The Postcolonial Museum. Archivi e memorie nell'era digitale. Intervista a Iain Chambers
The Postcolonial Museum. Archivi e memorie nell'era digitale. Intervista a Iain Chambers
Abbiamo intervistato Iain Chambers, coordinatore del gruppo di ricerca dell'Orientale impegnato nel framework di ricerca “Cultural Memory, Migrating Modernity and Museum Practises”
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Professor Chambers, lei fa parte del comitato scientifico che ha promosso il convegno svolto nell'ambito del progetto MeLa. Ci può descrivere brevemente in cosa consiste il progetto e qual è il ruolo del gruppo di ricerca dell'Orientale, coinvolto in qualità di centro di eccellenza nell'ambito degli studi Postcoloniali?
Come molti di questi progetti finanziati dalla Comunità Europea si tratta di un rete composta da diverse università e anche da alcuni musei d'arte moderna e così via, in vari paesi d'Europa tra cui l'Italia, l'Inghilterra, la Francia, la Scozia, la Spagna. Il progetto dura quattro anni e consiste nell'idea di pensare, anzi, ri-pensare, il senso del museo all'interno di una modernità che ormai è intrisa da tutte le questioni legate ai flussi migratori. Ovviamente, questi flussi implicano anche un altro modo di narrare e raccontare la modernità, sia quella di oggi, sia in qualche modo quella che si apre ad un passato che oramai appare diverso. Un passato in cui le culture e le storie rimosse, negate collegate alla storia europea e coloniale ritornano e vengono portate avanti anche sui corpi dei migranti di oggi. È un invito a riflettere sulla migrazione di oggi, che ha a che fare con questa unificazione del mondo portata avanti dell'Occidente in questi ultimi tre-quattro secoli, e in cui il colonialismo e l'imperialismo sono stati centrali. Questo è lo sfondo storico-culturale e critico. Poi, dall'altra parte, c'è il museo.
Il museo, storicamente, esisteva come istituto in cui si cercava di elaborare un senso stabile dell'appartenenza, in primo luogo a livello nazionale: il museo come luogo per archiviare, un archivio autorizzato dallo Stato-Nazione moderno. Infatti, la nascita e lo sviluppo del museo ha molto a che fare con la nascita dello stato moderno liberale, occidentale e così via. In questo intreccio, tra il narrare le nazioni e l'elaborare il senso di museo, c'è anche la centralità spesso dimenticata del colonialismo che vuole, in parole povere, appropriarsi del resto del mondo. Le domande che sorgono a questo punto sono diverse: che succede nel momento in cui queste altre storie, altre culture – legate al ruolo del colonialismo nella formazione dell'Europa moderna – vengono riconosciute? Cosa succede quando si riconosce la centralità di queste memorie coloniali e delle storie delle migrazioni dal Sud del mondo verso il Nord? Cosa succede quando queste memorie vengono registrate? Prendendo il museo – nei suoi vari gradi, dal museo cittadino e locale, fino a quello nazionale, europeo e così via – che succede momento in cui i suoi spazi sono attraversati da altre storie e da altre culture che finora non sono state autorizzate dalla cultura europea e da quella tipologia di museo che cerca di custodire queste culture e queste memorie?
Come è stato affermato oggi, si tratta di ri-memorare o rimembrare, cioè non solo raccogliere o registrare che ci sono state storie e culture finora escluse. Nel momento in cui si è disposti a riconoscere la complessità della modernità – in cui colonialismo e l'imperialismo sono stati centrali – non si tratta puramente solo di aggiungere una Sala nella quale si parla della storia coloniale, accanto alla storia nazionale dei grandi paesi. Infatti, in qualche modo, questa presenza finora rimossa o negata richiede una rielaborazione in tutti i sensi del museo stesso. E sorgono ulteriori domande: di chi è il museo, di chi è la memoria, l'archivio. Chi è che decide cos'è la storia della modernità? Come sappiamo oggi, la storia della modernità non è solo quella elaborata in centri come Napoli, Milano, New York, Los Angeles, ma anche quella elaborata a Shangai, in Africa e così via. A questo punto si tratta di riconoscere che c'è una realtà a tal punto complessa da far esplodere i punti di riferimento istituzionali dei musei.
Come definire la nozione di liquidità da lei spesso adoperata in riferimento al Mediterraneo?
