Alessandra Cappelletti: una (bella) esperienza di co-tutela tra Napoli “L'Orientale” e Pechino
Alessandra Cappelletti: una (bella) esperienza di co-tutela tra Napoli “L'Orientale” e Pechino
Arrivata nel posto giusto al momento giusto per partecipare al dottorato che voleva: "Sono di Cesena e mi sono laureata a Venezia. Ma conoscevo l'Orientale di Napoli per le sue antiche tradizioni nello studio del cinese e per la ricchezza dell’offerta didattica. Già allora sapevo di quanto fosse ampio il repertorio di studi dell'Orientale, dalla turcologia e iranistica al Giappone". In questa bella intervista Alessandra Cappelletti lascia intravedere la complessità e l'intreccio di relazioni, studio, lavoro che stanno dietro un dottorato tra Italia e Cina. Con nomi e cognomi di chi ha lasciato il segno nella sua formazione.
Lei non è un’ex studentessa dell’Orientale. Quale ateneo ha frequentato? Come conosceva L’Orientale? Ne parli, se vuole, ampiamente. Magari con qualche aneddoto.
“Sono laureata all’Università Ca' Foscari di Venezia. Essendo di Cesena e volendo studiare cinese, la sede di Venezia era più comoda e mi sono iscritta lì.
Conoscevo l'Orientale di Napoli soprattutto per le sue antiche tradizioni nello studio del cinese e per la ricchezza dell’offerta didattica. Già allora sapevo di quanto fosse ampio il repertorio di studi dell'Orientale, dalla turcologia e iranistica al Giappone, ma sono arrivata a Napoli in un momento “maturo” della mia carriera di studi, per il dottorato. Avevo conosciuto in precedenza la professoressa Cristina Ercolessi e il professor Mazzei, che stimo molto, mentre la storia della Cina si studiava sul volume del professor Santangelo e anche lui si trovava a Napoli. Nonostante abbia scelto di studiare cinese forse un po' per gioco, durante gli studi a Venezia mi appassionai molto alla lingua e alla cultura della Cina, che da allora ho sempre continuato, in diversi luoghi, ambiti e modi, ad approfondire. Sia Mazzei che Ercolessi mi avevano dato l'idea di essere persone molto dinamiche e illuminate e per un progetto di ricerca come il mio ci volevano docenti così. Feci, quindi, l'esame a Napoli e Torino, dove invece insegna il professor Buttino, il cui lavoro sull'Asia Centrale post-sovietica è estremamente interessante. Passai l'esame a Napoli e fu una grandissima soddisfazione.”
Di cosa si occupò nel Suo lavoro di tesi? Da quale docente fu seguita?
“Scrissi la tesi sul concetto di “natura umana”, xing性, nei 13 capitoli esterni del testo classico taoista Zhuangzi. Il mio relatore era Maurizio Scarpari, il correlatore Attilio Andreini. Il cinese classico era per me un bellissimo rebus, quasi un videogioco, aveva uno spessore “tridimensionale”. E quei testi e caratteri non semplificati contenevano una profondità di messaggio, una concentrazione di esperienza, emozionanti. Esperienza intellettuale ma non solo, anche tangibile, quotidiana.
Due sono gli aneddoti che preferisco, entrambi tra i capitoli esterni: uno è quello sull'albero di montagna, che rimane vivo e non viene tagliato dal boscaiolo perché il suo legno è ritenuto inutile. La sua inutilità lo salva, e gli permette di vivere in armonia con l'ambiente che lo circonda. Un altro è quello sugli zoccoli di cavallo, adatti a percorrere sentieri impervi e a sopportare freddo e dolore. Nelle condizioni difficili il cavallo vive e resiste, mentre quando viene messo in stalla e adornato con pietre e stoffe, muore.
Se letti nel loro significato metaforico, questi passi del Zhuangzisono insegnamenti molto preziosi nella loro semplicità, anche oggi come più di 2000 anni fa. Il Professor Scarpari fu il mio professore di riferimento, che mi aiutò ad appassionarmi alla materia e a leggerne i significati profondi. Era abbastanza severo e mi ricorderò sempre le urla che si sentivano quando si attendeva il proprio turno fuori dalla porta per sostenere l'esame: “Lei deve essere esaustivo!”. Era quello che faceva più paura a tutti.”
Quali sono i ricordi che conserva dell’esperienza universitaria?
