Iaia De Marco: L'Orientale? Una Università per chi cerca complessità e diversità
Iaia De Marco: L'Orientale? Una Università per chi cerca complessità e diversità
"Per me l’esperienza di studi all’Orientale ha significato, e significa tutt’ora, una formidabile e costante occasione di incontro e confronto con culture e persone: gli altri, in carne, ossa, letteratura, religione e politica"
Mi sembra che Lei si sia iscritta all’Orientale dopo aver lasciato il lavoro nel quale era impegnata. Perché decise di abbandonare il lavoro? E come mai pensò all’Orientale? Quale aspetto del nostro Ateneo Le sembrò interessante?
Decisi di abbandonare il lavoro, che avevo intrapreso vent’anni prima, perché compivo 40 anni e mi sentivo pronta per la mia seconda opportunità. Ero stata agente di assicurazioni e avevo voglia di cambiare completamente universo, ne volevo uno totalmente “insicuro”, terreno di novità e scoperte. Dunque: le lingue. Dunque: l’Orientale, by definition! Anche se ricordo di avere, inizialmente, considerato Trieste che aveva attivato in quegli anni un corso di laurea sul multiculturalismo. Prevalsero considerazioni di natura familiare e un inatteso (per me che mi considero esente da radici) orgoglio regionalista. L’Orientale fu il mondo a portata di metropolitana.
A quale Corso di laurea s’iscrisse e perché?
In parte credo di aver già risposto a quest’ultima domanda. In più, pesò l’anno della mia immatricolazione, quel 1999 che chiudeva il decennio tragico che aveva riportato la guerra vicinissima ai nostri confini. I dubbi e le domande scaturiti da questo ritorno inquietante stentavano a trovare risposte nei canali consueti dell’informazione. Poteva giovare, ritenni, approfondire conoscenze storiche, culturali, antropologiche. M’iscrissi al Corso di laurea in “Lingue culture e istituzioni dei Paesi del Mediterraneo”.
Quali lingue decise di studiare? Quali le ragioni della Sua scelta?
Portoghese e serbo-croato (secondo la denominazione che ancora in quel periodo resisteva e che sarebbe stata poi sostituita da “serbo e croato”, a rimarcare la separazione politica intervenuta). La scelta del portoghese fu ispirata da un’antica passione per Jorge Amado. Quella del serbo-croato, in realtà, si concretizzò in seconda battuta, dopo aver verificato per un paio di mesi – ed entro il termine utile per modificare il piano di studi – l’inadeguatezza delle mie sinapsi a trattenere l’arabo, che era stata la mia prima opzione. A quel tempo il Corso di laurea del Mediterraneo imponeva che le due lingue appartenessero a ceppi e aree diversi, era escluso dunque che potessi ripiegare sui più confortevoli apprendimenti di francese o spagnolo. Prevalsero allora, come accennavo prima, motivazioni di interesse più complessivo per la conoscenza di un’area geografica le cui turbolenze avevano pesantemente segnato il Novecento, dal suo esordio all’ultimo decennio.
In ogni caso, il vincolo di apprendimento di lingue lontane mi sembrava un ottima idea, una occasione importante di pratica della differenza. Per me, ad esempio, studiare il serbo-croato ha significato scoprire l’aspetto verbale, quella particolare flessione per cui esistono due paradigmi dello stesso verbo, durativo e momentaneo. Non voglio arrischiarmi in temerarie interpretazioni, ma tendo a credere che una lingua che esprima il bisogno di tale precisione, senza ricorrere alla “mollezza” di una perifrasi, possa dire qualcosa sul carattere collettivo dei parlanti.
Quale dei tre indirizzi scelse? Si poteva optare per un curriculum storico-culturale, per uno socio-economico o per un terzo storico-religioso, che a differenza degli altri ebbe poco successo e fu chiuso nel giugno del 2002. Al suo posto fu istituito un altro curriculum: “linguistico per l’organizzazione di eventi culturali (arti visive e spettacolo)”, e questo ebbe un grande successo (Pia Vivarelli e Riccardo Naldi ne furono i promotori e… l’anima).