Questa è ovviamente una provocazione, che in un certo senso si collega alla domanda precedente. Si tratta di insistere su alcuni punti. Siamo abituati a parlare di Mediterraneo come se fosse il luogo in cui è nato l'Occidente, come se ci fosse una continuità senza interruzioni dalla cultura classica e greca fino a noi: questa parabola del nostro senso di appartenenza. Il Mediterraneo, lo dice la parola stessa, è “tra” le terre e sappiamo che, almeno dal punto di vista geografico, il Mediterraneo è il luogo d'incontro tra tre continenti, Asia, Africa e Europa; senza dimenticare che, fino a poco tempo fa, fino a tre-quattro secoli fa, forse le sponde africane e asiatiche avevano una potenza storico-culturale spesso più importante di quella europea.
In questo quadro, questa idea di liquidità è una provocazione nella misura in cui cerca di sradicare il senso di appartenenza che ognuno di noi ha ereditato: che ognuno ha la sua cultura, il suo paese, i suoi costumi, le sue tradizioni. Un modo per rendere vulnerabile questo senso di appartenenza, di identità, per porre domande che siano più aperte e più fluide, e forse più complesse.
L'esempio più banale... si parla di dieta mediterranea come se questo tipo di alimentazione fosse sempre stato qui, e invece sappiamo che cinque secoli fa non esisteva nemmeno la possibilità di avere alcuni degli ingredienti che compongono questa dieta: non c'era il pomodoro, non c'era il peperoncino e così via. E tutti gli elementi che compongono la nostra cosiddetta tradizione meridionale sono i frutti del colonialismo, senza il colonialismo sarebbe stato impossibile prendere i pomodori dal Perù.
L'idea è questa: rendere tutto molto più mobile e soprattutto per sradicare questo senso di appartenenza, perché non possiamo parlare di senso di appartenenza – sia esso all'Italia, al Mediterraneo, all'Europa – senza includere una serie di elementi e dimensioni che siamo abituati ad escludere. Un esempio, l'attuale paranoia scatenata da tutto ciò che è collegato all'Islam e che viene trattato come un elemento esterno alla formazione dell'Europa moderna. Sappiamo che l'Islam è stato presente in Europa almeno da tredici secoli, in alcuni casi molto più a lungo del cristianesimo, per esempio nel Nord Europa rimasto ancorato a tradizioni pagane fino al Trecento-Quattrocento.
Vogliamo proporre questa idea di riaprire l'archivio del senso di appartenenza europeo, così come quello Mediterraneo, perché di solito si parla solamente in termini di sponda nord, dalla Grecia alla Spagna, e si esclude tutto il resto,, la sponda sud dall'Africa all'Asia. Una metà che da tanti punti di vista – storico-culturale, ma anche alimentare, per tornare all'esempio fatto prima – è stato centrale nella formazione mediterranea e, in qualche modo, anche della cosiddetta modernità Occidentale. Per cui, l'idea di liquidità serve per “portare a mare”, per togliere queste sicurezze territoriali e questo senso di appartenenza: un invito a rinegoziare la complessità della propria formazione, e soprattutto – pensando alla mobilità e all'elemento acqua – insistere sul fatto che la cosiddetta identità, o la cultura, non sono oggetti ma processi, e quindi sempre in atto e sempre in via di rielaborazione.
Come si è evoluto il concetto di museo nell'era globale e digitale, nella trasformazione da luogo di una memoria relativamente statica a luogo nel quale far confluire la mobilità dei nostri tempi? E in che modo i linguaggi visivi possono contribuire a diffondere nuovi modelli di multiculturalità e di dialogo in uno spazio come quello del Museo?
Proprio poco fa, nel corso del convegno, si è parlato di una proposta dello studioso americano Ian Alan Paul, che ha ideato un museo di Guantanamo Bay che in realtà non esiste, perché è un sito su Internet nel quale egli, in qualche modo, tenta di utilizzare i linguaggi digitali per fornire una serie di domande e questioni relative al museo stesso.
