Identità in dialogo all'Orientale

 

Identità in dialogo all'Orientale

Un momento del Convegno del CIRB

Pensabilità e praticabilità tra normative identitarie e giustizia: gli esperti si confrontano sul tema dell'identità nel contesto interculturale


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Il convegno Identità in Dialogo promosso dal CIRB – Centro Interuniversitario di Ricerca Bioetica si è svolto  il 12 e 13 ottobre nella sede del rettorato dell’Università degli studi di Napoli “L’Orientale” e ha avuto inizio con i saluti del Rettore Lida Viganoni, che ha ricordato l'importanza di occasioni di confronto come questa per un Ateneo che da sempre punta sull'interdisciplinarietà e sull'apertura, ponendole al centro dei suoi obiettivi formativi.

Filosofi, giuristi, antropologi e giovani studiosi di diverse aree disciplinari hanno preso parte alle due giornate portando la propria esperienza e il proprio punto di vista sulla questione dell'identità e dell'interculturalità.

Durante l'apertura dei lavori, affidata al Presidente del CIRB, il giurista Lorenzo Chieffi, sono state introdotte le principali tematiche affrontate nelle diverse relazioni mentre la filosofa Rossella Bonito Oliva – presidente della Commissione etica dell'Orientale, membro del consiglio direttivo del CIRB ed organizzatrice dell'evento – ringraziando i “giovani” per aver accettato la sfida, ha spiegato che si è scelto di dare spazio a dottorandi, dottori di ricerca, assegnisti e ricercatori, affidando ai “meno giovani” il ruolo di discussant: un elemento che ha caratterizzato ancor di più questa occasione come momento di dialogo e confronto.

Giuseppe Cacciatore ha avviato la prima sessione – Identità culturale e cura, presieduta da Giuseppe Cantillo – parlando di Vanna Gessa Kurotschka, studiosa che ha contribuito alla costituzione di questo gruppo di lavoro, scomparsa l'anno scorso, la cui ricerca filosofica mostra una costante curvatura etica e il cui universalismo non solo riconosce, ma comprende la differenza e l'interculturalità. A lei sono dedicate queste giornate di studio.

Accanto alla realizzazione di una teoria del bene non relativistica ma prospettica, la studiosa colloca una idea di politica democratica che si traduce in pratiche per la difesa dei diritti umani: “Al di là delle differenze di tempo e luogo” – queste le parole della Kurotschka citate da Cacciatore – “ci riconosciamo come esseri umani”: esseri fragili che, per la propria realizzazione, hanno bisogno dell'aiuto degli altri, della loro solidarietà, del confronto e, soprattutto, di una comunità politica in cui essere collocati. Il pensiero della studiosa, quindi, sembra racchiudere il filo conduttore del convegno: la pensabilità e soprattutto la praticabilità delle normative identitarie in un contesto che è sempre relazionale.

Il primo intervento di Viola Carofalo – un dottorato di ricerca al SUM e un altro in corso all'Orientale – ha affrontato il tema della terapia come pharmakon in Fanon proponendo una riflessione sulla cornice teorica che ha contribuito a dipingere il colonialismo non solo come accettabile ma addirittura “salvifico”. Se per la psichiatria tradizionale la guarigione passa soltanto per l'accettazione del “paternalismo” coloniale, per Fanon l'unica cura possibile è una cura collettiva, un'espressione della facoltà di agire contro il “movimento immobile” che in realtà crea le condizioni stesse della nevrosi. Tra indolenza e violenza, quindi, è la seconda a rappresentare la vera via d'uscita e l'unica terapia possibile e la psichiatria smette di essere pharmakon, e veleno, solo quando il popolo prende coscienza della propria esistenza e del proprio diritto ad agire.

Rossella Bonito Oliva, nel ruolo di discussant assieme all'antropologa Carla Pasquinelli, ha posto l'accento sulla “sottovalutazione tutta moderna” di Fanon e sul ribaltamento del valore della maschera classica: se nell'antica Grecia la maschera nasconde il volto, sì, ma amplifica la voce – uno degli elementi più identitari della persona – in Fanon la maschera zittisce e sembra rimandare ad una sorta di autismo, risultato della colonizzazione e dell'oppressione.

