Cinquant’anni di musica: Franco Del Prete, il musicista e l’uomo

 

Cinquant’anni di musica: Franco Del Prete, il musicista e l’uomo

Franco Del Prete

Si racconta il talentuoso batterista degli Showmen e dei Napoli Centrale, ispirato autore di famosi brani

Franco Del Prete, batterista degli Showmen e dei Napoli Centrale e autore di numerose canzoni di successo. Ma lei, in qualità di artista, come preferisce essere definito?

“Come quello di oggi, non quello di ieri: ieri è passato, non c’è più, ed io non amo guardarmi indietro ma piuttosto pensare a ciò che sono e che posso fare adesso.”

E adesso, chi è?

“Adesso c’è un’immensa voglia di comunicare, di riuscire ad emozionare le persone, non per forza trasmettere un messaggio, da cui tra l’altro siamo costantemente bombardati: come artista la cosa più importante per me è muovere il cuore di chi ascolta.”

Quali artisti l’hanno ispirata musicalmente e quali sono stati i primi step in questo mondo?

“I primi passi li ho mossi qui nel mio paese, a Frattamaggiore, con un vecchio fisarmonicista che durante la prima serata mi cacciò addirittura fuori, perché voleva il rock n’roll ed io, ragazzino, per quanto mi piacesse, non sapevo farlo. Il mio imprinting musicale è stato sicuramente la musica nera, con la quale mi identifico perfettamente: viene dal popolo, proprio come me, per cui mi è più facile essere vicino al rhythm & blues che non ai Beatles, sebbene mi piacciano da impazzire. Posso ascoltarli a lungo, ma se si tratta di suonare è la musica nera quella con cui sono nato e che mi scorre nel sangue.”

La prima esperienza che l’ha portata al successo è stata con gli Showmen negli anni ’60. Può raccontarcela sul piano sia professionale sia umano?

“Quanto al secondo, mi ha donato una delle amicizie più forti della mia vita, quella con James Senese, con cui mi sono dedicato in seguito al progetto dei Napoli Centrale e molti altri, trascorrendo insieme oltre quarant’anni: abbiamo un rapporto intensissimo e come artista lo amo spassionatamente, penso che sia sempre e ancora da scoprire. Lo conobbi la prima volta all’inizio degli anni ’60 quando una sera, alle 23 30 circa, si presentò insieme con Mario Musella (poi cantante degli Showmen, scomparso nel ‘79) a casa mia, un monolocale senza nemmeno il bagno, che era sul ballatoio. Vivevo solo con mia madre, che era a letto, e mi ritrovai in casa questi due ragazzi che erano venuti a piedi da Miano e Piscinola solo perché cercavano un batterista. A quel tempo giravo l’Italia suonando con un bravissimo cantante, Rolando Pironti, molto vicino allo stile degli chansonnier francesi, ma per me che da pochissimi mesi avevo scoperto Ray Charles, l’arrivo di quei due personaggi che volevano «scassare tutto facendo musica nera»fu una specie di segno del destino. Avevo trovato la mia strada, quei due ragazzi avevano toccato il mio istinto più profondo, oltre ad essere colpito dal loro aspetto: entrambi ricci e scapigliati come me (look che tuttora mi caratterizza), tutti e tre figli della guerra e tanta rabbia dentro, un’alchimia perfetta. Mi misero alla prova con un pezzo rhythm & blues, e dopo pochi mesi eravamo già sul palco di Sanremo e molti altri ancora, componendo brani tra cui Un’ora sola ti vorrei, divenuto famosissimo e ripreso anche in cover più recenti. Siamo stati insieme fino al 1970, poi Mario preferì dedicarsi ad esperienze da solista, e James ed io ci trovammo a fare i conti con un mondo nuovo, quello delle grandi ideologie post-sessantottine, delle coscienze rivoluzionate: non potevamo più cantare temi leggeri, adesso la nostra musica doveva esprimere qualcosa di più profondo. Come i neri da noi tanto amati cantavano la loro cultura e le loro problematiche, anche noi cominciavamo a sentire il bisogno di urlare le nostre esigenze, tribolazioni e speranze.”

Può descriverci le tappe successive più rilevanti della sua carriera?

“Di progetti ce ne sono stati tanti in molti anni di una vita in musica. Diciamo che, oltre ad essere un batterista, ho la fortuna di saper scrivere, e dico «fortuna»perché ogni volta che viene fuori qualcosa di buono per me è un miracolo, un dono, il frutto di un’ispirazione misteriosa. Dopo i Napoli Centrale, di cui ero già autore, molti artisti mi hanno contattato perché componessi testi per loro: ho scritto Andamento lento per Tullio De Piscopo, due album per Edoardo De Crescenzo (uno dei quali vendette oltre 140000 copie), Vera per Sal Da Vinci (con la quale vincemmo il Festival della canzone italiana), che è stata riproposta anche in America da un cantante sudamericano, Marcos Lunas, vendendo circa due milioni di copie, e ho composto anche per Peppino Di Capri, con cui abbiamo partecipato al Festival di Sanremo nel 2001. Ci sono state diverse collaborazioni, al momento sono impegnato con un pezzo al quale partecipa anche Andrea Bocelli, spero vivamente vada in porto, ma il progetto a cui più tengo e che mi tiene impegnato ormai da dieci anni è quello dei Sud Express, nato dalla voglia di fare finalmente qualcosa che fosse mio: nel 2010 è uscito il primo disco, L’ultimo apache, ed ora stiamo lavorando al successivo, di cui sarà ospite anche Gino Paoli. L’estate scorsa, poi, mi contattò Enzo Gragnaniello che, dopo aver assistito a molti nostri concerti, si rese conto che avevamo un sound molto adatto al disco che aveva in mente, uscito un paio di mesi fa (quest’estate ci sarà una tournée) come featuring tra Sud Express ed Enzo Gragnaniello. Come musicista sono stato decisamente fortunato, sì, a maggior ragione in provincia.”

Ecco, appunto. Cosa vuol dire essere un musicista della provincia, e della provincia di Napoli?

“Proprio per questo prima parlavo di miracolo. Sono un miracolato perché oggettivamente sono cosciente delle difficoltà che ci sono qui, non c’è spazio per tanti ragazzi che vorrebbero esprimersi attraverso la musica, è persino difficile arrivare a Napoli, che è un punto di contatto sicuramente maggiore e più centrale. Io, invece, già prima degli Showmen riuscii ad entrare in contatto con l’ambiente della città, mettevo in spalla i pezzi della mia batteria e con l’autobus andavo a Mater Dei per provare col gruppo Rino e gli adolescenti, perché eravamo, appunto, giovanissimi di età (tanto che accanto alla cassa della batteria avevo disegnato un ciucciotto). La provincia è dura, e tuttora, anche perché, nonostante un mondo sempre più globalizzato e apparentemente avvicinante, restano sempre differenze radicate nella mentalità: mi dispiace dirlo, ma sembra che ci sia un complesso di inferiorità per cui si tende sempre ad imitare generi ed artisti in cui in realtà non ci si identifica, mentre bisognerebbe tirarla fuori questa identità, lasciarsi assorbire dagli umori che ci circondano, dalle cose della propria terra in senso lato. Qualsiasi stile musicale è prima di tutto un modus vivendi, non a caso il rap americano nasce ad Harlem e nei bassifondi di New York, e anche in questa provincia e non solo bisognerebbe esprimere la propria realtà piuttosto che scimmiottare quelle più in voga.”

Eppure lei in provincia ha scelto di restarci.

“È stata una scelta assolutamente voluta, sì. Tempo fa la casa discografica Ricordi mi propose un contratto quadriennale, con una villa sul lago di Garda e quattro milioni al mese, più i diritti d’autore per le mie canzoni, ma non ebbi dubbi sul restare qui a Frattamaggiore. Scendo e c’è «o’ scem Rafel»che mi chiede ogni giorno la stessa cosa, il fruttivendolo con cui scambio sempre chiacchierate e abbracci, piccole cose a cui non rinuncerei mai. I valori umani sono importanti, ed è stato proprio per questo che mi è anche capitato di passare anni interi chiuso in casa evitando le public relation, rifiutando di chiamare qualcuno solo per avere il contratto e la carriera facile, nonostante fossero periodi bui in cui non ricevevo proposte.Nessuno scrive al colonnello, recita il titolo di un libro di García Márquez, eppure «il colonnello»si ripeteva sempre di andare avanti e migliorarsi.”

Lei è anche autore. Cosa c’è dietro le sue parole?

“In progetti come Napoli Centrale e Sud Express è Franco che scrive per sé e di sé, mentre come autore per altri artisti cerco sempre di immedesimarmi nelle loro storie, che sono diverse per età, esperienze e tutta una serie di variabili. Ci sono sempre io, con tutto l’universo e l’umanità che mi porto dentro, ma ognuno ha bisogno di cantare qualcosa che rappresenti sé stesso. Con Edoardo De Crescenzo, più o meno mio coetaneo, per cui ho scritto, tra gli altri, E la musica va e Occhi di marzo, è stato molto più semplice identificarmi: non potrei comporre gli stessi pezzi per un ragazzo di diciannove anni. Scrissi, poi, E tu ci sei per Peppino Di Capri, canzone che non volle portare a Sanremo ma che l’ha scosso molto più di altre. «Vivo a Capri e mi manca il mare», scrivevo, perché lo conoscevo e intravedevo la sua solitudine nonostante il benessere economico e la fama, e lui ne rimase colpito come un proiettile in piena fronte, come se si stesse riflettendo in uno specchio. Chiaramente una parte di me viene inevitabilmente fuori nei testi, ad esempio per Sud Express ho scritto Miriam Makeba, in cui la definisco «a’ mamm e’ nu popol”, perché ero rimasto negativamente stupito da come questa cantante sudafricana che tanto aveva fatto per l’apartheid e per la sua gente fosse morta qui, durante un concerto contro la criminalità organizzata, e nessuno avesse fatto nulla per omaggiarla e ricordarla.”

Insomma, Franco, qual è per lei il bilancio di una vita dedicata alla musica?

“Una vita che rivivrei un miliardo di volte ancora. Non nascondo che a tratti mi illudo anche di essere immortale, sebbene poi sia preso dalla paura di diventare troppo vecchio, malato e completamente rincitrullito, però poi guardo il cielo o sento una brezza che viene dal mare e penso a quanto anche la cosa apparentemente più banale sia in realtà grande e immensa, e ringrazio di poterla ancora fare e sentire. Amo la mia vita e miei sogni: l’essenza stessa della vita sono i sogni, al di là di un’effettiva realizzazione, e non è importante arrivare alla vetta, ma camminare per raggiungerla. Se la morte ti coglie durante questo percorso, è la più bella  che possa verificarsi, perché vuol dire che non sei realmente morto, ma vivo nel senso più vero del termine.”

Luisa Lupoli

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