“I miei sei mesi in Giappone sono diventati già sei anni!”

 

“I miei sei mesi in Giappone sono diventati già sei anni!”

Donato Di Crecchio

Donato Di Crecchio, laurea all’Orientale, oggi tra i responsabili sviluppo prodotto di Luxottica Japan

Buongiorno dottor Di Crecchio, anzi buonasera visto che a Tokyo, dove Lei si trova, sono quasi le ventitré, e grazie per aver accettato la nostra intervista. Lei è nato a Lanciano, in Abruzzo. Come mai si è iscritto all'Orientale?

“Innanzitutto direi grazie a voi per l’invito che mi permette di parlare della mia esperienza d’italiano in Giappone.
L’idea di studiare la lingua giapponese e le filosofie orientali nacque nel periodo delle scuole superiori. Già da allora ero a conoscenza anche degli Atenei di Venezia e di Roma (in cui s’insegnano lingue orientali), ma data la vicinanza al mio paese natale da un lato, e dall’altro la positiva esperienza diretta di alcuni amici che ne avevano frequentato i corsi, alla fine optai per Napoli.”

Che cosa ricorda della Sua esperienza universitaria nel nostro Ateneo?

“Se ripenso agli anni trascorsi all’Orientale, ciò che ricordo con piacere è lo stretto contatto che si ha con i docenti.”

Su quale tema ha fatto la tesi? L'argomento Le fu suggerito o fu una Sua scelta personale?

“La tesi rientrava nell’ambito dell’insegnamento di Religioni e Filosofie dell’Asia Orientale, ed ebbe come tema le mummie giapponesi: riguardava, cioè, la natura e la prassi mistica di una forma di ‘messianesimo’ estremo - orientale. L’argomento fu una scelta personale anche se dettata un poco dal caso: ricordo perfettamente quando m’imbattei in Biblioteca nell’unico libro in lingua giapponese che trattasse l’argomento.”

Il professore col quale ha lavorato per la tesi è stato Nino Forte, uno studioso illustre del nostro Ateneo. Potrebbe tracciarne un profilo come docente?

“Ricordo molto bene e con grande stima il professore Forte, non soltanto per la sua grande conoscenza dell’Asia Orientale ma anche, e soprattutto, per la disponibilità nel seguire nuovi percorsi di studi, come la mia tesi non proprio ‘ortodossa’. Qualche anno fa, alla notizia della sua improvvisa scomparsa rimasi scioccato.”

Ha conservato rapporti con docenti e laureati dell'Ateneo?

“Ho ancora rapporti di amicizia con laureati dell’Ateneo, del mio anno o di poco precedenti o successivi. Molti, tra l’altro, vivono ora in Giappone. Dei docenti, l’unico con il quale ho il piacere di tenermi in contatto è il professore De Sio Lazzari.”

Ritiene che l'Orientale abbia contribuito a darLe un senso di apertura al mondo, alle culture, alla ricchezza della nostra umanità?

“Decisamente sì. Non solo per il carattere umanistico dei miei studi ma anche, e soprattutto, per la possibilità di metterti in contatto con diverse culture. Di quest’aspetto, ora che vivo all’estero, ho fatto tesoro.”

Lei vive ora in Giappone. Come mai?

“Vivo a Tokyo per la precisione e sono sposato con una cittadina giapponese. La scelta di vivere da queste parti fu dettata, all’inizio, dall’esigenza di migliorare la conoscenza della lingua giapponese, ma ora è diventata una piacevole necessità, dato che lavoro stabilmente presso la sede locale di Luxottica.
La cultura giapponese mi piace, anche se non senza eccezioni, e comunque cerco sempre di apprezzarne anche i lati che a occhi europei possono sembrare un po’ bizzarri o oscuri.”

Da quanto tempo vive in Giappone? Quando ha deciso di trasferircisi?

“Vivo in Giappone da sei anni, dal 2005 per la precisione. Prima avevo una libreria nel mio paese in Abruzzo che gestivo con un amico. Siccome però provenivo da una laurea in Lingue e civiltà orientali (lingua studiata, appunto, il giapponese), il mio sogno nel cassetto era almeno tentare di provare a vivere qui a Tokyo per un periodo di tempo. Così ho lasciato la libreria e ho tentato la fortuna.
In realtà il progetto iniziale era di restare sei mesi, al massimo un anno, mentre alla fine gli anni sono diventati sei. Mi è andata molto bene, se considero che all’arrivo non avevo nulla di nulla, nemmeno un appoggio o una conoscenza per sperare di rimanere nel Paese, ma soltanto il mio passaporto con un visto turistico e una conferma per un ostello. D’altronde, l’improvvisazione è un po’ parte della mia natura.”

