Il Collegio di Napoli 2013 e non solo: ne parla Rita Librandi
Il Collegio di Napoli 2013 e non solo: ne parla Rita Librandi
L'italiano e le altre lingue in Italia e all'estero, tra passato e presente, per stimolare anche le riflessioni sul domani
A metà febbraio – con un incontro dedicato all'italiano dentro e fuori l'università, in occasione della presentazione del testo curato da Nicoletta Maraschio (Fuori l'italiano dalle università?) ha avuto inizio il ciclo di incontri dal titolo “L'italiano, l'inglese e le altre lingue” da lei curato.
Quali sono le premesse e quali le prospettive dell'iniziativa del Collegio di Napoli 2013?
Il ciclo di incontri parte dalla volontà di far vedere come l'italiano abbia rapporti con le altre lingue che non sono – come la maggior parte delle persone ritiene – rapporti di subordinazione. L'italiano ha una sua collocazione non solo dignitosa ma anche prestigiosa nel consesso delle altre lingue soprattutto, e ovviamente, delle lingue occidentali.
Quando parliamo di italiano fuori dall'università, con il punto interrogativo, come nel titolo di questo libro promosso ed edito dall'Accademia della Crusca con Laterza, non vogliamo arroccarci sulla torre dei puristi che ritengono pericolosa e grave qualsiasi possibilità di contatto e di presenza dell'inglese nella nostra vita. Sarebbe contrario a ogni concezione linguistica, ecco... siamo troppo linguisti per pensare questo. Tuttavia vogliamo sensibilizzare i docenti – soprattutto di facoltà scientifiche, tecnico-scientifiche, dove l'ingresso dell'inglese è forse anche più direttamente necessario – a riflettere sulla necessità di lasciare anche all'italiano uno spazio che non sia marginale né secondario ma importante.
La lingua veicolare di tanta cultura scientifica oggi, nel mondo, è sicuramente l'inglese, ma non è detto che sarà così per sempre. Magari tra cinquanta o sessant'anni lo diventerà il cinese e forse, per noi, sarebbe anche più problematico.
Nei secoli le lingue si sono avvicendate in questo ruolo e c'è stato anche un secolo in cui è toccato all'italiano, intorno al Cinquecento, nell'epoca del pieno trionfo del Rinascimento. L'inglese come lingua veicolare va appreso, diffuso, e capiamo anche che moltissima comunicazione scientifica si svolge oggi tramite questa lingua: l'inglese fa superare una serie di barriere. Detto ciò, se una lingua – in questo caso parlo dell'italiano – si affida totalmente ad una lingua straniera per esprimere tutte le proprie novità, le proprie teorie e le elaborazioni del pensiero scientifico, è evidente che poco per volta una fetta importante del suo settore e del suo patrimonio verrà meno. Si indebolirà con gravissime conseguenze che non saranno tali solo per quella lingua – che avrà un lessico che si impoverirà in certi settori – ma lo saranno anche per la società. Se la comunità scientifica parlerà in inglese di fisica e chimica, penso alla medicina ancora di più, la comunità parlante che adopera la lingua di uso comune continuerà a parlare in italiano e sarà sempre più distante e separata dalla scienza. Questa è una cosa che ci farebbe ritornare a epoche medievali: la scienza e la vita oggi non possono essere separate e una lingua deve sempre essere intera, tutta intera, come diceva appunto Alessandro Manzoni, capace di esprimere qualsiasi contenuto a tutti i livelli.
Le conclusioni del dibattito del primo incontro [18 febbraio 2013; NdR] credo siano state interessanti. A differenza di altri rappresentanti, come il rettore del Politecnico di Milano che proponeva una esclusiva didattica in inglese nei corsi di laurea magistrale e di dottorato, con i rettori di due importanti università campane – dell'Orientale e della Federico II – si è cercato di dire: dobbiamo discutere. Dobbiamo capire come proporzionare e lasciare che l'inglese e l'italiano interagiscano, anche aiutando gli studenti stranieri e facilitando il loro percorso, all'inizio con corsi in inglese, per poi metterli nelle condizioni di imparare la lingua durante il soggiorno in Italia e di seguire anche corsi in italiano. Certo la via dell'interazione è la più difficile e chiede molto più impegno, ma è l'unica possibile, quella che ci garantisce un progresso autentico.
