Il sociolinguista Norbert Dittmar per un anno all'Orientale: stralci di un'intervista

 

Il sociolinguista Norbert Dittmar per un anno all'Orientale: stralci di un'intervista

Norbert Dittmar

Il linguista è un Homo Faber che ha come obiettivo quello che Pasolini chiama 'osservatorio linguistico'

Professor Dittmar, dal prossimo semestre sarà ospite dell'Orientale, dove terrà un corso di Linguistica tedesca per le lauree magistrali (Lingue e Letterature Europee e Americane; Linguistica e Traduzione Specialistica; Traduzione Letteraria): quali saranno gli argomenti del corso?

“Ci occuperemo principalmente di Linguistica testuale del tedesco e di Linguistica conversazionale o del discorso (Gesprächslinguistik), probabilmente dedicando un terzo delle lezioni alla prima e due terzi alla seconda. Tratteremo rispettivamente, da un lato, i tipi testuali (Textsorten) e le modalità con cui si redigono diversi tipi di testo – come descrizione, narrazione, eccetera – per arrivare ad un'analisi scritta dei fenomeni, e dall'altro, le relazioni tra regole e modelli linguistici ed il loro ruolo nel discorso, con particolare attenzione all'interazione verbale.
Posto questo come principale campo di interesse, ne introdurrò parallelamente un altro: la lingua giovanile (Jugendsprache), che sarà osservata dal punto di vista lessicale, fonetico e prosodico. Userò un mio piccolo corpus 'narrativo' che raccoglie racconti di molteplici parlanti per spiegare come e perché si raccontino le cose in un certo modo, se ci sono delle differenze tra uomo e donna, che ruolo giocano le parole tabù, i picchi intonativi e la modulazione del volume della voce. Infine, daremo uno sguardo alla cosiddetta 'comunicazione digitale' dei giovani, concentrandoci su email, chat e sms.”

Dunque anche un approccio sociolinguistico, suo principale campo d'interesse sin dalle prime pubblicazioni. Lei è stato, infatti, assieme a William Labov, uno dei pionieri degli studi sulla lingua in rapporto al contesto sociale in cui viene parlata: cosa significava all'epoca avere un approccio del genere?

“Significava soprattutto andare sul campo, parlare con la gente ed impegnarsi a domandare che atteggiamenti avesse verso lo standard, verso un dialetto, verso una minoranza. Ma significava anche sapere elicitare, stimolare gli stili differenti, quelli 'migliori', quelli dei giovani, degli adulti, delle minoranze.
Negli anni Sessanta, Labov è stato il primo ad entrare nel ghetto e a fare la cosiddetta 'osservazione partecipante', ed era molto difficile all'epoca in quanto Nixon aveva riconosciuto il ghetto e sancito una differenza abissale tra i neri del ghetto ed i bianchi.
I neri andavano in questi milieu per registrare le interazioni tra loro e facevano 'giochi linguistici' definibili ritual insults – frasi tipo «your mother is....» completate da un insulto – e tutto questo in rima! È veramente un'arte, e Labov ha mostrato come questa gente non fosse né pazza né stupida ma rappresentasse valori oppositori, come il piacere di bere alcool, marinare la scuola, consumare droga, giocare a calcio ed intrattenersi in ritual insults: tutto questo è agli antipodi della società borghese.
Ed io sono andato con lui, sono stato con lui un paio di volte per tre settimane, vivendo a casa sua e mi ricordo che quando uscivamo Labov parlava sempre con in neri, anche forse un po' per dimostrare quanto fosse libero. E così ho conosciuto un mondo diverso.
Mio figlio ultimamente mi ha domandato: «Sei stato due volte a New York, sei stato alla Fifth Avenue?» ed io gli ho risposto «No, mai. Ma ero tutti i giorni nei ghetti!» e lui non ha capito... Siamo andati un'unica volta nella Fifth Avenue, per comprare un nuovo magnetofono. Lavoravamo con l'Uher, un magnetofono formidabile che funziona, però, con le cassette (nastri). Adesso lavoriamo con magnetofoni elettronici, digitali. È un problema di norma: l'Uher coglie uno spettro di variazioni più ampio mentre con i mezzi elettronici molte frequenze e sfumature vengono tagliate. Molti fonetisti, infatti, preferiscono l'analogico poiché ci sono più variabili.”

Quali sono state le tappe più importanti dell'evoluzione di questo settore della linguistica? In che modo sono cambiati i metodi e gli oggetti della Sociolinguistica?

“In sociolinguistica non c'è una logica interna – logica nel senso di Wittgenstein o di Leibniz – piuttosto una logica delle scienze sociali. Questa logica è così: c'è un problema che si nota, si sente, che gioca un ruolo importante nella vita sociale, e lo si analizza. Per esempio, dopo la caduta del Muro quasi tutti i tedeschi hanno pensato, in maniera quasi maniacale, alla differenza tra Est e Ovest. Negli anni Sessanta, invece, il focus era «Sei un socialista oppure no? Vuoi cambiare la società oppure no?».
Se c'è un conflitto la sociolinguistica lavora su questo conflitto, un esempio è quello tra ceto sociale alto e basso; poi abbiamo avuto la migrazione e molti hanno lavorato sulla migrazione come problema sociale; poi l'apprendimento di un'altra lingua (a partire dalla teoria di Bernstein del ceto sociale collegato al codice ristretto o elaborato, per cui il codice ristretto era molto visibile negli immigrati); dopo ancora si è sviluppata la Sociolinguistica dei gender, ovvero del genere sessuale (uomo vs donna) che, almeno per i primi dieci anni, più che una questione linguistica è stata una questione politica.
A questo proposito, però, devo dire una cosa molto importante: uno che fa sociolinguistica e che non è un buon linguista fa danno alla disciplina.”

Quindi lei afferma che un sociolinguista deve essere innanzitutto un linguista. Ma cos'è un linguista per lei?

“Il linguista è un Homo Faber (alla Max Frisch) che ha come obiettivo quello che Pasolini chiama 'osservatorio linguistico'. Così come ci domandiamo «che tempo fa oggi?», dovremmo domandarci «che lingua fa oggi?», magari è un po' esagerato poiché di certo la lingua non cambia proprio a tutte le ore, ma comunque cambia molto.
Dobbiamo saperne di più sulla varietà giovanile, sugli incontri tra lingua materna, immigrati e L2.
Penso sia importante saper descrivere la lingua su tutti i livelli. Da sociolinguista, ritengo fondamentale avere mezzi analitici che sappiano descrivere allo stesso tempo sia il parlato, sia lo scritto: non mi accontento di una grammatica che descrive solo la lingua scritta poiché non è una vera grammatica della lingua! ”

Con il libro Die Sprachmauer (Il Muro linguistico) ha scritto una pagina importantissima non solo della storia della lingua tedesca, ma anche della cultura di questo popolo. La questione della memoria collettiva e della diversa prospettiva con cui i tedeschi dell'Est e dell'Ovest hanno metabolizzato la caduta del Muro si riflette linguisticamente attraverso l'uso di singole parole o registri e stili diversi. Potrebbe farci qualche esempio a suo parere significativo?

“Quando c'è una rottura radicale, ein Umbruch, si crea una cultura di partenza ed una di arrivo. La cosa interessante è che molti tedeschi dell'Ovest (Wessi) hanno sentito per la prima volta dopo la Guerra un orgoglio, un orgoglio di essere personaggi più importanti di altri – ad esempio dei tedeschi dell'Est (Ossi) – una consapevolezza di dominanza. Dall'altro lato, per gli appartenenti alla società di partenza (Ossi) c'è stata una grossa perdita: dalla legge al codice normativo, dall'etica alla morale. Gli Ossi, adattandosi alla società d'arrivo, hanno manifestato un comportamento cognitivo incerto (cognitive insecurity).
Facciamo un esempio: subito dopo la caduta del Muro, quando la gente dell'Est voleva spiegare come lavorava diceva «ho lavorato in un Kollektiv di bici», oppure «in un Kollektiv di macchine», ma subito si fermava e si correggeva dicendo «ho lavorato in un team». Questo perché dicendo Kollektiv si diventava riconoscibili ai tedeschi dell'Ovest non solo come gente dell'Est ma come qualcuno rimasto socialista; si preferiva dunque fare finta di essere come gli altri. Un altro fenomeno è l'uso 'casuale' di interiezioni come so, also ed altre, usate senza riflessione sulla corretta posizione sintattica: anche questo è segno di una grande incertezza cognitiva.”

Anche per quanto riguarda l'uso dei pronomi personali ci sono delle differenze: la collocazione dell'io narrante nello spazio avveniva nelle due varietà con strategie deittiche ricorrenti. Ciò significa che i due sistemi politici (federale e democratico) hanno generato o veicolato una diversa percezione del sé, manifestata attraverso l'uso dei pronomi personali?

“Sì. Ad Est si usava molto il pronome impersonale man che manifesta una visione del mondo che mette al centro il gruppo e la solidarietà tra i singoli individui, una percezione del sé come noi, un livellamento tra gli individui; ad Ovest, invece, si usavano i pronomi personali io, tu e lui, che mettono in risalto la differenza sociolinguistica tra le persone.”

Professor Dittmar, ci sono molti altri aspetti della sua ricerca che ci piacerebbe discutere con lei – a partire dall'acquisizione del tedesco come lingua seconda, alla trascrizione, ai rapporti tra grammatica e pragmatica – e ci riserviamo di farlo al più presto, approfittando della sua permanenza napoletana. Per il momento ci piacerebbe salutarla con una domanda sui suoi progetti in fieri: a cosa sta lavorando?

“Negli ultimi tempi mi sono occupato molto della lingua parlata, in particolare delle marche discorsive, delle congiunzioni e della resa comunicativa (performance) nel tedesco parlato – anche se lo stesso si può fare con l'italiano. A questo si affianca l'indagine delle strategie con cui vengono aggiunte informazioni nel parlato – il cosiddetto 'principio del dettagliare' (Prinzip des Detailierens) – e le strategie di collocazione di alcune importanti informazioni che non possono essere rimandate.”
 

Valentina Russo

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