Scelsi l’indirizzo storico-culturale. Avevo deciso di assecondare le mie inclinazioni letterarie dopo gli anni di lavoro nell’economia applicata, per così dire, e nella matematica attuariale che presiede i meccanismi delle polizze vita. Però, ancora convinta della strutturalità dell’economia in tutti i fenomeni sociali, inserii nel piano di studi un esame di storia economica. Mi sono sempre compiaciuta di quella scelta.
Un altro insegnamento che ho apprezzato in modo particolare fu Antropologia culturale, tenuto allora dal prof. Claudio Marta, disgraziatamente scomparso pochi anni fa. Mi colpivano la passione e il sentimento di militanza antirazzista che vibravano nelle sue lezioni, sempre affollatissime e animate da discussioni assai vivaci. Misi a fuoco la nozione di cultura come sistema condiviso di credenze, nozione da allora in poi assunta come sfondo di tutti i miei studi letterari.
Non posso, poi, non ricordare altri docenti dal cui incontro sono stata segnata. Tra questi, la prof. Fiammetta Rutoli, titolare del corso di Lingua italiana che mi ha insegnato l’importanza di continuare a riflettere sempre anche sulla propria lingua, a considerarla un organismo vivente e relazionale. E una rappresentazione di sé da sorvegliare.
Qual è il Suo giudizio sul Corso del Mediterraneo? Era una novità in quel momento? Eravamo alla fine degli Anni Novanta…
Il mio giudizio è sostanzialmente positivo. Io sono stata la matricola 10, è intuitivo che, trattandosi di una fase inaugurale, nel periodo in cui ho studiato io c’era qualche approssimazione, qualche debolezza d’impianto nei possibili piani di studio. Insomma, avrei preferito un maggior rigore nell’organizzazione coerente dei vari insegnamenti rispetto all’orizzonte cognitivo atteso.
In effetti, Lei si è immatricolata al Corso del Mediterraneo quando era ancora un Corso sperimentale. Poi la Facoltà di Lettere e Filosofia ha istituito ufficialmente il Corso di “Lingue Culture e Istituzioni dei Paesi del Mediterraneo” nell’anno accademico 2000-2001. Il Corso non aveva ancora un proprio organico, ma era gestito dalla Commissione di quattro docenti che lo aveva progettato e realizzato. S’immatricolarono al Corso 33 studenti.
Nell’anno accademico 2001-2002 il Corso fu trasformato in Corso triennale, e in seguito si è avuto un boom d’iscritti (fino a 284 nell’anno accademico 2003-04 e a 239 nel 2006-07). Il limitato organico dei docenti non ha retto al peso degli studenti…
Capisco… So che sui docenti del Corso ricadeva un carico didattico non indifferente. Forse il Corso avrebbe meritato un maggior sostegno da parte della Facoltà. L’area del Mediterraneo, oggi, è al centro di molte iniziative, di molti interessi. Napoli potrebbe svolgervi un ruolo importante.
Ecco, forse si tratta proprio di questo: definire concretamente quale ruolo può avere la nostra città e come può contribuire a rafforzare l’opzione mediterranea all’interno della comunità europea. In questo senso, per sua natura e per le competenze che esprime, l’Orientale potrebbe davvero essere decisiva.
Ha trovato disponibilità da parte dei docenti? Ritiene che gli studenti siano stati ben seguiti?