Bene, nel 2005 va in Giappone per tentare di viverci. E che cosa ha fatto una volta arrivato lì?

“Mi sono iscritto subito a un corso di perfezionamento della lingua e nel frattempo lavoravo come cameriere in un ristorante italiano: cosa che ho scoperto, poi, essere stato il percorso della maggior parte di chi vive in Giappone.
Anch’io ho seguito questo cliché degli inizi e, pur di rimanere, sono ricorso anche a espedienti come andare in Corea per qualche giorno e rientrare in Giappone solo per avere un nuovo visto turistico di tre mesi.
La svolta, o il colpo del destino, ci fu circa sei mesi dopo il mio arrivo, quando conobbi al ristorante dove lavoravo il mio attuale responsabile, il quale cercava una persona per una posizione nella filiale giapponese di Luxottica. Mi propose questo lavoro ed io ho accettato. Non avevo però nessuna preparazione specifica per queste mansioni e quindi ho dovuto iniziare da capo anche un nuovo percorso formativo ad hoc sul design.
La cosa buona di questi corsi è che erano tutti completamente in giapponese tecnico e ciò mi ha permesso di acquisire da subito un lessico specialistico essenziale per il mio lavoro.
Tra gli svantaggi vi era il fatto che le lezioni erano tenute a cinque ore di treno da Tokyo, nella prefettura di Fukui, una zona tranquilla e molto tradizionale sul lato del mar del Giappone in direzione della Corea, dove Luxottica ha le fabbriche e i centri di sviluppo.
Nell’ottobre del 2006 poi sono stato assunto a fiducia, anche se io avevo messo subito le carte in tavola dicendo che venivo da un percorso di studi filosofico-religioso, sapevo il giapponese, ma non avevo la benché minima esperienza di design industriale.
Da questa fiducia ricevuta nacque in me lo stimolo per impegnarmi e dare il massimo in questo nuovo e quasi sconosciuto tipo di lavoro. Da lì è partita quest’avventura che continua ancora oggi e continuerà ancora per molto a lungo, credo.”

Ci descriverebbe il suo lavoro?

“Lavoro per la Luxottica e mi occupo di gestione del prodotto e design, un campo diverso da quello scelto all’Orientale.
Nel particolare mi occupo di sviluppare modelli di occhiali specifici per i giapponesi dato che loro hanno caratteristiche somatiche diverse da noi. Si tratta quindi di adattare il design italiano di varie brand per la fisionomia giapponese e intrattenere i rapporti con tutta una serie di fornitori.
All’inizio la mia figura era nata come un supporto per il team giapponese, poi, grazie anche a continui corsi di aggiornamento, sono diventato un po’ a tutto campo e ora faccio parte del team asiatico del design.”

Ci racconta due o tre aspetti bizzarri della vita in Giappone che, magari all’inizio, La sorprendevano in modo particolare?

“Be’, ora che sono sei anni che vivo qui, devo ammettere che ormai tutto mi sembra più o meno normale.
Parlando della mia esperienza personale, una cosa molto strana che mi sorprese nei primi tempi fu il fatto che in Giappone è di abitudine – anzi è necessario farlo per mostrare di gradire il piatto – mangiare il ramen [zuppa di spaghetti in brodo alla cinese: NdA] facendo rumore con la bocca quando si succhia. Io pensai «Va bene, non c’è problema, uno si abitua». Ma una volta che ero a mangiare in uno di questi locali che servono ramen, mi successe però di soffiarmi il naso – ero raffreddato – e allora tipo dieci persone, che fino allora avevano mangiato facendo un notevole rumore, si sono girate verso di me con una faccia tremendamente indignata. Scoprii così che in Giappone soffiarsi il naso in pubblico è considerato un gesto di pessima educazione.
Anche nel mio lavoro ci sono comportamenti che inevitabilmente sembrano bizzarri a un non-giapponese. Per esempio, d’abitudine io lavoro con altre due persone su uno stesso grande tavolo e mi capita che i miei colleghi giapponesi, nonostante io sia seduto di fronte a loro, mi mandino le e-mail con il cellulare per discutere o chiedere informazioni sul progetto del momento nonostante basterebbe allungare una mano e dirmi «Ehi, senti. Ma allora qui che facciamo?». Ho provato all’inizio ha chiedere il perché e mi è stato risposto: «Per riservatezza». Attenzione però: ciò questo non vuol dire che in quel momento stiamo sviluppando chissà quale materiale esclusivo o modello nuovo e che ci sia paura che le informazioni trapelino in modo inopportuno. No, a guidare questo comportamento è la paura di disturbare i presenti e soprattutto, e qui è la vera particolarità, la paura di mettermi in imbarazzo di fronte agli altri nel caso io non abbia una risposta pronta alla domanda posta direttamente. Scrivendo invece tutto per e-mail, non solo non si disturbano gli altri ma si dà al destinatario il tempo di riflettere per dare la risposta migliore: è questa filosofia di estrema educazione e rispetto altrui che si cela dietro la parola ‘riservatezza’.”

Quali differenze vede tra il modo di lavorare delle aziende italiane in Giappone e le imprese giapponesi?

“Fondamentalmente io lavoro nella sede straniera di una grande azienda italiana, quindi non so quanto il mondo del mio lavoro sia simile a quello di una kaisha [giapponese: azienda, impresa. NDA] al 100% giapponese. Tuttavia penso che in Luxottica Japan ci sia comunque un perfetto connubio tra lo stylish italiano e la buona manodopera giapponese. Di personale italiano oltre a me, su cento impiegati, ci sono sei persone di cui una ragazza che non parla giapponese ma solo inglese. Come ogni azienda del Sol Levante, i rapporti gerarchici sono molto marcati e a pagarne le conseguenze in particolare sono le donne, sia per le possibilità di avanzamento di carriera, sia soprattutto per la considerazione che ricevono.
Se posso, visto che ne ho una certa esperienza diretta, vorrei descrivere un poco la condizione femminile sul posto di lavoro in Giappone, dove è normale mettere la donna su un piano inferiore o affidarle mansioni di minor rilievo. Mi capita spesso, per esempio, di vedere che le intelligentissime e preparate ragazze del marketing, quando prendono la parola nelle riunioni e magari propongono qualcosa ai venditori, sono spesso sbolognate con mezze frasi. Da notare che ciò accade quasi unicamente nei confronti delle donne giapponesi: la mia collega italiana, vuoi perché parla inglese (io le dico spesso «Sei fortunata che non parli giapponese sennò ti metterebbero al muro»), vuoi per il modo di fare, è sempre rispettata. Inoltre è assodato pensare che alla donna media sia preclusa la carriera: condizione necessaria per l’accettazione sociale delle ragazze rimane infatti principalmente il matrimonio – quasi tassativamente entro i trenta anni – e con la nascita dei figli è comune ritenere che non sia più necessario alla donna di lavorare ma che debba solo pensare alla famiglia. Al contrario, se una donna giapponese pensasse solo a lavorare per farsi una posizione, magari senza essere sposata, sarebbe sicuramente vista male e data la cattiva reputazione avrebbe automaticamente minori possibilità di far carriera. Sicuramente la situazione è più flessibile rispetto a vent’anni fa e non dico che non ci siano donne nei quadri dirigenziali, ma arrivano fino a un certo gradino e poi basta. Ai miei occhi e a quelli di un occidentale, questo potrebbe indignare ma, allo stesso tempo, vedendo come le donne giapponesi accettino queste rigide divisioni di ruoli in base al sesso, o per lo meno mi sembra che non se la prendano molto, mi viene da pensare che un cambiamento non solo non sarebbe possibile, ma anche non sia così auspicato e accettabile dalla popolazione e dalle tradizioni del Paese.”

Torna mai in Italia?

