Michelangelo Cocco: intervista a un giornalista

 

Michelangelo Cocco: intervista a un giornalista

Michelangelo Cocco

Laueato all’Orientale, ora corrispondente estero de Il Manifesto. Un segreto della professione? “Impegno, professionalità, anticonformismo, e comprensione dell'altro”. L’Orientale? “L'ambiente umano, culturale e politico che gravitava attorno a palazzo Corigliano e palazzo Giusso per me è stato straordinariamente stimolante”

 

 

 

Lei si è laureato all’Orientale. A quale Facoltà è stato iscritto?

“Alla Facoltà di Scienze Politiche, indirizzo storico-politico”.

Su cosa si è concentrato il suo lavoro di tesi e chi è stato il suo relatore?

“Mi sono laureato con la professoressa Maria Cristina Ercolessi e con Alessandro Triulzi come correlatore con una tesi sul processo di riconciliazione post-apartheid in Sudafrica. Ho esaminato l'inizio dei lavori della commissione per la verità e la riconciliazione (Trc): un organismo molto interessante perché ha rappresentato il tentativo di porre fine alla discriminazione istituzionalizzata dei neri in Sudafrica attraverso un processo di riconoscimento dell'altro (i bianchi riconoscevano i neri e viceversa) e di ricostruire la storia di quegli anni attraverso una piena confessione da parte di chi aveva commesso delitti politici in cambio dell'amnistia; un esperimento che quando ho scritto la tesi stava muovendo i primi passi ma che era il frutto delle riflessioni di personaggi di grandissima statura morale come l'arcivescovo sudafricano Desmond Tutu e altre personalità che si erano battute contro il regime segregazionista.

Mi piacerebbe poter andare in Sudafrica per vedere, ora che il paese fa parte dei Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica: i paesi 'in via di sviluppo' ad alta crescita), a che punto è la 'riconciliazione' economica-sociale dopo quella politica.”

Crede che provenire da un’università prestigiosa come l’Orientale sia stato un buon biglietto da visita per la sua carriera?

“Sicuramente sì. Per il curriculum, la laurea all'Orientale rappresenta un eccellente biglietto da visita e come tale è stato preso quando ho fatto l'esame per accedere alla scuola di giornalismo. Anche da un punto di vista strettamente personale sono estremamente grato all'ateneo campano e ad alcuni docenti, tra cui Maria Cristina Ercolessi, sia per l'impostazione della didattica sia per l'ambiente umano, culturale e politico che gravitava attorno a palazzo Corigliano e palazzo Giusso che per me è stato straordinariamente stimolante: circolavano idee molto progressiste e ognuno poteva dire la sua liberamente, a lezione come nelle assemblee politiche; i corsi erano tenuti da docenti molto preparati e con un rapporto dialettico con gli studenti. Insomma, per me l'Orientale ha rappresentato un'esperienza che mi ha segnato in maniera estremamente positiva dal punto di vista umano, culturale, politico.”

Quali sono i Suoi ricordi dell’esperienza all’Orientale?

“Direi anzitutto l'aria di libertà che vi si respirava. Stiamo parlando degli anni in cui l'iscrizione costava – se non sbaglio – trecentomila lire e le tasse universitarie erano ancora alla portata di tutti; erano, insomma, gli ultimi residui dell'università di massa. Non so oggi se e come questo sia cambiato all'Orientale ma allora i programmi ed i corsi erano tantissimi, c'era un'offerta formativa incredibilmente varia che, ovviamente, non rispondeva che in minima parte alle esigenze delle aziende; insomma lauree umanistiche dure e pure e, in questo contesto, c'era un livello di anticonformismo decisamente adeguato a una formazione al passo con i tempi e proiettata anche, se necessario, oltre i confini nazionali. Un anticonformismo che, nel mondo del lavoro – anche di un lavoro come quello del giornalista – te lo sogni. Anzi, basta dare uno sguardo superficiale al panorama dei media italiani per rendersi conto che a dominare è proprio il conformismo che non è frutto soltanto del dominio di gruppi industriali sui principali media ma, a mio avviso, anche del conformismo di noi giornalisti.

E poi ricordo questi due palazzi antichissimi (sono davvero poche le università in giro per il mondo ospitate in luoghi incantevoli come palazzo Giusso e palazzo Corigliano) sede di un'istituzione culturale nel bel mezzo di un quartiere con innumerevoli problemi come Mercato Pendino, un'area dove una cospicua fetta di abitanti non arriverà a completare le scuole superiori. Erano i primi anni di Bassolino sindaco e tra l'università, gli abitanti del quartiere e migliaia di napoletani che venivano da altre zone della città si era creata una bella atmosfera. Passavamo le serate in piazza S. Domenico, dove c'erano migliaia di persone, a chiacchierare, bere e fumare per tutta la notte. C'erano concerti e altre attività culturali: un incantesimo che è durato pochi anni, sopraffatto dal degrado e dalla mancanza di idee.

L'idea che ora quelle zone siano ridiventate pericolose di notte e che non siano più frequentate dagli studenti mi fa molto arrabbiare: è una pessima cosa sia per gli studenti che per i napoletani delle classi più svantaggiate che vivono attorno all'università e che giustamente sentono “loro” quella parte di Napoli, mentre in tante altre città d'Europa i processi di ristrutturazione hanno espulso gli abitanti originari dalle zone dei centri storici.”

Scrivere è sempre stata una sua passione?

“Sì, e mi sono occupato sempre di articoli giornalistici, non mi sono mai avventurato nel campo della letteratura o della poesia. Al liceo avevo messo su, assieme a dei compagni, un giornalino d'istituto durante le contestazioni alla riforma del ministro Ruberti. All'Orientale ho seguito corsi di studio molto indirizzati verso il giornalismo. Anche se non c'era un vero e proprio Corso di laurea in giornalismo, il mio percorso di studi mi ha dato una formazione a 360 gradi, uno sguardo molto aperto sulla storia, la politica e le altre culture, che è indispensabile per una chi voglia intraprendere un mestiere come il mio.

Terminati gli studi universitari mi sono iscritto ad una scuola di specializzazione in giornalismo, la Luiss di Roma. Un bel salto dall'Orientale a Confindustria.”

Attualmente lei è corrispondente per il quotidiano Il Manifesto. Come si è avvicinato al mondo del giornalismo e in quali redazioni ha mosso i primi passi?

“Durante la scuola di specializzazione ho avuto la possibilità di svolgere il mio primo stage estivo di tre mesi a Milano, al Corriere della Sera, nella redazione 'politica': forse il posto più importante del più influente quotidiano italiano. È stata un’esperienza utilissima per capire dall’interno come funziona un grande giornale e imparare le basi del mestiere. Il Corriere è il giornale dove si presta più attenzione ad una serie di elementi come l'accertamento della veridicità delle fonti, lo stile di scrittura asciutto, l'importanza di una titolazione ben fatta, solo per citarne alcune, che per il giornalismo sono fondamentali. Il secondo stage estivo l'ho fatto a Il Manifesto e lì sono rimasto: politicamente e giornalisticamente mi sentivo a casa mia lì, a via Tomacelli, molto più che a via Solferino.”

Per motivi di lavoro Lei ha viaggiato a lungo in Grecia e qualche mese fa ha pubblicato il libro Il fuoco di Atene sulla crisi economica che ha paralizzato il Paese. Ce ne potrebbe parlare?

Il Manifesto mi ha inviato ad Atene un paio di volte nella primavera del 2010: era il periodo in cui si iniziavano a vedere gli effetti delle politiche che il governo greco - di fatto sotto tutela da parte della Banca centrale europea e del Fondo monetario internazionale – ha preso per affrontare la crisi. Già allora era evidente chi avrebbe pagato il prezzo di una crisi che è bancaria, istituzionale ed europea al tempo stesso:la classe media, che con le misure approvate viene spinta verso il fondo, e la povera gente. Quello che mi ha colpito fin dall'inizio è stato l'incredibile livello di consapevolezza e mobilitazione dei greci: cortei con centinaia di migliaia di persone in un paese di 11 milioni di abitanti! Almeno metà del Paese si è mobilitato contro quella che è divenuta nota come la 'Troika' (Bce, Commissione europea e Fmi). E la sinistra greca che, nonostante le sue feroci divisioni, è straordinaria: gente generosissima che ha ancora il coraggio e la forza di sognare una società diversa. Roba che in Italia è stata cancellata alla fine degli anni Settanta.

Dopo queste due prime esperienze, in uno dei periodi di cassa integrazione (Il Manifesto è un giornale sempre in crisi: sostenetelo!) mi sono trasferito ad Atene per oltre un mese, nel gennaio-febbraio 2011, e lì ho fatto le interviste ai personaggi che avevo precedentemente contattato, perché mi sembravano delle persone il cui punto di vista potesse essere interessante anche per la sinistra italiana che ha perso da tempo l'abitudine di sognare o, quantomeno, di provare ad immaginare qualcosa di diverso dallo status quo. Quella greca è una società estremamente politicizzata, la gente discute di politica al bar, nelle piazze, ovunque; la politica è vista nel senso letterale del termine, qualcosa che riguarda tutti, non un'élite separata dal resto della popolazione. La crisi greca ci riguarda tutti. Le politiche che le istituzioni internazionali stanno sperimentando in Grecia ora stanno arrivando in Italia e ci colpiranno ancora più duramente nei prossimi mesi. Si scarica sui lavoratori, a partire dai dipendenti pubblici salassando i quali è facile fare cassa subito, il costo di una crisi di cui non sono responsabili. La Grecia è stata utilizzata per testare fino a che punto una popolazione può tollerare misure di 'macelleria sociale'. Teniamo presente che il popolo greco è un popolo coraggioso e che ama la libertà: la guerra partigiana in Grecia, molto più che in Italia, è stata una guerra di popolo; i greci si sono liberati dal nazismo praticamente da soli ed oggi si cancellano pezzo pezzo, nel giro di pochi mesi, le conquiste dello stato sociale, l'istruzione e la sanità gratuita, pensioni dignitose, un livello di tassazione tollerabile. Tutto viene cancellato sotto i diktat della Bce e del tentativo di costruire un'Europa sul modello sognato dalla Germania. Una nemesi storica, se non fosse che il governo tedesco attuale è liberal-conservatore e non nazista. In Italia la situazione sembrerebbe meno drammatica ma con una sinistra così inesistente sarà ancora più facile cancellare definitivamente le conquiste delle lotte dei nostri nonni.

Ad Atene compariva spesso uno striscione che diceva, testualmente: Stiamo morendo. Ieri ho sentito un mio amico greco, profondamente colpito dalla crisi, che mi ha detto: Ci stanno uccidendo.”

In tutto il mondo si sta sollevando un malcontento diffuso e “gli indignati” aumentano di giorno in giorno. Crede ci possa essere una via d’uscita “pacifica” da questa situazione di grande crisi che sta investendo progressivamente tutti i Paesi industrializzati?

“Rispetto chiunque si ribelli alle ingiustizie; ingiustizie che sono evidenti nel modo in cui i governi stanno provando a gestire la crisi. Questo rispetto, tuttavia, non m'impedisce di vedere la debolezza di questo movimento: assieme a pezzetti di 'vecchi militanti della sinistra', nel movimento degli indignati confluiscono una gran quantità di persone che mi pare non abbia grossi riferimenti politici e culturali e questo rappresenta sicuramente una debolezza. La fine della sinistra tradizionale ha lasciato spazio alla rivolta come unico orizzonte di contestazione. Un tempo si sognavano rivoluzioni o, più modestamente, si proponevano riforme a partiti visti come 'amici', oggi le contestazioni si rivolgono contro i partiti ma nello stesso tempo dalla Rivoluzione francese nessuno ha ancora inventato un modo alternativo per cambiare le cose – l'ordine della società intendo – rispetto a quello di un partito di massa. Temo, quindi, che vedremo moltiplicarsi le rivolte sul modello di quella recente in Gran Bretagna ma anche di quelle nel napoletano contro le discariche e così via. Rivolte che, politicamente, fanno fare pochi reali passi avanti.”

