Intervista con Leopoldo Nuti (Università degli Studi Roma Tre)
Intervista con Leopoldo Nuti (Università degli Studi Roma Tre)
Abbiamo intervistato Leopoldo Nuti in occasione del convegno organizzato per il cinquantenario della crisi dei missili di Cuba, svoltosi all'Università di Napoli L'Orientale
Professore Nuti, nel momento cruciale della crisi dei missili di Cuba, quando si temeva lo scoppio imminente di una guerra nucleare, in Italia da che parte pendeva l'ago della bilancia?
Pendeva dalla parte degli Stati Uniti, ma con un po’ più di cautela di quanto ci si sarebbe potuti aspettare. Il governo Fanfani era basato infatti sull’appoggio esterno del PSI di Nenni e doveva barcamenarsi tra l’esigenza di sostenere il principale alleato dell’Italia in una crisi gravissima, e quella di non alienare il partito con il quale si cercava da anni di avviare una collaborazione – e che mostrava ancora una forte diffidenza nei confronti degli Stati Uniti. Fanfani si pronunciò pubblicamente a favore delle misure adottate dagli Stati Uniti ma lodò soprattutto la volontà di cercare una soluzione della crisi all’interno dell’ONU, quasi implicando che l’Italia avrebbe potuto non approvare misure prese al di fuori di quella istituzione. Al tempo stesso Fanfani si attivò per cercare di facilitare una soluzione pacifica della crisi e inviò un suo stretto collaboratore, il sottosegretario agli esteri Carlo Russo, all’ONU, perché potesse tenersi in stretto contatto con l’ambasciatore americano Adlai Stevenson.
Secondo lei la dichiarazione di “quarantena” di Cuba da parte di Kennedy fu interpretata da Khrushchev come una dichiarazione di guerra o piuttosto come una manifestazione di paura da parte degli americani?
Credo che Khrushchev sia stato soprattutto preso di sorpresa da quella reazione, che non si aspettava minimamente, e che sia stato soprattutto preoccupato delle possibili conseguenze che avrebbe potuto avere, trascinando entrambi in una guerra non voluta.
Crede che l'istituzione del cosiddetto “telefono rosso” abbia apportato dei miglioramenti nei rapporti fra i “due K”?
In realtà quello che conta è che entrambi gli statisti si siano resi conto del drammatico pericolo corso e che nei mesi successivi si siano dati da fare per evitare che in futuro si potessero ripetere crisi così gravi. Entrambi rimasero profondamente turbati da quell’esperienza, e non è casuale che nel corso del 1963 ci siano stati vistosi segnali di miglioramento nel sistema internazionale, culminati nel trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nel luglio 1963.
Che ruolo ha avuto l'Italia nella politica estera “kennediana” visto che essa è stata una delle principali basi nucleari europee dell'alleanza atlantica?
L’Italia ha un ruolo del tutto particolare nella politica estera di Kennedy, perché è uno degli stati che si muove con maggiore sintonia con alcune delle linee di fondo della nuova amministrazione. In particolare, l’attenzione ai paesi in via di sviluppo e i cauti tentativi di aprire un dialogo con l’URSS sono elementi che accomunano la politica estera di Kennedy e quella di Fanfani. Ci sono però anche delle divergenze: a JFK non dispiace questa posizione di Fanfani, ma non vuole neanche che un suo eccessivo dinamismo interferisca con i tempi e i modi delle scelte americane – per cui ci sono almeno un paio di occasioni in cui si verificano delle tensioni tra Roma e Washington, prima a causa del viaggio di Fanfani a Mosca nell’agosto 1961, poi durante la crisi di Cuba – quando il 22 ottobre Kennedy chiede che Fanfani sia l’ultimo dei capi di governo europei a essere informato del suo imminente discorso televisivo , per evitare che un preavviso troppo ampio gli dia il tempo di mettere in moto qualche iniziativa negoziale che metta in imbarazzo o intralci l’azione americana.
Un ulteriore elemento di contatto è dato dal progresso dell’apertura a sinistra, che l’amministrazione Kennedy segue con una certa attenzione, dopo averne discusso per oltre un anno. Proprio nell’autunno del 1962 il dibattito interno all’amministrazione sull’opportunità o meno di appoggiare il dialogo tra PSI e DC comincia a evolversi chiaramente verso una decisione favorevole al centro-sinistra. Alla fine i kennedyani appoggeranno il centro-sinistra nella speranza di emarginare il PCI e di rilanciare un progetto riformista in Italia,
Infine c’è il discorso delle basi: l’amministrazione Kennedy è molto preoccupata dalla presenza di missili Jupiter in Italia, attivi fin dall’anno prima e gestiti dall’aeronautica italiana e da quella americana con il meccanismo della doppia chiave. La loro presenza sul territorio italiano ne fa al tempo stesso un possibile bersaglio di un attacco sovietico o un elemento di scambio per la soluzione della crisi, anche se solo indirettamente – dal momento che la loro rimozione sarà decisa per facilitare quella dei missili turchi, al centro della fase finale del negoziato tra Kennedy e Khrushchev.
Nel suo libro La sfida nucleare, lei fa un'attenta analisi delle decisioni prese dall'Italia riguardo l'uso delle armi nucleari. Può esporci meglio questa osservazione?
Per l’Italia il controllo sulle armi nucleari americane schierate sul territorio nazionale era uno strumento per innalzare il proprio rango all’interno della NATO e più in generale del blocco occidentale. La paura di essere esclusi da circoli ristretti, da direttori limitati a Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, è sempre presente, e la diplomazia italiana si batte ripetutamente perché l’Italia non venga marginalizzata. Le scelte nucleari non sono perciò rivolte solo a parare un’esigenza di sicurezza, difendendosi da attacchi sovietici, ma a riequilibrare le relazioni con le altre potenze europee occidentali. Avendo scartato l’ipotesi di un arsenale nucleare nazionale (presa in considerazione solo un paio di volte, e solo per brevi periodi) l’Italia sceglie la strada della “multilateralizzazione” del problema nucleare, sperando di poter avere accesso alle armi atomiche attraverso la NATO.
Nel libro I missili d'Ottobre lei riporta diverse versioni sulla vicenda dell'Ottobre del '62. Ci può parlare della testimonianza secondo lei più attendibile tra quelle che ha raccolto?
Sono molto diverse. Quella di Arthur Schlesinger è emozionante perché molto partecipata sul piano emotivo, essendo stata scritta pochi mesi dopo l’omicidio del Presidente. Schlesinger ne era uno stretto collaboratore e un amico personale, e quindi la sua narrazione risente moltissimo di questa vicinanza – anche troppo, talora, presentando nel caso della gestione della crisi un Presidente quasi sovrumano nella sua infinita saggezza. Di quelle successive, mi convince moltissimo per la sua razionalità e chiarezza, e per la sua capacità di collegare insieme in maniera molto persuasiva elementi anche molto distanti tra loro sul piano concettuale, quella di un altro storico americano, Marc Trachtenberg.
Che lezione possono trarre i giovani di oggi dal superamento di questa “guerra mancata”?
Che le armi nucleari costituiscono ancora oggi un rischio molto elevato, e che è necessario adoperarsi per rinforzare quei meccanismi internazionali, come il Trattato di non proliferazione, che cercano di limitarne la diffusione.
Attualmente sta lavorando su qualche altra idea per un nuovo eventuale libro?
Sì, sto ampliando e integrando il libro La sfida nucleare in vista di una sua traduzione in inglese.
Intervista realizzata da Rossella Natale - Direttore: Alberto Manco