“Certo, torno per lavoro nelle zone di Milano e Venezia dove abbiamo le fabbriche. Poi, da un paio di anni a questa parte, da quando cioè mi sono sposato, cerco di tornare obbligatoriamente o a Natale o in estate, per condividere la mia terra con mia moglie e farle conoscere quanto più possibile l’Italia. Mia moglie, poi, la conobbi grazie ad un’altra mia passione: quella per la musica e la chitarra in particolare. Ho un piccolo gruppo con il quale mi esibisco talvolta nei locali di sera e così, per caso anche qui, conobbi un’amica di amici che poi sarebbe diventata la mia attuale compagna. Con lei parlo solo giapponese anche se mi sto sforzando di insegnarle qualche cosa d’italiano.”

Ci dice di tre aspetti dell’Italia che le mancano in Giappone?

“Ciò che mi manca dell’Italia è la spontaneità delle persone: i giapponesi sono troppo poco spontanei anche tra amici – fortunatamente non tra le mura domestiche però – e tutto deve essere dettato non da un fine come si potrebbe facilmente pensare, ma bensì da una regola. Sembra che i sentimenti non debbano essere mai troppo esplicitati. Allungando la lista potrei dire che mi mancano le classiche uscite all’italiana, mi mancano le librerie italiane, mi manca il mio mare. La cucina mi manca poco o nulla, visto che qui si trova di tutto. Una cosa che mi manca tantissimo, e che forse dovrei mettere al primo posto, sono le città italiane con i loro centri storici e i palazzi antichi come Palazzo Corigliano. Qua gli edifici sono quasi tutti uguali, nuovi in cemento e vetro, tanto che qualche volta quando sono in motorino, mi sembra di essere Nanni Moretti in Caro Diario che si aggira per la periferia romana invasa da casermoni di case popolari. Ecco quindi spiegato perché i giapponesi scattano foto a tutto quando sono in viaggio in Italia: perché non sono abituati a vedere tanti e tali stili architettonici, s’incantano così alla maestosità delle chiese o dei palazzi in pietra e s’innamorano delle volte affrescate o anche semplicemente dei fregi sopra a un portone antico. Dimenticavo: una cosa che mi manca e della quale mi lamento spesso con i miei connazionali, è la scarsa attività culturale. Mi spiego, ci sono teatro, cinema, mostre, ma è la percezione della cultura che è diversa. Sono poche le occasioni in cui si scambiano opinioni su un libro appena letto, sull’ultimo premio Nobel o su un film degno di nota: la cultura c’è ma è preconfezionata. Per esempio, apre una grande mostra su Monet? Tutti devono andare a vederla perché è l’evento del momento, perché è organizzata, perché è pubblicizzata, perché si va in gruppo ma non per un reale interesse. Allo stesso modo, è difficile vedere promosse iniziative culturali minori, che magari potrebbero realmente interessare, se non sulla stampa specializzata che ha pochi lettori al di fuori degli addetti ai lavori. C’è una cultura underground ma difficile da trovarla, almeno per un non-giapponese.”

E per contro, ci dice tre aspetti del Giappone che mancano in Italia?

“La legalità e la serietà politica, senza dubbio. Se in Giappone scrivono appena sul giornale, anche senza prove, che un ministro è implicato in casi di concussione, tangenti o altri scandali, quel ministro, se non si ammazza, sicuramente si dimette al più presto di sua spontanea volontà e con mille scuse. Al di là dei colori politici, la serietà penso che sia la cosa che più serva alla classe dirigenziale italiana.
Poi l’Italia dovrebbe imitare il Giappone nel tasso di evasione fiscale: pressoché zero! Pagare le tasse è un dovere civico e nessuno si sognerebbe di sottrarsi a questo.
Ironicamente, inoltre, direi: «Invece solo del sushi, introduciamo in Italia, la mania giapponese per il rispetto delle file». Qui basta che ci sia una presenza minima di persone a uno sportello, alla fermata del bus o alla stazione che subito in maniera ‘naturale’ la gente si dispone ordinatamente, uno dietro l’altro.
La cultura dell’‘essere furbo’ tutta italiana qua non c’è e faccio un esempio per chiarirlo. Ho un amico italiano sposato qui con una giapponese e insieme hanno due bambini. Questi piccoli, vuoi perché sono ‘misti’ e vuoi perché sono cresciuti un po’ in Italia, sono notevolmente svegli e vivaci. Capitò loro, però, che una volta, mentre facevano baccano in classe, furono rimproverati non dall’insegnante ma dai compagni giapponesi, bambini della stessa età. Questo per dire che uno cresce con questa forma mentale.”