Il museo tradizionale, classico, è anche un mausoleo, come una cripta in cui si ha questo senso di autorità fissa, stabile e naturalmente c'è una sfida nuova ogni giorno con tutte le questioni collegate alle prospettive digitali che permettono di confrontarsi in un modo nuovo, se vogliamo più fluido e più flessibile, con l'idea di archivio. Quando si dice archivio si pensa ad uno spazio fisico, una stanza, una camera, un edificio che si apre con una chiave; e una volta girata la chiave si entra nell'archivio, per raccogliere e conservare i documenti. Ma si potrebbe pensare, anche qui, ad un archivio costruito in un modo digitale oppure un archivio che non raccolga documenti e libri ma, ad esempio, suoni. La musica, in qualche modo, è un'altra forma di archivio anche se spesso non è riconosciuta come tale dalla storiografia istituzionale. Proprio di recente ho portato avanti una riflessione sul Mediterraneo concepito come un archivio musicale: seguendo i suoni si riesce a mappare, a creare una cartografia del Mediterraneo assai diversa da quella fornita dalla storiografia istituzionale che funziona sempre per unità nazionale. E invece qui, i suoni, raccontano una storia completamente diversa del Mediterraneo, in cui c'è una prossimità che la storia nazionale e istituzionale cerca di evitare, mantenendo le distanze (Mediterraneo Blues. Musiche, malinconia postcoloniale, pensieri marittimi, Bollati-Boringhieri, Milano, 2012, 107 pp; NdR). In sintesi, quando parliamo di linguaggi digitali, non ci sono soltanto tantissimi elementi in gioco ma, a mio parere, c'è un supplemento, c'è un qualcosa in più che può essere sfruttato, proprio a partire da questa idea di fluidità, sia pensando ad altre forme di archivio, sia pensando a come i linguaggi digitali rendono molto più problematica l'autorità stessa del museo, la definizione dell'archivio, della memoria, della memoria istituzionale e così via...
“I corpi della storia” e “i luoghi della memoria”. Questi i concetti portanti del convegno: come si coniugano tra loro questi concetti e in quale chiave?
Questo è il discorso su che cosa è stato escluso dalla narrazione del passato e concerne la narrazione del presente che è esibito nel museo. Nel museo viene messo in mostra un certo modo di spiegare e razionalizzare il passato e di configurare il senso del presente. Nel momento in cui si incomincia a registrare che ci sono altre memorie che appartengono ad un'altra storia, tutto questo va messo in discussione.
Un esempio molto semplice, elaborato negli ultimi due decenni, è quello della storia della schiavitù, soprattutto della tratta degli schiavi dall'Africa all'America sotto le potenze europee, il famoso triangolo tra Africa, Europa e America dal Cinquecento in poi. Siamo abituati a pensare: è una storia terribile, però appartiene oramai al nostro passato, e comunque è una cosa accaduta nella cosiddetta periferia del mondo moderno, laggiù in Africa o nelle piantagioni in America, e non ha niente a che fare con realtà e formazioni di città e metropoli come Londra, Parigi, Napoli, ecc. La verità è che nel momento in cui si penetra in queste storie si incomincia a registrare la centralità della schiavitù, anche in Europa, prima della cosiddetta scoperta dell'America. Quando Caravaggio viveva a Napoli c'erano più di diecimila schiavi in città, ma siamo abituati a pensare agli schiavi come qualcosa che ha a che fare con gli altri: Islam, Impero Ottomano e così via.
L'idea è questa: riprodurre la storia della schiavitù non solo per registrare di nuovo una storia che è stata negata o dimenticata, ma per essere stimolati a riscrivere la storia della modernità. Una storia in cui, per l'economia politica dell'Atlantico moderno che ha fornito le cosiddette basi della democrazia liberali, è stata centrale la manodopera, e al centro della quale c'è l'idea di schiavitù. L'ultimo film di Tarantino,Django Unchained, parla di questo: della violenza nell'elaborazione degli Stati liberali, sia in Inghilterra o in Francia o negli Stati Uniti.
Questi due temi rappresentano queste memorie negate contro questi corpi che sono corpi individuali, corpi di storia, ma anche corpi di formazione culturale che rientrano in gioco. In questo modo c'è una scompaginazione della storia ufficiale della modernità che invece, di solito, è una storia lineare. Così si comincia a disseminare una serie di intervalli, di intuizioni, di domande che arrivano da memorie, corpi, volti e storie non autorizzati dalla narrazione istituzionale e ufficiale.
Che riscontro ha avuto la vostra partecipazione al progetto MeLa in questi primi due anni di attività e quali sono i progetti futuri?
Finora è stato pubblicato un volume nel quale si riprende la tematica dei nuovi linguaggi digitali e visivi, un volume ricco di immagini. Essendo un'edizione digitale, consultabile e che si può scaricare online (al link http://www.mela-project.eu/publications/949, NdR), e, dato che oggi non sarebbe possibile rendere queste immagini su carta altrettanto bene, appare anche più bello di una edizione tradizionale; inoltre stiamo preparando un secondo volume che sarà basato sui lavori di questo convegno abbiamo intenzione di organizzare un seminario verso la fine dell'anno indirizzato verso le pratiche artistiche. E non bisogna dimenticare che tutte queste idee, essendo finanziate dall'Unione Europea, dovrebbero fornire una serie di prospettive critiche che dovrebbero incidere sulla pratica dei musei, di quelli istituzionali. Non è detto che accada, però è questo l'obiettivo.
Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco