Mattia Diletti e le esperienze dei cosiddetti “serbatoi di pensiero” in Italia
Mattia Diletti e le esperienze dei cosiddetti “serbatoi di pensiero” in Italia
Il ruolo dei think tank e la riconfigurazione del potere politico in Italia
7 maggio 2013, Università degli studi di Napoli “L'Orientale” – Ad aprire l'incontro Ruth Maria Hanau Santini, docente di Scienza politica all'Orientale, la quale ha introdotto Mattia Diletti, ricercatore nella medesima disciplina alla Sapienza di Roma. Il tema del seminario è la presentazione dei risultati di una ricerca svolta nel 2012 sulla presenza dei think tank in Italia, non ancora diffusa tramite i canali ufficiali.
Prima di entrare nel vivo, Diletti ha chiarito le origini e le differenti connotazioni di quelle che egli stesso ha definito come “università senza studenti”: i think tank nascono infatti come delle organizzazioni in cui si fa ricerca scientifica e il cui obiettivo è indirizzare le istituzioni governative verso particolari politiche sociali, economiche, ambientali e così via. Anche se è possibile trovare tracce del fenomeno già alla fine dell'Ottocento in Inghilterra, la nascita dei think tank è solitamente associata agli Stati Uniti perché è il paese in cui la loro diffusione è stata più capillare nel corso di tutto il Novecento, anche in virtù del marcato filantropismo che caratterizza la società americana e della maggiore fiducia nelle scienze sociali – viste come strumento incisivo nella risoluzione di problemi legati a fattori sociali, economici e così via. Negli Stati Uniti si tratta, perlopiù, di organizzazioni ed enti finanziati privatamente, che godono di budget molto elevati e in cui la partecipazione istituzionale è minima se non assente, la cui mission principale è quella di fornire una cornice di senso per promuovere nuove politiche e offrire maggiori strumenti utili al lavoro delle istituzioni.
Dopo un breve excursus, Diletti si è concentrato sulla situazione in Italia, in cui quello dei think tank è un fenomeno relativamente recente e per molti versi distante dalle esperienze americane e internazionali, che ha conosciuto un forte sviluppo soprattutto negli ultimi vent'anni in cui il numero di enti è praticamente raddoppiato. La particolarità dei think tank italiani conduce direttamente al fulcro dell'incontro. La principale anomalia tutta italiana, infatti, è che spesso questi centri nascono direttamente dall'idea di singoli leader politici e, al contrario degli altri paesi, la spinta che ne consegue è inversa, dalla politica alla società.
Diletti si è servito dei i dati della ricerca per mostrare alcuni degli elementi più particolari: su un totale di 88 organizzazioni censite, ben una trentina risultano legate a singole leadership politiche. Grazie ai dati è stato possibile classificare i think tank italiani in base a quattro diverse tipologie. Il 32,4% rappresenta l'anomalia italiana, il think tank personale, legato a singoli individui perlopiù appartenenti al mondo politico; il 41% risulta policy oriented con particolari interessi più o meno differenziati; il 19% opera per la memoria e la cultura – come il think tank Gramsci; l'ultima tipologia è quella dei policy forum in cui si incontrano sopratutto personaggi interessati trasversalmente alla politica e provenienti da ambienti diversi tra loro, come il think tank VeDrò. La forte presenza di interessi politici e personali, più che culturali, si evince anche da un altro dato di grande rilievo: l'Italia si distingue dal contesto internazionale, infatti, per l'indice di produttività scientifica che qui è praticamente nullo. Pur riconoscendo che un 20% del totale lavora in modo più dinamico, si tratta in ogni caso di una minima percentuale se si considera la mission iniziale di questi enti: concretamente si va ben poco oltre l'organizzazione di un convegno, di un confronto pubblico o di un seminario, e sono molto rare le pubblicazioni dei risultati della ricerca. Inoltre, osservando l'organico dei think tank, questo dato appare ancor più scoraggiante: quasi il 50% dei componenti delle organizzazioni italiane viene dal mondo dell'università, molti altri vengono dalla politica e pochi dalla burocrazia pubblica, tranne una minima percentuale che collabora con l'amministrazione pubblica pur non facendone parte. Lo scarso indice di internazionalizzazione dei think tank italiani è, a questo punto, indicativo quanto motivato: l'unico settore in cui sembrano esserci contatti con il resto del mondo è quello degli enti che si interessano di politica estera, oppure altri casi sporadici di organizzazioni ben inserite in circuiti altamente internazionalizzati, come l'EURISDE di Trento.
Il panorama, in sintesi, mostra una situazione complessa ma non del tutto negativa. Molti degli elementi presi in considerazione appaiono limitanti, anche considerando la carenza di fondi privati, la mancanza di una progettualità a lungo termine e il relativo coinvolgimento della società civile in senso stretto, aldilà delle cerchie di accademici e politici. Ciononostante bisogna riconoscere la presenza di altri elementi positivi, come il buon livello di pluralismo culturale, la forte crescita, anche se relativamente tarda e, ancora, un dato che si ritiene molto rilevante, il fatto che molti think tank in Italia riescano ad operare anche senza alcun finanziamento.
Riflettendo sul quadro presentato e sul contesto italiano, alcuni fattori sembra siano stati condizionanti: da un lato le crisi delle organizzazioni di partito e la conseguente personalizzazione della politica, associate alla crisi della ricerca e dell'università, e dall'altro il fatto che anche i gruppi di interesse e le lobby abbiano capito quanto sia necessario un lavoro non solo di promozione e di marketing ma anche di costruzione di un ambiente culturale che sia capace di avvicinare le aziende al pubblico cui si rivolgono. E questo è proprio il caso della ricerca presentata da Diletti, finanziata da una azienda del settore delle telecomunicazioni che è interessata a conoscere di più delle dinamiche di comunicazione del Paese in cui opera.
Azzurra Mancini - Direttore: Alberto Manco
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