La relazione di Carla Pasquinelli, dal titolo Etnocentrismi, ha affrontato la questione dell'identità e dell'appartenenza etnica soffermandosi sul ruolo che hanno le parole. Come ha ribadito più volte la studiosa: “Quello della migrazione è un campo minato, in cui le parole non sono mai innocenti”, e le metafore culinarie adoperate in America per descrivere la convivenza tra persone appartenenti a culture diverse – dal melting-pot alla salad-bowl – hanno permesso di ricordare, citando Stuart Hall, che: “Non c'è un mondo esterno che esiste indipendentemente dai discorsi che lo rappresentano”.

Infine, Massimo Barra – Presidente della Commissione permanente della Croce Rossa e di Mezzaluna Rossa – ha concluso la prima sessione con un messaggio semplice ma d'effetto, essenziale per chi come lui, al di fuori dell'ambito accademico, si occupa dei diritti umani e della loro tutela: l'importanza del diritto alla felicità, un diritto che proprio nel caso dei migranti deve essere considerato come primario, il diritto ad agire alla ricerca di libertà e di condizioni di vita migliori.

La seconda sessione, intitolata Figure dell'identità e presieduta da Giuseppe Lissa, ha avuto inizio con la relazione di Rosario Diana, ricercatore del CNR, che si è concentrata sulla definizione di identità, descritta metaforicamente come una trama di rapporti, fatta da alcuni colori predominanti che però si modificano costantemente acquisendo di volta in volta nuove sfumature. Un'identità che non è mai monolitica, ma sempre relazionale e in costante costruzione anche attraverso il processo di riconoscimento del sé nell'altro. E proprio su questo concetto si è soffermata la Bonito Oliva, nel ruolo di discussant assieme a Giuseppe Cacciatore, parlando del problema del riconoscimento: nell'identificazione, infatti, l'altro non è al di fuori ma è già dentro di noi, e quest'ambiguità intrinseca, dell'altro che è in me, non è e non potrà essere risolvibile.

La relazione di Giuseppe D'Anna, ricercatore all'Università di Foggia – seguita da un vivace dibattito a cui hanno preso parte come discussant Pietro Cacciatore e Rosario Diana – ha trattato dell'inimmaginabilità dell'altro intesa come strumento metodologico attraverso cui dare una nuova spinta alla riflessione interculturale: se la spettacolarizzazione diventa un modus operandi per creare nuovi mezzi di manipolazione politica e sociale, allora l'immaginazione rischia di non essere più espressione creativa della soggettività, ma diventa uno strumento precostituito di valori già orientati.

Portando il discorso dall'ambito filosofico verso quello giuridico, Valeria Marzocco, ha affrontato la delicata questione del perdono come “insito nella giuridicità e nell'ordinamento” nel tentativo di fare chiarezza sull'ambiguità – anche in questo caso – delle possibili definizioni. È infatti necessario distinguere tra un perdono come atto o esperienza che è collocabile in un contesto giuridico ed è concepibile come una sorta di costruzione ed un perdono che è, invece, evento della coscienza, esperienza privata ed individuale che sfugge al diritto e anzi – come ricordato da Pietro Ciarlo che ha citato il caso della presunto abuso sessuale di Polanski – a volte può essere addirittura ignorato dal sistema giuridico, creando una sorta di accanimento che non può che nuocere. Emilia D'Antuono e Fabio Ciaramelli, nel ruolo di discussant, hanno ricordato l'importanza del perdono inteso come evento che scioglie un nodo, proiettando l'individuo e la collettività verso il futuro, come è accaduto ad esempio nel caso della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del dopo apartheid e come invece non è mai accaduto rispetto al colonialismo italiano, sul quale c'è sempre stato una sorta di oblio totale.

Nell'ultima relazione della giornata Beatrice Ferrara, dottore di ricerca all'Orientale, ha ripreso il tema della spettacolarizzazione attraverso un interessante confronto tra la il film muto del 1915 di D.W. Griffith, The birth of a Nation, e la sua rielaborazione contemporanea nel remix di Dj Spooky, alias Paul D. Miller, The Rebirth of a Nation. La manipolazione del film originale – attraverso l'utilizzo delle moderne tecnologie di montaggio, a cui si va ad aggiungere il portato sonoro – diventa lo strumento per la creazione di nuovi flussi di memoria attraverso una sorta di esercizio interculturale ed intersemiotico il cui risultato è quello di declinare la storia in molteplici direzioni. Silvana Carotenuto, discussant insieme a Iain Chambers, ha approfittato per tirare le fila delle diverse tematiche affrontate nella prima giornata e ha sottolineato quanto l'intertestualità di Miller sia capace di svelare le “pieghe” del pensiero di Griffith e mostrare di cosa è capace la mente umana: usare la genialità e la tecnica – il montaggio, per la precisione, che non è altro che una forma di scrittura – per giustificare l'orrore. Iain Chambers ha concluso i lavori chiedendosi se, a questo punto, non sia il caso di spostare l'attenzione sui limiti del pensiero occidentale – ancora poco critico verso le proprie sovrastrutture – limiti che vengono così spesso messi in luce dalla riflessione di chi è “altrove”.

La seconda giornata, presieduta dal pro-rettore Giuseppe Cataldi, ha avuto come filo conduttore l'identità nella dimensione giuridica. Ricordando quanto in questo preciso momento storico le questioni dei migranti siano tra le più urgenti, il Prorettore ha sottolineato la necessità di una riflessione critica che tenga conto di tutti i diritti che entrano in gioco quando si parla di identità: diritti pubblici, privati, ma soprattutto umani.

Adele del Guercio, assegnista all'Orientale, ha aperto la terza sessione intitolata Migrazione e accoglienza. Una questione di diritti affrontando il tema della tutela del minore straniero. Esiste un divario tra le garanzie dell'ordinamento internazionale, di quello italiano – di cui il diritto all'unità familiare appare come uno di quelli fondamentali della persona – e gli effetti prodotti dalle reali prassi italiane in materia di trattamento dei minori.

Andrea Patroni Griffi – professore di Diritto pubblico presso la Seconda Università di Napoli nel ruolo di discussant insieme a Giuseppe Cataldi – accennando ai principi di proporzionalità che l'Europa richiede, ha sottolineato come le discrasie tra i principi e le concrete pratiche dimostrano come sia possibile eludere le normative.

Nadia Matarazzo, dottore di ricerca in Geografia dello Sviluppo all'Orientale, ha parlato del lavoro di tesi descrivendo Istanbul come polo urbano migratorio in continua e profonda trasformazione, nodo della geopolitica eurasiatica e border city, una città di frontiera non solo geografica, ma politica e sociale. Fabio Amato – discussant insieme a Lea Nocera – si è soffermato sulla transcalarità delle migrazioni e sulle conseguenti frizioni d'identità che, come evoca il titolo del convegno, si spera siano sempre più spesso in dialogo: la lettura del fenomeno migratorio, infatti, non si presta mai alla semplificazione desiderabili ed ha bisogno di tante lenti e di una lettura che passi continuamente dal micro al macro. Lea Nocera, docente di turco all'Orientale, ha infine tracciato un quadro della fisionomia geopolitica della città, sottolineando l'immagine venuta fuori dalla relazione della Matarazzo: una megalopoli altamente complessa, plurale e diversificata, i cui recenti cambiamenti dal punto di vista giuridico – con le leggi sull'immigrazione – e dal punto di vista urbanistico – con un tentativo di marginalizzare le presenze irregolari interne ed esterne verso i confini della città e quindi del suo sistema politico – non fanno altro che dimostrare la complessità di queste frizioni.

Maria Rossi, addottorata all'Orientale, ha spostato il discorso sulle comunità migratorie latinoamericane sottolineando ancora una volta il valore del lessico. L'imposizione dall'esterno del concetto di “latino-americani” ad un'eterogeneità di persone ha creato, infatti, una sovrastruttura identitaria che tuttavia non appare più come imposta dal cosiddetto “primo mondo” ma che acquisisce nuove sfaccettature costruendosi come un'identità nella quale gli uomini si riconoscono; una sorta di collante capace di ricostruire un'identità individuale che coincide con quella collettiva senza però cancellare le singole identità nazionali. “Categorizzata dalla storia e, identificata dai protagonisti come risposta a questa categorizzazione, ciò che resta della definizione di latinoamericani è un noi a cui si appartiene, capace di produrre identificazione e senso di comunità”. Raffaele Nocera, nel ruolo di discussant, fa riferimento ad una recente pubblicazione della Rossi (Napoli barrio latino, edizioni Arcoiris, 2011, NdR) per sottolineare il valore dei suoi studi: nonostante l'immigrazione di latinoamericani sia tra le più consistenti, nel nostro Paese questa presenza non è stata finora oggetto di studi approfonditi. Fabio Amato, l'altro discussant, si è soffermato invece sulla femminilizzazione del processo migratorio – tipico nel caso delle donne peruviane, che sono spesso il primo migrante, ovvero quello che poi prende su di sé la responsabilità del resto della famiglia – che si rivela uno degli aspetti più interessanti dei fenomeni migratori contemporanei.

L'ultima relazione, affidata a Giampiero Coletta, ricercatore di Diritto pubblico della Seconda Università di Napoli, a cui hanno fatto da discussant Pietro Ciarlo ed Emanuele Rossi, ha parlato della delicata questione della cittadinanza dei migranti. Anche se è già dagli anni Sessanta del secolo scorso che l'Italia si è trasformata in un paese di immigrazione, la legge del 1992 – che si basa sul cosiddetto jus sanguinis – appare come una normativa che guarda al passato e che oggi palesa tutta la sua irragionevolezza: possono partecipare alle elezioni persone di cittadinanza italiana che risiedono però da decenni all'estero, mentre ne sono esclusi quelli che qui risiedono, lavorano e partecipano alla vita civile pur non avendo tuttavia acquisito lo status civitatis.

Pietro Ciarlo, a questo proposito, ha citato la spinosa questione del voto degli italiani all'estero, un voto a cui nessuno si è mai opposto per una questione di clientelismo politico. Il docente di Diritto costituzionale ha cercato di alleggerire il discorso chiarendo perfettamente però il senso del suo intervento con un semplice gioco di parole: “più che di cittadinanza italiana, sembra di essere davanti ad una cittadinanza all'italiana”.

Il Prorettore Cataldi, in riferimento alla questione del voto agli immigrati, ha tenuto inoltre a precisare quanto la questione meriti attenzione da parte dei costituzionalisti: “Il vecchio jus sanguinis va mitigato e ci sono soluzioni nuove da esplorare, un compito che si spera possa essere affrontato con la prossima legislatura”.

Emanuele Rossi, infine, ha chiuso la seconda giornata precisando come la relazione di Coletta abbia posto con attenzione un tema che non è tra i più esplorati, ovvero il delicato rapporto tra cittadinanza e nazionalità. La questione ha un suo valore degno di considerazione – non tanto dal punto di vista giuridico, ma soprattutto politico – proprio perché l'Italia è un paese di frontiera. Non c'è un vincolo costituzionale che impedisce l'inversione dell'attuale norma – preferendo il criterio dello jus soli – ma l'equazione cittadinanza italiana=cittadinanza europea deve spingere tutti a riflettere in maniera critica sulla questione: l'estensione del diritto di cittadinanza, infatti, non deve essere collegata soltanto al diritto di voto ma ad un insieme di diritti e doveri complessivo.

Identità, dialogo, alterità, strategie di identificazione e di differimento, istanze collegate alla questione del riconoscimento del sé e dell'altro, diritti, doveri. Gli aspetti filosofici, giuridici, politici, etici e antropologici, si intrecciano in un quadro altamente complesso. Ciò che traspare è la necessità, ineluttabile, di considerare l'uomo sempre in una dimensione dialogica e mai isolata: una dimensione che, proprio in quanto relazionale, appare come mutevole e in costante rifefinizione. Recuperando le parole della studiosa Vanna Gessa Kurotschka già citate: “ci riconosciamo come esseri fragili […] che per poter realizzare sé stessi, hanno bisogno degli altri”. E senza dialogo ciò non è possibile.

Azzurra Mancini

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