Qual è stata la difficoltà più grande che ha dovuto superare per iniziare la Sua vita in questo Paese?

“La lingua senz’altro. All’Università italiana si studia soprattutto un giapponese piuttosto formale e letterario ma è tutta un’altra cosa misurarsi con la lingua colloquiale o con le complicate espressioni onorifiche.
La cosa più difficile da imparare è stata comunque il linguaggio del corpo ovvero capire come esprimere i sentimenti o le emozioni con i gesti e gli sguardi. Noi facciamo molto uso di questi espedienti comunicativi mentre in Giappone la semantica gestuale è più povera e basata su movimenti differenti.
All’inizio, quando io cercavo di farmi capire con il mio fare da italiano e nessuno afferrava, devo ammettere di essermi trovato non poco in difficoltà.
Per sottolineare l’importanza di imparare la lingua preciserei che è sulla padronanza del giapponese che si gioca gran parte della possibilità o meno di essere accettati e di vedere sparire – o almeno affievolire – gli stereotipi legati al proprio essere straniero e italiano.
Io non avverto più questo distacco nei miei confronti da quando parlo fluentemente e adotto atteggiamenti giapponesi: mi metto subito con l’altro alla pari ed elimino buona parte dei timori altrui sulla possibilità di non essere capiti.”

Se fosse possibile, tornerebbe per sempre in Italia?

“Con il lavoro che faccio potrei tornare in Italia in qualsiasi momento ma per il momento preferisco restare in Giappone. Non solo perché l’Italia vista dall’estero è, ahimè, la realtà economica che tutti conosciamo ma anche per i motivi familiari che mi legano piacevolmente a Sol Levante.”

Per ultimo, ritorniamo alla sua esperienza universitaria. Ci racconta un episodio che ricorda con particolare piacere?

“A me piaceva moltissimo la mensa dell’Università in Largo Banchi Nuovi: sembrava una tavolata. Mi ricordo che c’era un signore, abbastanza alto di statura, seduto alla reception che aveva appeso alle sue spalle un poster gigante di Vasto, il mio paese d’origine. Io un giorno chiedo il perché di questa scelta e lui mi disse che sua moglie era di Vasto. Una volta che seppe che anch’io provenivo da là, non faceva altro che ricordarlo ogni volta che andavo a pranzo. Diventammo così amici, nonostante la differenza d’età.
Un altro episodio che ricordo con piacere è il ciclo di lezioni che il professore De Sio Lazzari fece sulla poetica di Fabrizio De Andrè e di Pasolini. Un percorso senz’altro poco ortodosso ma che apprezzai moltissimo e ricordo bene tuttora.”

Un consiglio che potrebbe dare a un giovane studente dell’Orientale.

“Imparare bene le lingue straniere che si scelgono, anche e soprattutto con soggiorni all’estero.”

Un consiglio per un neo-laureato che voglia cercare lavoro in Estremo Oriente.

“Se vuole continuare gli studi, gli direi di tentare – almeno solo tentare – il dottorato di ricerca in Asia Orientale e Meridionale, che è una bellissima opportunità messa a disposizione dall’Orientale. Anch’io l’avrei voluto fare ma il caso, o la fortuna dato che ne sono felice, ha voluto che io prendessi la strada del lavoro che ora sto svolgendo.
La ricerca è importante, è alla base della cultura di un Paese e, anche se so che in Italia è poco finanziata, ancora all’estero quella del nostro Paese continua a essere vista come una grande Università di prestigio.
Se invece volesse venire in Giappone, gli direi nonostante tutto di non fare come me, di non venire allo sbaraglio ma almeno di crearsi un minimo di contatto dall’Italia.
Anche perché il Giappone nei confronti degli stranieri ha inasprito le leggi e bisogna stare abbastanza attenti. C’è poca differenza ormai tra essere un italiano e un americano: si è stranieri e basta.
Se già dall’inizio ci si può appoggiare a una scuola di lingua, ad alcune conoscenze, all’Istituto italiano di Cultura, uno pone le basi per un soggiorno sereno.
In ultimo, vorrei raccomandare, una volta arrivati qua in Giappone, di sforzarsi di cancellare la propria prospettiva italiana ed europea, di creare il vuoto e di apprezzare la cultura e la società del posto così com’è.”
 

Fabiana Andreani - Direttore: Alberto Manco

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