“I miei ricordi universitari sono legati a Venezia. La Ca’ Foscari negli anni '90 era un ambiente dinamico, vivace e pieno di energia. La particolarità della città aveva certamente una sua importanza, gli studi del cinese ne venivano arricchiti.”
C’è qualche professore che ricorda con particolare affetto?
“Di Venezia ricordo Maurizio Scarpari, con moltissimo affetto e riconoscenza. Mi è rimasto impresso il momento in cui venne a cercarmi nella mensa universitaria per dirmi che mi avevano preso a Leuven per fare l'Erasmus, ed era più contento di me. A Leuven, al tempo, insegnava una classicista di fama, Carine Defoort, con la quale poi andai a studiare.
Di Napoli, invece, la professoressa Siddivò, la mia tutor, a cui non posso non pensare senza affetto. La chiarezza mentale e la sistematicità di pensiero che la caratterizza mi hanno permesso di arrivare al terzo anno di dottorato e a preparare la tesi che sto scrivendo. Senza di lei sarei ancora sommersa da materiale e informazioni che faticherei a mettere insieme. Mi sta insegnando a organizzare un pensiero complesso, a trasmettere in forme chiare e comprensibili a tutti informazioni dalle mille implicazioni. Insomma una vera guida. Uno dei momenti più carini fu quando le portai dolcetti turchi pieni di miele al ritorno da una visita all'attuale co-tutor in Turchia: era contentissima!
Provo un affetto particolare anche per la professoressa Orofino che mi ha aperto la strada della cotutela, e con la quale mi trovai a Pechino durante le procedure di firma dell'accordo nel giugno del 2010. La sua conoscenza del Tibet e dei suoi testi classici è emozionante. Ricordo che spesso, a cena, mi raccontava storie prese da testi tibetani, e i suoi racconti erano quasi “visivi”, sembrava che le scene e i personaggi si materializzassero davanti a me. La sua disponibilità e supporto sono stati fondamentali.”
Qual è stato il Suo percorso dopo la laurea?
“Il mio percorso dopo la laurea è costituito da fasi diverse ma collegate: un master in relazioni internazionali e diplomatiche a Padova mi ha aperto la strada per una borsa del progetto europeo Leonardo, che mi ha portata a lavorare alla Camera di Commercio di Salonicco e a imparare il greco moderno all'Università Aristotele della stessa città. In seguito, prima del dottorato ho lavorato nel settore commerciale Asia-Pacific di una azienda di Bologna, in una banca e in uno studio legale internazionale. Queste esperienze lavorative sono state una palestra fondamentale per passare dalle dinamiche universitarie a quelle del mondo del lavoro, in parte diverse ma in parte simili. Una scuola di vita diciamo, che mi ha dato le competenze e la prospettiva per relazionarmi con diversi ambiti sociali acquisendo competenze che mi sono utili anche nel percorso di ricerca.
Poco prima del dottorato avevo cominciato a pubblicare reportage e articoli su Cina e Turchia, due paesi dove andavo spesso. Il Xinjiang era sempre stato un mio interesse, forse perché, culturalmente, proprio a cavallo tra Turchia e Cina. La curiosità per quella regione era rimasta silente per anni: ci andai per la prima volta nel 2007 per scrivere dei reportage e, dopo un altro viaggio nella regione passando dal Kazakhstan capii che non mi bastava osservarlo da fuori, volevo entrarci dentro e capirne le dinamiche. Ero stata più volte in Palestina e avevo notato somiglianze e differenze in seguito ad alcune osservazioni sul capo: da questo confronto, nato casualmente, ho formulato il progetto di ricerca per il dottorato.”
Nel 2008 Lei è risultata vincitrice del Concorso di Dottorato di Ricerca in Asia Orientale e Meridionale in co-tutela con la Minzu University of China. Cos’è di preciso un dottorato in co-tutela e come funziona?
