Il secondo incontro del Collegio di Napoli 2013: Francesco Bruni parla dell'italiano fuori d'Italia nel passato

 

Il secondo incontro del Collegio di Napoli 2013: Francesco Bruni parla dell'italiano fuori d'Italia nel passato

Particolare: l'illustrazione di Lorenzo Bianchi

La nostra lingua nel Mediterraneo, da Byron alle trattazioni di Pace tra inglesi, olandesi, turchi e veneziani: l'italiano come lingua veicolare nel passato

6 marzo. La Fondazione Premio Napoli è la sede del ciclo di incontri del Collegio di Napoli 2013 curato da Rita Librandi dal titolo “L'italiano, le inglese e le altre lingue”. Il tema del secondo appuntamento: l'italiano fuori dall'Italia nel passato.

Ad introdurre il relatore Francesco Bruni, professore emerito della Ca' Foscari ed accademico dei Lincei e della Crusca, la stessa Librandi, la quale ha puntato subito al cuore del discorso parlando della scarsa consapevolezza che in genere si ha della diffusione dell'italiano. Come affermato in un'intervista rilasciata al Web Magazine dell’Orientale, dice che “il parlante comune si stupisce nel sentire che la nostra lingua ha avuto una storia così importante fuori dal Paese. Ma l'italiano, soprattutto nel Mediterraneo, è stato una lingua veicolare anche dopo il Cinquecento, fino al secolo corso”. Questo, in sintesi, il filo conduttore del discorso di Bruni delineato a partire dalle tracce lasciate da Lord Byron nella corrispondenza verso l'Inghilterra, per arrivare alle numerose testimonianze reperibili in documenti ufficiali e non solo, giunti fino a noi. Secondo Bruni, inoltre, ciò che merita di essere sottolineato è il fatto che l'italiano godeva di ottima diffusione molto tempo prima dell'Unità d'Italia, in particolare in un momento in cui il Paese – o meglio, le sue varie componenti, tra cui il Regno di Napoli, lo Stato Pontificio, ecc. – non avevano affatto un peso economico né politico.

Sebbene non si trattasse più della ricca “Italia” dei comuni medievali né di quella delle signorie rinascimentali, la nostra lingua godeva un'ampia diffusione – persino in aree in cui non ci aspetterebbe un simile stato di cose – grazie alla sua grande capacità di veicolare idee e cultura.

Il primo caso riportato da Bruni è stato quello dell'italiano adoperato nel corso della Guerra d'Indipendenza della Grecia di cui si conserva memoria, ad esempio, grazie ad un testo di Lord Byron. Questi, solidale con lo sforzo dei rivoluzionari contro l'Impero Ottomano, scrive ad un comitato greco con sede a Londra per chiedere supporto e nella lettera Byron afferma di avere “dimestichezza con la lingua italiana […] che in Grecia viene parlata universalmente, come il francese”, raccomandando al gruppo di Londra di inviare, sì, ufficiali, ma “che sappiano parlare l'italiano”. Ancora oggi, nel Museo di Missolungi, si conserva un torchio per la stampa portato lì proprio dagli ufficiali inviati da Londra, testimone di questa attenzione per la comunicazione e per le lingue.

Il secondo esempio trattato da Bruni, ulteriore traccia di questa importante presenza dell'italiano nel Mediterraneo, è quello dei documenti ufficiali con i quali si autorizzano gli inglesi ad effettuare scavi nel sito del Partenone. Siamo tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento quando Napoleone, invadendo l'Egitto, costringe l'Impero Ottomano a stringere alleanze con gli inglesi. A conferma di questo legame, in Grecia, Lord Elgin finanzia interamente a proprie spese gli studi archeologici nell'area del Partenone, finendo con l'essere autorizzato – “si concede la possibilità a questi franchi” (ovvero gli inglesi) – non solo a procedere con gli scavi ma a prelevare “qualche pezzi di pietra”, ovvero i marmi del Partenone che ancora oggi sono esposti al British Museum. Il documento, interamente redatto in italiano, seppure con qualche errore come quello citato, è un firmano partito da Instanbul nel quale è attestata la scelta di adottare la nostra lingua come lingua veicolare per parlare agli inglesi, in un contesto nel quale è forte la mescolanza etnica e linguistica di greci, ebrei ed armeni.
E la medesima funzione veicolare la si può osservare nell'ultimo esempio riportato da Bruni: quello di una illustrazione di Lorenzo Bianchi, datata 1718, relativa alla Pace di Passarovitz (località vicina all'odierna Belgrado). Nel documento sono ritratti i partecipanti – inglesi, turchi, olandesi e veneziani – assieme ai diversi dragomanni e l'elemento più particolare è proprio la didascalia che accompagna l'immagine, interamente in italiano, e che consente di identificare le funzioni e le provenienze dei diversi membri di quello che Francesca Dovetto ha simpaticamente definito come un G4 dell'epoca. Un incontro da cui emerge chiaramente non solo la mescolanza culturale e linguistica, ma anche la grande funzione veicolare dell'italiano, strumento di cultura tra popoli distanti non solo linguisticamente.

Ritornando al punto di partenza, Bruni ha concluso così la propria riflessione: se l'italiano è stato capace di essere una lingua tanto centrale e diffusa proprio quando il suo peso economico-politico nel quadro europeo e orientale era pressoché nullo, potremmo essere ottimisti. Infatti, tracciando un parallelo con l'attuale congiuntura storico-economica, potremmo trovare spunto per dare nuovo splendore e vitalità alla nostra lingua attraverso le sue idee e la sua cultura, piuttosto che attraverso il suo potere.

Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco

© RIPRODUZIONE RISERVATA