Sì. Una grandissima e diffusa disponibilità. Mi piace ricordare che la lettrice di serbo-croato, Suzana Glavaš, ci assegnava i compiti a casa e ce li correggeva il giorno dopo! Vorrei poi parlare della disponibilità del tutto particolare di un professore del mio corso. Lo farò, tuttavia, senza nominarlo, perché so bene che la cosa gli dispiacerebbe. Più che mera disponibilità, definirei la sua come una presenza accanto a me e a numerosissime studenti e studentesse di varie generazioni che hanno avuto la ventura di incrociarlo sulla loro strada. Le sue lezioni sprigionavano emozioni ed energia intelligente tali da risultare una carica di voglia di apprendimento. Un vero e proprio contagio culturale. Una personalità fuori dagli schemi, un uomo entusiasta, gentile e collerico, disponibile fino alla tutela e implacabile se deluso. Un concentrato di universo, con le sole esclusioni dell’indifferenza e dell’ignavia. Questo professore, di cui ancora oggi posso dirmi amica, è stato per me e per tantissimi altri e altre, anche maieuta, la frase che più spesso gli ho sentito pronunciare è: “scrivine qualcosa, scrivimelo”. Non era relatore, né correlatore della mia tesi di laurea, ma presenziò alla seduta, anche con l’affettuosità intellettuale di una domanda.
In quale disciplina ha deciso di lavorare per la tesi di laurea? Perché? E qual è stato l’argomento? Una scelta Sua o del docente? Lei è stata la prima laureata del Corso del Mediterraneo: un 110 e lode, ottenuto il 27 febbraio 2004.
In letteratura portoghese, con uno studio d’impostazione comparatistica tra il romanzo Os Cus de Judas (1979)di António Lobo Antunes e Diceria dell’untore (1981)di Gesualdo Bufalino. La scelta fu mia, ma fu subito accettata e sostenuta dalla docente, Maria Luisa Cusati.
Questi romanzi hanno avuto all’epoca della loro pubblicazione un “comportamento” improntato alla violazione della normalità (estetica e sociale), quale strategia per il perseguimento di un fine analogo: la memoria della guerra e della malattia contro il rischio dell’attenuazione della coscienza. Partendo dall’analisi dei due testi, inoltre, la tesi sviluppava poi una riflessione sulla potenza del romanzo. Se una delle motivazioni della scelta del percorso universitario era stata proprio il risalire alle radici di alcuni fenomeni politici seguendo il filo letterario, concluderlo con un discorso su e con due testi di memoria mi sembra un segno di continuità e coerenza. La prova di una scelta giusta, direi.
Bello, questo tema: mirare alla conservazione della coscienza. Evitare che la coscienza si attenui, che si perda la memoria del dolore, nostro o collettivo… Ềun tema al quale sono sensibile, e vedo che lo è anche Lei…
Il dolore è l’espressione sensibile della vulnerabilità umana, la coscienza del dolore è la nostra umanità. La messa a nudo del nucleo del dolore travolge le difese dietro cui ci barrichiamo per sottrarci al contatto diretto con la sofferenza interiore. Raccontare il dolore - della perdita, per esempio - significa assumere un atteggiamento dinamico che si oppone alla cristallizzazione dei ricordi, al loro svuotamento di senso. Alla loro disintegrazione. La narrazione è il braccio armato della memoria contro l’indifferenza della dimenticanza. È il luogo in cui è possibile soffermarsi a rileggere il passato senza l’ingiunzione del presente, e tentare di comporre il puzzle della nostra esistenza.
Ritorniamo al Suo percorso di studi. Dopo la laurea, ha continuato a studiare o ha cercato un lavoro?
Ho proseguito gli studi con un dottorato di ricerca in Letterature romanze comparate, poi ho avuto un incarico di docente a contratto di Lingua e letteratura portoghese presso l’Università Suor Orsola Benincasa. Ma faccio parte anche del gruppo di ricerca sulle problematiche traduttive all’Orientale! E, a proposito di traduzioni, ne ho pubblicate due di racconti degli scrittori portoghesi Alexandre Herculano e Mário de Sá Carneiro, inserite nella raccolta Quando il diavolo ci mette la coda (L’ancora del Mediterraneo, Napoli, 2006), frutto di un esperimento di traduzione a quattro mani, cioè della collaborazione di due madrelingua portoghese e italiana.
Poi, ed è cosa di cui vado molto orgogliosa, ho tradotto il romanzo di Manuel Alegre Jornada de África (Albatros, Viterbo 2010), singolarissimo racconto della guerra di indipendenza angolana dal Portogallo.
Mi piace ricordare che, due settimane dopo l’esame di laurea, mi fu data l’opportunità di presentare una relazione al mio primo congresso di lusitanistica, che avevo anche contribuito a organizzare. La professoressa Cusati ha una lunga e personale tradizione in questo senso e un’inclinazione ecumenica, orientata al coinvolgimento di studenti e studentesse nei quali riesce, così, a tenere vivo l’interesse per la cultura lusitana.
L’occasione del convegno era la ricorrenza dei trent’anni dalla pacifica rivoluzione portoghese del 25 aprile 1974, avvenimento che al suo verificarsi aveva dato slancio al mio nascente entusiasmo politico (avevo allora quindici anni). E trent’anni più tardi mi ritrovavo a presentare una ricerca sulla ricezione editoriale in Italia della Rivoluzione dei Garofani. Seduta allo stesso tavolo di scrittori del calibro di Almeida Faria e Mia Couto, studiose mitiche quali Luciana Stegagno Picchio, ambasciatori, colonnelli. Sì, decisamente ero finita in un mondo nuovo.
L’anno seguente, il tema del nostro convegno fu “Portogallo e Asia”. Mi sembrava di non avere argomenti da trattare, non avendo mai sviluppato una ricerca specifica su tali rapporti. Mi venne in soccorso mio marito, con i suoi ricordi salgariani. Fu così che nacque Un portoghese in Malesia nell’immaginario italiano, un’analisi della figura di Yanez, co-protagonista del ciclo di romanzi di Emilio Salgari sui pirati. Accompagnai la relazione con una presentazione powerpoint con animazione di caravelle su mappe geografiche, fotogrammi tratti da film, estratti di pagine dei romanzi. Fu un gran successo, vennero a congratularsi con me tutti gli uomini.
E pensare che, prima di allora, non avevo mai letto Salgari!
Questa attività dell’organizzazione di convegni non si è mai interrotta e ha costituito e costituisce un’opportunità importante di ulteriori approfondimenti, di aggiornamenti e di conoscenza e interlocuzione con scrittori/trici e studiosi/e internazionali.
Quali sono i Suoi interessi, attualmente? Mi sembra che Lei sia anche scrittrice…
In questo momento mi definirei piuttosto una nostalgica della scrittura. O meglio, e per restare in atmosfera, mi sento pervasa da un sentimento di saudade, che, come tutti sanno, è una forma di nostalgia che ha anche una direzione verso il futuro, verso ciò che avrebbe potuto essere e non è e non si sa se riuscirà a essere. Detto altrimenti, ho una gran voglia di scrivere, ma non riesco a farlo per una sorta di impotenza espressiva. C’è da dire che nemmeno ci provo più di tanto, perché ho dovuto impormi una certa disciplina per portare a termine un lavoro scientifico, una rielaborazione della mia tesi di dottorato, accettata da una casa editrice che mi ha chiesto, però, alcune modifiche nell’impianto. Altro studio, dunque, e altro tempo sottratto a scritture più libere e creative.
A quale genere appartengono le Sue opere? Sono romanzi o racconti, o piuttosto poesie? Ce ne dice qualcosa?
Niente poesia, di questa sono solo beata fruitrice. Racconti, più o meno lunghi. È la misura che prediligo perché ricerco l’intensità più di ogni altra cosa, anche nella vita. L’effetto collaterale peggiore è il rischio di una scrittura un po’ criptica.
C’è stato un periodo – e questa è un’altra esperienza strettamente legata alla mia “appartenenza all’Orientale” –, in cui ho partecipato alla fondazione e quindi alla gestione di una casa editrice indipendente, intorno alla quale si coagulò l’interesse e la condivisione di un gruppetto di laureati e studenti “orientali”. Va da sé che la casa editrice prese il nome di orientexpress. In questo contesto, presi coscienza del rischio di cui dicevo. Era stata decisa la pubblicazione del mio racconto che, come tutti gli altri, fu sottoposto a un editing serrato. Un’esperienza dura, almeno la prima volta, che è estremamente difficile per un autrice o un autore non considerare un’aggressione alla propria scrittura. Poi, invece, se ne apprezza l’enorme valore. È una pratica che aiuta chi scrive a uscire da quella forma di autismo prodotta dall’attività solitaria e autoreferenziale. Così, emendato dei suoi passaggi più oscuri dall’implacabile editing, venne alla luce Il gioco della luna e del vento, un racconto a più livelli, intessuto tra vita e letteratura, che ruota intorno alla domanda: “dove vanno a finire tutte le storie, le poesie, le canzoni?” e alla risposta: “nelle vite delle persone”.
Anche il secondo racconto, Blu oltremadre, è legato all’Orientale, ma in forma strettamente privata, dunque non ne dirò di più. Posso dire, invece, che è stato un lavoro difficile e appassionante di ricerca dell’equilibrio estetico tra il mio coinvolgimento emotivo nella storia narrata e le ragioni della scrittura severa e sorvegliata che è la forma che ho scelto per esprimermi. Nel suo piccolo, strictu sensu considerato che conta 63 pagine, è un racconto che ambisce a inscriversi nel solco di quelli contro l’attenuazione della memoria e la conseguente rassegnazione. Un racconto che trattando della morte parla di vita. E di vite.
Ritiene che gli studenti dell’Orientale siano diversi, come tipi umani e come interessi, da quelli degli altri Atenei napoletani?
Sì. Rispondo di getto perché non ho esperienze significative di altri atenei. Il Suor Orsola, per sua tradizione, fa storia a sé. Ma diciamo che la cifra della multiculturalità è tipica dell’Orientale e dunque l’inclinazione di chi sceglie di studiarvi non può che essere in consonanza. Simbolicamente gli orizzonti dell’Orientale sono i più aperti, i più lontani, i meno noti. È come se la complessità risultasse qui più evidente, e più evidente il rapporto tra realtà e narrazione. Se, come scrive il filosofo Pier Aldo Rovatti, la realtà è sempre una costruzione simbolica, bisogna ammettere che la verità stessa si fonda su un orizzonte retorico e imparare a riconoscerlo. E a modificarlo, modificandone la narrazione. Credo che all’Orientale, per la natura degli insegnamenti proposti, sia più facile maturare la consapevolezza del valore cognitivo della rappresentazione letteraria.
Uno dei testi incontrati e studiati negli anni universitari fu Orientalism (New York, 1978; Torino, 1991) di Edward Saïd che considero, tuttora, un punto di partenza imprescindibile della riflessione sui modi di costruzione dell’Altro. E, analogamente, del sé, mediante l’autonarrazione. Sarà per questa ragione che un elevato numero di studenti e studentesse di questo Ateneo si dedica alla scrittura in proprio.
Qualche Sua osservazione per chiudere questa nostra conversazione?
Resto in argomento. Per me l’esperienza di studi all’Orientale ha significato, e significa tutt’ora, una formidabile e costante occasione di incontro e confronto con culture e persone: gli “altri”, in carne, ossa, letteratura, religione e politica. È stato, ed è, il luogo per sperimentare le differenze; una palestra nella quale esercitarsi a superare le paralisi del conflitto, accettando le contraddizioni e le diverse possibilità che implicano.
Intervista a cura di Francesco De Sio Lazzari