“Nel 2008 ho vinto il concorso per il dottorato AOM all'Orientale e ho cominciato a lavorare con un progetto di ricerca sui Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang, argomento abbastanza nuovo e interessante, seguita dalla Prof.ssa Siddivò, la mia tutor. Ho raccolto materiale alla SOAS e alla London School of Economics di Londra, e, soprattutto, nel Xinjiang. Ho frequentato le lezioni obbligatorie del ciclo di dottorato e sono entrata in co-tutela solo nel settembre 2010, quindi all'inizio del terzo anno. Il mio tutor, alla Minzu University of China (MUC), è il professore uiguro di sociologia Abduresit Jelil Qarluq. In seguito alla mia adesione all'accordo di co-tutela ho modificato il progetto di ricerca, il cui focus è diventato lo sviluppo economico e sociale nel Xinjiang, a Kashgar e Shihezi (città che fa parte dei Corpi di Produzione e Costruzione del Xinjiang). Inoltre, siccome l'accordo di co-tutela prevede l'ottenimento dei due titoli, quello italiano e quello cinese, la parte cinese ha voluto che frequentassi le lezioni alla MUC per almeno due anni, quindi il mio dottorato avrà una durata di 4 anni, visto che sono entrata in co-tutela al secondo anno.
Il dottorato in co-tutela permette al dottorando di essere seguito da due “supervisors” e di frequentare corsi nelle due università collegate dall'accordo. Questo rende il lavoro di ricerca più ricco e stimolante, anche se non bisogna sottovalutare la mole di documenti e relazioni che bisogna produrre, soprattutto nell'università cinese. Il rilascio del doppio titolo è inoltre un qualcosa in più che si aggiunge al curriculum studiorum, e non bisogna neanche sottovalutare la possibilità di pubblicare nei due paesi di riferimento, eventualmente nelle due lingue. Il dottorando ha anche la possibilità di crearsi un percorso di studi personalizzato avendo a disposizione le risorse dei due Istituti ed è un portatore di esperienze di studio e ricerca nuove per l'università ospite, nel mio caso la MUC. Nel momento in cui si torna all'”università madre”, si porta un'esperienza di ricerca più ricca. Per tutti questi motivi in termini generali consiglierei a ogni dottorando di valutare la possibilità di usufruire degli accordi di co-tutela dell'Orientale, che sono tanti e permettono di muoversi tra due culture e fare una esperienza unica.”
Ci potrebbe raccontare qualcosa di quest’esperienza in terra cinese?
“L'esperienza è tuttora in corso. Sto entrando nel quarto ed ultimo anno di dottorato. Ho finito il lavoro di ricerca e attualmente sto scrivendo la tesi e frequentando le ultime lezioni obbligatorie. La parte più interessante dell'esperienza è stata la ricerca sul campo: un lungo periodo passato nel Xinjiang con un permesso rilasciato dalla MUC per fare interviste e accedere a materiale non pubblicato (neibu). Questo, dal punto di vista della ricerca, è molto importante, perché permette di entrare in quelle pieghe del sistema cinese che sarebbero altrimenti inaccessibili per uno studente straniero. Inoltre, ho avuto la fortuna di partecipare a un progetto di sviluppo finanziato e promosso dal governo cinese e da quello tedesco nelle aree rurali più povere della prefettura di Kashgar. Il progetto consiste nell'installazione di impianti di irrigazione in zone rurali dove l'entrata media annua di una famiglia di quattro membri è di soli 700 kuai: con impianti di irrigazione avanzati, che permettono di razionalizzare le risorse idriche per irrigare i campi, in un'area colpita da un’endemica carenza di acqua, si dà la possibilità ai contadini di coltivare terreni più produttivi innalzando le entrate annue. Il mio compito, e quello del mio tutor cinese, il team leader, era quello di verificare che la distribuzione dei nuovi terreni irrigati fosse stata equa, e che fosse avvenuta in base a criteri quali l'entrata media, il numero dei componenti familiari, il grado di istruzione e l'eventuale impossibilità di fare altri lavori. Inoltre, una parte importante del lavoro è stato verificare che i contadini fossero in possesso dei documenti attestanti il diritto di usufrutto dei terreni, e che questi documenti, qualora presenti, fossero in regola e corrispondessero ai criteri di legge. Il tema della confisca di terreni da parte delle autorità ai danni di contadini inermi e sprovvisti di documenti che garantiscano almeno una adeguata compensazione è un tema molto caldo, soprattutto in quelle aree della Cina, come il Xinjiang, dove gli investimenti nel settore immobiliare vanno nella direzione del “costruire costruire costruire!”. Grazie a questo lavoro di tre settimane ho avuto la possibilità di intervistare i contadini e le autorità locali, e di capire meglio dinamiche che diversamente sarebbero rimaste oscure.
Il mio studiare alla MUC mi permette di confrontarmi con studenti e docenti cinesi appartenenti a diversi gruppi etnici, portatori di idee e categorie diverse dalle mie. Questo è molto stimolante per la mente e la ricerca.”
Per i Suoi studi di ricerca si sta occupando della minoranza Uiguri. Come mai questa scelta?
“In realtà non mi occupo proprio di uiguri, ma di diseguaglianze regionali in Cina e di dinamiche discriminatorie. Certo, avendo scelto il Xinjiang, mi occupo anche di uiguri, ma devo dire che la scelta è stata in parte casuale: è stata la somiglianza con alcune dinamiche discriminatorie osservate in Palestina a farmi scegliere il Xinjiang come luogo di ricerca, in quanto caratterizzato da una situazione politica e socio-economica ricca di spunti. Gli uiguri li ho conosciuti pian piano, insieme alla loro lingua, che sto ancora studiando, e sicuramente sono una popolazione “ponte” tra diverse culture.”
Per le Sue ricerche ha viaggiato nello Xinjiang, la regione a nord-ovest della Cina patria della minoranza uigura. Con quale realtà si è confrontata? Chi sono gli Uiguri?
“Il Xinjiang è una realtà piena di contraddizioni, dura nelle sue dinamiche interetniche, accogliente per essere un crocevia storico sulle “vie della seta”. È una regione che presenta una natura incredibile: deserti inaccessibili, come il Taklamakan (che in uiguro significa “dove si entra ma da cui non si torna indietro”), montagne e ghiacciai, laghi montani, fiumi e foreste costituiscono lo scenario di un posto unico. Le città e le mummie sepolte tra le sabbie, alcune risalenti al 3000 a.C, insieme a siti archeologici più accessibili, rendono la regione un posto da visitare anche da turista.
Come dicevo, confrontarsi con il Xinjiang significa avere a che fare con una realtà dura: quello che salta subito agli occhi sono le condizioni di povertà estrema in cui vive la maggioranza della popolazione uigura. Sia nelle aree urbane che in quelle rurali, lo standard di vita degli uiguri, includendo livello di istruzione, accesso ai servizi sanitari e culturali, stipendio medio, possibilità di migliorare le condizioni di vita, è molto basso. Ci si confronta con una società pre-industriale, come eravamo noi prima del boom economico e dell'era tecnologica. Gli han vivono molto meglio, le risorse a disposizione sono di più. C'è quindi una discriminazione “istituzionalizzata”, che prevede “preferencial policies” destinate ai soli han, migliori risorse per le scuole han, e che rientra nel progetto, ormai di medio termine, di sinizzare la popolazione uigura, riducendone le specificità culturali e religiose a manifestazioni divertenti di folklore. La cultura e la società hansono considerate la modernità, e con questo argomento sempre più hanstanno affluendo nella regione (nel 1949 erano il 6% ora sono ufficialmente il 42% anche se di fatto hanno superato il 50%).
Il fatto che il Xinjiang sia la regione autonoma uigura non cambia le cose: l'autonomia è solo di facciata, nella pratica governano gli han. Il grosso problema degli uiguri è di non avere leader validi, intellettuali illuminati. Senza una guida la popolazione è disorientata, e cade in basse dinamiche di corruzione che fanno il gioco del governo. Questi intellettuali uiguri che occupano posti di un certo rilievo nelle università, nelle case editrici, e magari nelle istituzioni locali, potrebbero forse pensare un po' meno al rendiconto personale e un po' di più al popolo che rappresentano lasciando da parte le faziosità per cominciare a comunicare con quegli han che, nonostante siano per loro vicini scomodi, sono oramai i vicini di casa, e quelli che decidono dell'andamento della società e del paese. Solo instaurando un dialogo nell'interesse di chi rimane sotto nella scala sociale forse è possibile ottenere più voce.
Inoltre, un grande silenzio e una pesante assenza è quella delle donne: i rapporti dei sociologi parlano di diffusa violenza familiare nelle famiglie uigure di tutti gli strati sociali. Le donne hanno un ruolo marginale: spesso non vengono mandate a scuola e in molti casi si sposano sotto i 18 anni. Prima di intavolare un dialogo con i vicini han, forse si potrebbe cominciare a far sentire la voce delle donne. Le dinamiche che muovono la società e il potere nel Xinjiang sono complesse, e di questo mi sto occupando per la mia tesi di dottorato, che spero di poter discutere al più presto a Napoli.
Un punto importante da non dimenticare è che gli uiguri sono una “costruzione politica”, come tutti gli altri gruppi etnici. Solo negli anni '50 si utilizzò questo termine, che nella storia dell'area c'è sempre stato ma veniva usato in modo più flessibile, indicando gruppi tribali turcofoni che vivevano nella stessa area, per classificare parte della popolazione turcofona del Xinjiang. Suddividere le popolazioni turche dell'Asia Centrale fu politica di Stalin, che voleva evitare di affrontare una popolazione dalle forti caratteristiche unitarie. Si pensi solo che uiguro, uzbeco e kazaco sono lingue molto simili. Dividere le popolazioni, e magari metterle le une contro le altre, è un'astuzia politica che la Cina ha sempre adottato, supportando la sua più compiacente ed obbediente maggioranza han.”
Quali sono – se ce ne sono – le principali differenze tra il mondo dell’istruzione cinese e quello italiano?
“La differenza principale è l'approccio alla didattica: il docente cinese vuole insegnare a gestire un problema pratico, a risolvere un dilemma, sia esso parlare una lingua o trovare vie di pacificazione tra gruppi etnici. Questo spesso non è accompagnato da un adeguato inquadramento teorico.
In Italia, al contrario, siamo molto forti nel teorizzare e forse un po' meno nell'insegnare come gestire un problema pratico (con le dovute eccezioni ovviamente). Inoltre, in Cina la politica è molto presente nelle aule, non come discussione politica, ma come linea da seguire per tutte le discipline. Chi non la segue ne subisce le conseguenze: alla Minzu University c'è un docente uiguro dissidente abbastanza conosciuto, Ilham Tohti. In Italia non c'è linea da seguire.”
Cosa si aspetta dal conseguimento del dottorato? Ha già fatto delle previsioni? Tornerà in Italia oppure resterà in Cina?
“Ho cominciato il dottorato perché lavorare sui temi descritti è una passione e considero il percorso non come una strada senza uscita, ma come il delta di un fiume. Gli sbocchi possono essere tanti. Certo, la cosa più bella sarebbe lavorare all'Orientale, anche perché questo ateneo ha fatto un investimento su di me dandomi molte possibilità e soddisfazioni ed un giorno vorrei poter dare anch'io il mio contributo.”
Ad Aprile 2010 sul portale web dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) è stata pubblicata la Sua ricerca “Gli uiguri del Xinjiang: processi politici e dissenso tra Cina e Asia centrale”. Potrebbe illustrarci i punti salienti del lavoro?
“Il lavoro per l'ISPI è un tentativo di leggere e interpretare gli scontri del luglio 2009 a Urumqi, in cui persero la vita almeno 200 persone. Io ero appena tornata dal Xinjiang, mi trovavo a Pechino quando lessi la notizia sulla BBC e cominciai a chiamare gli amici uiguri. Il pezzo vuole evidenziare la complessità del rapporto interetnico han-uiguri, ragionare sulle cause del conflitto e provare a suggerire delle misure politiche per un inizio di risoluzione della tensione. Il punto fondamentale è che se non ci fosse disagio non ci sarebbe violenza, e che il governo dovrebbe ragionare e risolvere il disagio accostando alle misure sviluppiste una maggiore attenzione per le specificità culturali e politiche della popolazione uigura del Xinjiang.”
Qual è, secondo Lei, il rapporto tra il bene culturale e la tutela delle minoranze storiche?
“Il rapporto è strettissimo. Per esempio nel Xinjiang la tutela dei beni culturali funziona se si tratta di archeologia legata alla storia handell'area; se i siti sono più legati alla cultura uigura, vengono lasciati deperire. I mazar, le tombe dei santi, ne sono un esempio. Ci sono tombe di santi e personaggi famosi dell'anno 1000, con pareti e volte maiolicate, architetture sincretiche e lavorazioni in legno che stanno soccombendo sotto le sabbie solo perché sono legati alla storia degli uiguri. Se l'obiettivo del governo è sinizzare le minoranze storiche necessariamente l'attenzione per il patrimonio culturale della minoranza è scarso e i fondi pure, anche perché a quel punto diventa una questione politica, quella della cancellazione della diversità. Se, invece, si volesse integrare un popolo, nella sua diversità, forse anche il patrimonio artistico e culturale ne gioverebbe. L'integrazione del diverso comporta un processo difficile, ma forse è l'unica misura che alla fine giova alla comunità.”
Si descriva con tre aggettivi.
“Curiosa, generosa, testarda.”
Chiara Pasquinucci
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