.”

Quant’è importante la musica nel comunicare e far comprendere il messaggio dei suoi film?

“La traccia sonora è certamente fondamentale: al montaggio pongo un’attenzione quasi paritaria tra immagini e sonoro. Da sempre porto avanti un sodalizio creativo con Emiliano Ruggiero in arte Sonoro, un giovane artista di Salerno che vive a Tokyo. Le musiche di quasi tutti i miei film sono sue. Sarò di parte ma credo che Sonoro sia un musicista eccellente, il primo di un genere che ufficialmente ancora deve nascere.”

Che tipo di accettazione hanno avuto in Italia queste sue produzioni?

“So che qualcuno ha organizzato vere e proprie proiezioni e che in Germania alcuni miei film sono addirittura passati in televisione (forse in qualche programma che raccoglie le stranezze del Web?). Nonostante il target italofono (dovuto all’utilizzo di audio e sottotitoli in italiano) molti commenti positivi arrivano dalle due Americhe. In Italia vengo listato sui blog degli appassionati di Giappone.”

A quando la prima esperienza come regista?

“Da anni sto preparando una vera e propria fiction, una serie televisiva che però nasca appositamente per il Web. Nel tempo libero raccolgo le foto delle location e idee per soggetto e sceneggiatura. Non sono sicuro di voler diventare un regista tradizionale, sebbene con la produzione ci sia poco da improvvisare. Mi piacerebbe comunque continuare a gestire location e attori con un fare taoista, come fatto fino adesso. Ma la vera sfida è nell’audience: il nuovo pubblico del Web va compreso a fondo, in tutto il suo spessore. E a complicare le scelte stilistiche e produttive ci si mette la rivoluzione in atto dei video on line che cambia continuamente le carte in tavola.”

Lei vive a Kyoto. Che cosa offre questa città che non offrano gli altri centri giapponesi?

“Sarò sincero: Kyoto non mi ha mai conquistato. Di comodo c’è la precisa pianta ortogonale, il fatto che il mezzo di trasporto principale sia la bicicletta e che ci sia un fiume dove si possono fare sereni picnic. Ma il clima, sebbene vario, lascia pochi spazi per un pieno godimento della città. Di buono c’è che sia una città universitaria e ciò si traduce in una certa abitudine dei kyotesi a convivere con (ma non vivere) culture diverse, e della polizia a tollerare gli esperimenti artistici in città, incluse le mie riprese!”

Kyoto è davvero ancora un centro culturale del Paese?

“Facendo le dovute proporzioni e mettendo in conto la situazione economica nazionale e mondiale, direi che Kyoto si difende bene: musei, mostre, conferenze, proiezioni… C’è molto da vedere. Ma anche l’industria e la ricerca sono molto attive per essere una città di templi e misticismo. Non sono infatti d’accordo con chi vede in Kyoto la città delle geisha o dei samurai. Forse temo per Kyoto un destino simile a quello di Napoli: restare schiacciata sotto il peso di un’immagine del passato… mentre dinamiche sotterranee vanno avanti incomprese e magari incontrollate.”

Com’è Napoli vista da Kyoto?

“Napoli vista da fuori… non è più bella. Tutto ciò che ci piace di Napoli è appunto un’immagine, un ricordo di un tempo mitico che fu: Totò e Eduardo ancora impazzano su YouTube anche tra i giovanissimi; qualcosa vorrà dire. Napoli oggi non sta bene, tuttavia sono convinto che un’altra città sarebbe collassata ben prima. Ciò mi fa interrogare su quanto – e da quanto – stiamo contando sulle risorse della sua resistenza nervosa. Se mi fate passare una facile immagine, direi che questa pazienza invisibile di cui Napoli è capace potrebbe essere ben rappresentata dal suo Vesuvio. Ad ogni modo, lo penso spesso e lo dico a molti: nascere e crescere a Napoli è la più grande fortuna che possa capitare. È anche questo un discorso su gli strumenti che si ricevono e che poi ci rendono resistenti ai capricci del mondo più grande. Sempre se accettiamo di vederlo, il mondo…”

Se le riesce, potrebbe esprimerci un ricordo di Nino Forte, nostro docente e direttore dell’ISEAS di Kyoto che lì è morto?

“Il professore Forte è ancora molto presente nel cuore di tutti noi a Kyoto. All’ISEAS era un instancabile studioso e direttore. Lo ricordo assorto alla scrivania e sui libri ma sempre sorridente e radioso quando si alzava per bere un tè o scambiare una chiacchiera. Due giorni prima che finisse, ed era certamente provato e stanco, lo trovai all’ISEAS che parlava come se nulla fosse con le segretarie. Aveva fatto quattro piani a piedi e a Kyoto faceva un caldo insopportabile. Senza dubbio nutriva un attaccamento e un senso di responsabilità ineguagliabili per l’ISEAS e per i suoi collaboratori. Restai davvero colpito da tanta serenità d’animo nei suoi ultimi tempi, e ricordo che ragionai infantilmente sul suo cognome... Una sua bellissima fotografia è nella stanza del direttore.”

Che cosa legge?

“Purtroppo il tempo per la lettura è poco… L’essere esposto per lavoro a pagine e pagine di giapponese-burocratichese riduce molto il tempo destinato alla lettura di piacere. Ad ogni modo, pur non avendo un comodino, sul tatami della stanza dove dormo in questo momento ci sono: The Empathic Civilization di Rifkin, Education for Gross National Happiness di Ezechieli e il Zhuang-zi.”

Per ultimo vorrei ritornare alla sua esperienza universitaria. Tra i suoi cortometraggi ci sono anche divertenti parodie di alcuni professori storici dell’ateneo. Ci racconta un episodio che ricorda con particolare piacere?

“Ho fatto quelle parodie con affetto e per ricordare appunto l’umanità che contraddistingue l’Orientale. Il ricordo che conservo oggi è di una università-famiglia: se fosse una fiction si chiamerebbe Casa Corigliano. I personaggi c’erano tutti: il nonno sprint, la nonna saggia, lo zio burbero, la zia triste, padri e madri e fratelli e sorelle. Perfino il cane! Sulla magia di Palazzo Corigliano bisognerebbe scrivere un libro a parte.
Un episodio divertente? Un giorno, agli armadietti della biblioteca Taddei, mi lanciai col mio miglior sorriso alla conquista di una bellissima ragazza. Fui ignorato con classe, come fossi l’uomo di plexi-glass. Un amico che mi osservava mi disse: «Ma cosa fai? Sei pazzo? È quella di tibetano!» E io: «E beh? Foss’anche quella di siberiano…» – «Sì, ma è la docente!» – «Ah.».”

Tre consigli che potrebbe dare ad un giovane studente dell’Orientale.

“Se Marco Polo e Colombo fossero andati all’università certamente avrebbero frequentato un Istituto come l’Orientale! Il primo consiglio è quello di avere – e proteggere – una propria visione coraggiosa del mondo e dunque agire da studenti-esploratori, viaggiatori, navigatori.
La rettitudine nello studio, che le scuole del mondo caldeggiano, non deve essere confusa con l’obbligo a un percorso di studi lineare. Imperativo è preservare la propria organica unicità nello sperimentare il mondo e lo studio, e quest’ultimo dovrebbe essere inteso come una facilitazione a una successiva, matura e diretta sperimentazione delle materie.
Se non si è già persa una certa capacità di immaginazione, profittare della propria giovinezza per fare tutto con buona lena e con coraggio! Gli strumenti che l’Orientale ti pone in mano potrebbero fare di te una persona che conta: un ambasciatore, un politico, un ricco imprenditore all’estero. Ma soprattutto una persona libera di muoversi e di vivere più vite, cosciente delle reali temperature di questo mondo sempre più caldo. Anche io sono convinto che l’Asia stia recuperando il suo ruolo antico di predominio tecnologico e culturale. Se pensi di iscriverti all’Orientale o se sei già iscritto, assicurati di immaginarti come e cosa vorrai essere – o che cosa ti piacerà fare – tra quindici anni: coniuga le tue scelte al futuro e sii pronto a trasferirti. L’Orientale è il luogo ideale per pianificare e costruire il tuo futuro: è la scuola che i grandi esploratori del passato non hanno potuto frequentare! Ma la visione e il coraggio devi metterceli tu.”

Tre consigli per un giovane nippofilo.

“Il Giappone è uno dei Paesi ancora oggi più fraintesi al mondo. Sei sicuro/a che ciò che ti attrae del Giappone non sia un lato imbarazzante della cultura giapponese che per qualche motivo (arte, cinema, fumetti) è trapelato all’estero e ha fatto breccia su di te? Cosa penseresti di un tuo coetaneo giapponese, fanatico dell’Italia, che sia attratto da padrini mafiosi, dal problema dei giovani mammoni o semplicemente dall’avvenenza delle nostre donne? Questo è il primo auto-controllo da fare se si intende approfondire seriamente e professionalmente il proprio interesse per il Giappone. Val la pena scoprire da subito i valori unici e profondi della cultura giapponese per far sì che attecchiscano in noi per renderci persone rinnovate e più complete. La vera questione è dunque: «Perché e cosa davvero mi interessa del Giappone?». Risponditi adesso!
Lasciarsi attraversare da una cultura diversa e opposta alla nostra come quella giapponese è spesso un processo doloroso, che confonde, e ci pone a lungo in nuove posizioni di pensiero grigie, indefinite. Una cultura è cosa più potente di un individuo, e non serve a nulla schermarsi dietro un blando interesse generale o ammettere con sé stessi che si è attratti solo da un suo aspetto, magari frivolo o esotico. Tutto ciò che ci può attrarre del Giappone è il frutto della sua cultura. Nel momento in cui morderemo quel frutto nascerà una nuova storia, con mille problematiche irrisolte. Ti ricorda niente?
Quando studiai giapponese da autodidatta c’era a mia disposizione nelle librerie un solo libro, una grammatica del 1868! E per vedere un film occorreva andare a Roma a qualche proiezione oppure, come nel mio caso, trovare per caso uno speciale notturno alla televisione. Oggi è tutto cambiato ed è possibile, da soli e con Internet, studiare e confrontarsi da subito con la lingua e la cultura del Giappone. Oltre a consigliare – ancora e sempre! – di porre tra te e la cultura giapponese un maturo filtro anti-scorie consiglierei di non idealizzare mai una cultura diversa ma di andare a sperimentarla di persona al più presto. Più che un breve viaggio, consiglierei un bel corso di lingua o di cultura in loco! E se il Giappone non dovesse piacerti? Colpa tua che credevi che il Giappone fosse lì per piacere a te! Interrogati se non sia molto più facile e conveniente piacere al Giappone.”

Fabiana Andreani

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