Cosa significa vivere in un luogo in cui la libertà di stampa viene messa continuamente in discussione, se non è osteggiata con vari mezzi, e con questo non si fa riferimento soltanto al paese in cui vive attualmente, ma anche a quello da cui proviene, cioè l’Italia?

“L'Italia è una democrazia, la Cina no, ma in Italia si stanno compiendo passi indietro rispetto alla democrazia mentre in Cina, per molti aspetti, passi avanti. Credo che Berlusconi, nel nostro Paese, abbia iniziato a cambiare la democrazia dalla metà degli anni Ottanta perché, prima degli altri, aveva capito l'importanza dei media e li ha usati (a partire da Canale5) per promuovere il suo modello di società basato sul denaro e sulla cultura aziendale contribuendo in maniera molto importante all'indebolimento delle forme tradizionali di partecipazione. Il Drive in, i telefilm importati dagli Usa e la pubblicità commerciale hanno sedotto il popolo e lentamente hanno trasformato il cittadino-elettore in spettatore-consumatore. Quello che vediamo oggi, con i patetici tentativi di censura berlusconiana, sono solo le ultime manifestazioni della sua cultura aziendale. L'assalto alla libertà d'informazione in Italia è partito molto tempo fa e oggi lo potete giudicare meglio voi di me che sono un po’ lontano.

In Cina invece si è partiti da una situazione di quasi totale mancanza di libertà d'espressione – se con questo intendiamo il pluralismo dei mass-media – ma pian piano gli organi d'informazione, trainati da tanti internauti che sul web osano sfidare le autorità, stanno diventando molto più 'pluralisti'. Con questo non intendo che mettono in discussione il partito comunista o che parlano liberamente dei diritti delle minoranze uigure e tibetane (tanto per citare alcuni degli argomenti più sensibili) ma sui giornali e, soprattutto, in internet c'è certamente più libertà oggi di quanta non ce ne fosse qualche anno fa. La Cina ha necessità di aprirsi (a meno che la crisi non precipiti facendo tornare i nazionalismi e il protezionismo a livello planetario); questo significa necessariamente accettare un certo grado di democrazia.”

Lei è stato corrispondente per Il Manifesto dalla Palestina e ha intervistato diversi personaggi di spicco – per citarne alcuni il professor emerito di Diritto internazionale alla Princeton University, Richard Falk e Ilan Pappé, professore alla University of Exeter e attivista politico – sulla questione palestinese e sullo stato dei diritti umani in Medio-Oriente. Cosa emerge da queste esperienze?

“Con il Medio Oriente e la Palestina, in particolare, mi sono avvicinato al giornalismo. Tutto è nato con un viaggio in Palestina assieme all'Associazione per la pace. Falk e Pappé sono due ebrei – uno statunitense, l'altro israeliano – due autentici combattenti per la libertà del popolo palestinese. La Palestina ha questo di straordinario: è una terra piccola in cui sono concentrati una gran quantità di nazionalisti da una parte e dall'altra. Ovviamente uno è un nazionalismo ammirato e considerato legittimo (il sionismo) l'altro (quello palestinese) viene sistematicamente represso da almeno un centinaio di anni. In mezzo a questa massa di nazionalisti, a contraddizioni spaventose tra povertà e ricchezza, a violenze a volte efferate, fanatismi religiosi e quanto di peggio al mondo un progressista possa immaginare, trovi gente fantastica come Pappé o tanti altri ebrei israeliani e palestinesi che ho avuto la fortuna di conoscere e intervistare; persone che immaginano una Palestina senza frontiere dove ebrei e arabi (come sudafricani bianchi e neri, in un certo senso) metteranno un giorno da parte le differenze e capiranno che devono vivere assieme in quella terra. E, magari, lo faranno anche riconoscendo le sofferenze inflitte ai palestinesi e (in misura estremamente minore) agli ebrei israeliani nel corso degli ultimi quarantaquattro anni di occupazione militare della Cisgiordania e di Gaza. Gente – questi ebrei e questi palestinesi di cui parlo – estremamente preparata, che ha dedicato una vita intera a una causa, quella dell'autodeterminazione dei palestinesi, della pacificazione e del riconoscimento reciproco, apparentemente persa.”

Lei ha fatto l’inviato in molti altri Paesi. Con quali realtà si è dovuto confrontare e qual è il bagaglio che ha portato con sé una volta tornato a casa?

“Finora per lavoro ho viaggiato prevalentemente in Medio Oriente, Europa e Cina e mi sono occupato molto spesso di Islam. Da persona non religiosa, ho imparato ad apprezzare i credenti di un credo come quello musulmano, che dopo l'11 settembre 2001, continua spesso ad essere identificato con l'estremismo o col terrorismo. Non è facile confrontarsi con persone – i fondamentalisti ad esempio – che quando ti chiedono di che religione sei e gli rispondi 'nessuna' inorridiscono o per le quali è inconcepibile che tu non sia sposato con la persona con cui vivi. Tuttavia ritengo che la maggior parte delle barriere siano iniziali, spesso solo esteriori. Superati questi steccati – grazie anche a un bagaglio come quello fornito dall'Orientale e a un mestiere affascinante come quello del giornalista – si possono apprezzare queste realtà diverse invece di concentrarci sulla diversità. Provando a indagarne le ragioni storiche, sociali ed economiche molte cose che inizialmente ci sembravano incomprensibili risulteranno molto più chiare e, nello stesso tempo, avremo più simpatia per l’'altro'. È proprio questo il bagaglio più prezioso che mi sono portato dietro dalle mie esperienze giornalistiche all'estero.”

Il suo attuale incarico l’ha portata in Cina, precisamente a Pechino. Di cosa si sta occupando attualmente?

“È la quarta volta che sono in Cina e spero di rimanerci a lungo. Qui ho messo su quello che può essere considerato a tutti gli effetti un ufficio di corrispondenza, anche se è in una stanzetta del mio appartamento in affitto: ho un pc, un'interprete che mi aiuta nel lavoro, mi muovo all'interno del paese ma si tratta di una realtà estremamente complessa come non potrebbe essere altrimenti in un paese di 1,3 miliardi di abitanti e con la storia lunga come quella della Cina. Posso dire tranquillamente che sto muovendo qui i primi passi, anche se, malgrado le difficoltà con la lingua e la cultura diversa, non mi sento come un astronauta sulla Luna. Quello su cui mi voglio concentrare sono i cambiamenti: la Cina è un paese in evoluzione, sia da un punto di vista socio-economico sia istituzionale. I lavoratori lottano per i propri diritti, i cittadini si ribellano contro progetti delle autorità che giudicano contrari ai loro interessi. Mi interessa molto osservare questi fenomeni e come essi incidano sul cambiamento politico-istituzionale. Non sarà facile e, probabilmente, molti altri ci riusciranno molto meglio di me, ma credo che questo sia il mio compito come giornalista.”

Un consiglio che si sente di dare agli studenti che tentano di seguire le sue orme nel mondo del giornalismo.

“Sento che ho ancora tantissima strada da fare e ritengo che ognuno debba seguire la propria ispirazione piuttosto che le orme di qualcun altro. Detto questo, senza dubbio quello che mi ha aiutato molto è stato l’impegno costante. 'Sempre meglio che lavorare': proclama un vecchio detto a proposito del mestiere giornalistico. Al contrario, credo che per farlo in maniera onesta e interessante per i lettori bisogna lavorare molto duro, soprattutto oggi che vecchi privilegi legati alla professione sono spariti e che quello delle notizie è un mercato per certi aspetti come tanti altri, deregolamentato e dove spesso a essere premiata non è la professionalità o la vivacità intellettuale ma il conformismo.”

Chiara Pasquinucci