Ci parli delle tematiche che verranno affrontate in altri momenti del Ciclo di incontri.
L'italiano non subalterno ma lingua di prestigio tra le altre. Questo è il punto su cui abbiamo impostato l'insieme di conferenze, con l'italiano e l'inglese che è la lingua che più preme ed è più presente, oggi in Italia, e l'italiano fuori dall'Italia.
La seconda e la terza conferenza saranno dedicate infatti, rispettivamente, all'italiano fuori dall'Italia nel passato e alla storia della nostra lingua presso gli altri paesi, e all'italiano fuori d'Italia oggi con due dei docenti che hanno collaborato con l'indagine del Ministero per capire il suo stato all'estero. La quarta conferenza conclude ritornando al problema originario: italiano e inglese a scuola, trattando quindi anche delle richieste della riforma Gelmini orientate, anche in questo caso, all'insegnamento in lingua inglese di discipline non linguistiche.
Invece, la conferenza tenuta da Francesco Bruni, professore emerito alla Ca' Foscari di Venezia, accademico dei Lincei e della Crusca, offre il punto di vista di chi come lui ha lavorato molto sull'italiano fuori d'Italia e, in particolare, nel Mediterraneo. Il parlante comune si stupisce nel sentire che la nostra lingua ha avuto una storia così importante fuori dal Paese mentre l'italiano, soprattutto nel Mediterraneo, è stato una lingua veicolare anche oltre il Cinquecento, fino al secolo scorso, perché serviva ai commerci. Inizialmente, almeno fino al Quattrocento, lo era il veneziano soprattutto perché Venezia manteneva una posizione dominante in quel settore. Quando nel Cinquecento, però, ci fu la prima unificazione linguistica italiana – quando, appunto, tutti gli scrittori e gli intellettuali adottarono il fiorentino letterario per la comunicazione più alta – fu, quella, la lingua con cui si stipulavano i contratti e si faceva commercio e associazionismo con le coste del Nord Africa, della Grecia, della Turchia, della Spagna. Inoltre era rimasta lingua importante come lingua dell'arte, della cultura, della musica. Per cui capitava che un turco, ad esempio, e un inglese che proveniva da una cultura ben curata e doveva contrattare merci – oppure come nel caso del trasporto dei marmi del Parthenone al British Museum – scegliessero l'italiano come lingua per comunicare, e non l'inglese come accade oggi. Perché tutto questo è stato dimenticato? Perché purtroppo c'è una pagina nera nella nostra Storia, cioè la politica coloniale del fascismo che ha fatto dimenticare la presenza dell'italiano nel Nord Africa prima delle colonie. Colonie che hanno dato, certamente, un contributo importante ma che hanno dato anche tanto di negativo, purtroppo. Infatti, i pescatori siciliani come molti altri lavoratori – anche prima dell'inizio della grande migrazione italiana, anche nel Settecento o agli inizi dell'Ottocento – andavano a lavorare come contadini o pescatori sulle coste del Nord Africa, e spesso, in queste area si parlava un italiano misto a siciliano di cui si conserva traccia in diversi documenti. È stata addirittura coniata un'espressione precisa, levant italian, l'italiano del levante, appunto, questa lingua veicolare che era tutt'altro che sconosciuta. Di questo parlerà Francesco Bruni, mentre gli altri incontri continueranno con le indagini attuali di Giovanardi e Trifone, per capire quanto, come e perché sia studiato l'italiano all'estero e con Carla Marello, glottodidatta e docente all'Università di Torino, che in questo periodo si sta occupando specificamente dell'insegnamento in inglese di altre materie non linguistiche nelle nostre scuole.
Dalle recenti indagini del Ministero dell'Istruzione e dell'Università relative alla diffusione della lingua italiana nel mondo emerge un quadro interessante. In dieci anni, infatti, il numero di studenti di italiano è praticamente raddoppiato.
Che peso hanno avuto le istituzioni in questo processo? E che cosa è stato fatto e bisogna fare per mantenere questo stato di cose e non invertire la tendenza positiva?
Se si intende cosa hanno fatto i nostri governi... niente. È veramente scandaloso che l'ultimo provvedimento legislativo nazionale per favorire la diffusione dell'italiano all'estero risalga all'inizio degli anni Settanta, e riguarda l'istituzioni del lettorati italiani, questo è tutto. Perché all'inizio negli anni Settanta? Perché c'era stata la seconda ondata fortissima dell'emigrazione, quella post-bellica, della Seconda Guerra Mondiale, e la domanda di italiano, nelle scuole e nelle università dei paesi meta di emigrazione, era cresciuta enormemente, per cui si avvertì questa esigenza. Dopodiché... nulla, assolutamente nulla.
Sì, è vergognoso perché non è così negli altri paesi: si guardi a quello che fa la Francia o a quello che sta facendo oggi la Germania. È vero, si può sempre dire che l'inglese è la lingua veicolare, che lo spagnolo è parlato da milioni di persone nel mondo, ma oggi francese, tedesco, italiano, godono dello stesso prestigio e sarebbero sempre sullo stesso piano se non fosse che Francia e Germania hanno una politica vigorosa e noi non abbiamo nulla. La crescita che c'è stata – e il fatto che la nostra lingua si mantenga sempre tra le prime cinque o sei studiate al mondo – è dovuto solo alla forza e all'interezza dell'italiano, è un destino della sua storia. Anche in Italia si è affermato per prestigio culturale e non c'è mai stato uno stato o un governo se non dopo l'Unità, quando era già la nostra lingua nazionale in virtù della sua grande letteratura. Ancora oggi si afferma principalmente per questo, ma c'è in gioco anche un altro fenomeno, quello dell'immigrazione.
In molti paesi dell'Europa dell'Est, del Nord Africa e anche dell'America Latina, ci sono giovani che desiderano studiare l'italiano perché scorgono prospettive di lavoro, negli scambi che si stanno creando come nel caso delle molte imprese italiane che vanno a lavorare nell'Europa dell'Est e in altri paesi. Questo sicuramente sta facendo crescere la domanda ma, ripeto, per fattori economici che vanno da soli e che non hanno il sostegno che dovrebbe invece dare il nostro Governo. Bisognerebbe mettersi intorno ad un tavolo e ragionare. Il Ministero dell'Istruzione e dell'Università agisce in un senso e quello degli Esteri in un altro, e l'uno non sa cosa fa l'altro. Non si può continuare così.
Quello che posso anticipare, in quanto Presidente dell'ASLI (Associazione per la Storia della Lingua Italiana) è che ho chiesto e voluto che il convegno dell'associazione del prossimo anno si faccia a Napoli, all'Orientale. Il titolo sarà "L'italiano nella politica e la politica per l'italiano". Vorrei fare uno sforzo per cercare di fare incontrare, se non i due Ministri, almeno rappresentanti importanti dei due Ministeri, per creare una tavola rotonda e vedere se si possa rilanciare la discussione. Speriamo di riuscirci. E dato che parliamo della fine della fine del 2014 abbiamo un po' di tempo per organizzare...
Questa tendenza positiva sembra riguardare più "l'italiano fuori dall'Italia”. Nel Paese, infatti, le recenti proposte di insegnamento esclusivo in lingua inglese hanno riacceso il dibattito sia sul ruolo della lingua italiana nella formazione culturale sia sul suo stato attuale. Qual è la sua opinione al riguardo?
Posso aggiungere, ancora, che l'italiano andrebbe molto sostenuto nelle scuole oggi perché la carenza più vistosa dei nostri giovani è la capacità di dominare un italiano alto, sorvegliato, della struttura argomentativa e saggistica, cioè quell'italiano che serve per lavorare.
I ragazzi oggi sono bravissimi a scrivere in Internet – scrivono molto più di un tempo, da questo punto di vista – ma è una scrittura spezzata, parlata nel senso che è influenzata dal parlato, oppure hanno un'oralità spontanea e vivace ma quando si tratta di dare una comunicazione che serva ai livelli alti del lavoro, lì casca l'asino...
L'educazione dovrebbe essere continua, permanente e anche l'educazione all'inglese. Prima di pensare a fare Storia dell'Arte in inglese – tanto per fare esempio, ma avrebbe potuto essere la Matematica – forse sarebbe meglio cercare di insegnare bene l'inglese, dato che in tredici anni di scuola, e nonostante oggi si inizi a studiarlo alle elementari, non si riesce a raggiungere nemmeno un livello B2. Questo mi sembra veramente scandaloso. Per cercare di venire incontro a queste esigenze, l'Accademica dei Lincei ha lanciato un'iniziativa per la scuola che si sta attuando anche a Napoli: un programma di aggiornamento, formazione e contatto con gli insegnanti, sulle aree che mostrano più carenza, matematica, scienze e lingua italiana. Qui abbiamo cominciato con l'Accademia Pontaniana e io mi sto occupando della lingua italiana. L'iniziativa ha avuto molto successo: centocinquanta iscrizioni di insegnanti, tutti della provincia di Napoli, e altri ancora per cui abbiamo purtroppo dovuto chiudere i termini, che sono arrivati perché evidentemente sensibili: gli insegnanti chiedono queste cose. Il corso tra l'altro è fatto tutto in forma di volontariato e non costa nulla, con il desiderio e con la volontà di creare un dialogo costruttivo con gli insegnanti delle scuole. Anche lì, però, bisogna rimboccarsi le maniche...
“Un congegno di senso, contro ogni macchina del consenso”, questo lo slogan che appare sul programma degli eventi. Quanto è importante sapere affrontare con spirito critico la rapida evoluzione del panorama linguistico mondiale tenendo conto delle diverse realtà linguistiche, e dei loro contatti sempre più veloci, nel rispetto delle singole identità?
La domanda è importantissima e ha quasi in sé la sua risposta. Mi sembra quasi banale osservarlo, è vero che per noi sono cose quasi scontate mentre non lo sono per i non addetti ai lavori: il plurilinguismo è una ricchezza e il monolinguismo è povertà. Forse possiamo dirlo in una maniera più semplice, più cose fanno una persona più ricca. Certo, le molte cose devono essere utilizzate in maniera adeguata, il plurilinguismo deve essere un plurilinguismo consapevole. Poniamo il caso che riguarda la nostra storia: se oggi c'è un parlante italiano (e ce ne sono tanti) che ricorre a italiano e dialetto in maniera inconsapevole mescolando in una situazione comunicativa più alta il dialetto all'italiano, non è un buon plurilinguismo. Invece la conoscenza della propria lingua e la conservazione del proprio dialetto – per potervi attingere, per potersi ispirare in tante altre situazioni, per poter avere una lingua degli affetti e della memoria affianco ad una lingua più alta della professionalità – quella è una enorme ricchezza!
Lo stesso vale per tutte le lingue dell'Europa e del mondo: ogni lingua che si perde è una cultura, e un grande patrimonio, che si perde e lottare per conservarle è la cosa più importante.
La Rete e la globalizzazione, da un lato, e gli standard internazionali in ambito scientifico, in particolare, hanno dato una forte spinta alla diffusione di ciò che viene definito come “global english” e che potrebbe essere considerato come lingua veicolare del presente: qualcuno vede in esso una minaccia. Qual è la sua opinione?
L'inglese adoperato per la comunicazione tecnico-scientifica, spesso, è un inglese molto formalizzato che fa riferimento a una serie di tecnicismi universali ma non è pieno, completo; per non parlare dell'inglese veicolare adoperato per la comunicazione più semplice, per viaggiare o per turismo, con un vocabolario ridotto a pochissime parole, spesso mal pronunciate...
Anche l'inglese sta subendo, da questo punto di vista, delle aggressioni. Come uscirne? Con le soluzioni di cui ho parlato prima. Un'istruzione sempre più diffusa e fatta nel migliore dei modi ed una competenza piena delle lingue. Meglio conoscerne due lingue veramente bene, piuttosto che parlottarne – per usare un neologismo – tre o quattro in maniera superficiale. Questa è l'unica salvezza.
Avere uno strumento purché sia... per una conferenza, un convegno, sì, forse può andar bene per un'occasione del tutto limitata ma non è quello a cui dobbiamo puntare. È una migliore educazione linguistica che, ripeto, deve sempre essere permanente. Non saprei in questo momento quali altre soluzioni dare: dobbiamo farlo noi docenti, ma dobbiamo anche essere supportati.
Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco