Alessandra Coppola: Il giornalista sia innanzitutto un buon artigiano

 

Alessandra Coppola: Il giornalista sia innanzitutto un buon artigiano

Laureata all’Orientale, giornalista al Corriere della Sera. Dall’esperienza universitaria alla attuale professione

Alessandra Coppola, che cosa ha studiato all’Orientale?

“Mi sono laureata in Scienze Politiche con indirizzo storico-politico nel Dicembre 1996.”

In quale materia e su quale argomento ha svolto la sua tesi?

“Mi sono laureata in Storia delle Dottrine Politiche con il professore Roberto Esposito. Il titolo della mia tesi era Hanna Arendt e Simone Veil: per un’analisi del totalitarismo.”

Perché ha scelto proprio quest’Università? Come conosceva l’Orientale?

“Posso dire che L’Orientale l’ho avuta in casa da sempre, dato che sono figlia di Pasquale Coppola, geografo e fondatore della Facoltà di Scienze Politiche, scomparso tre anni fa. Mio padre vi ha svolto tutta la sua carriera e negli anni ho sentito crescere attorno a me un vero e proprio culto per L’Orientale. Grazie a lui, ho avuto la possibilità di andare fin da bambina nei palazzi dell’Ateneo e di conoscere bene i suoi allievi: aveva una scuola molto ampia. 
A casa mia L’Orientale era insomma ‘un pezzo di famiglia’ e ci vuole poco a capire che l’ho scelta proprio perché c’ero così legata: ne sentivo parlare in modo così eccezionale che mi sembrava un’occasione imperdibile studiare in questo posto ideale.
D’altra parte, consideravo però insensato dedicarmi a fare le stesse cose di mio padre. Decisi così per un percorso diverso e mi ritrovai a frequentare in particolare il dipartimento di Filosofia e Politica.”

Quale ricordo ha degli anni trascorsi nel nostro Ateneo?

“Mi sono laureata abbastanza velocemente, in quattro anni esatti. Il ricordo che ne ho è di un periodo veramente bello sia dal punto di vista degli insegnamenti che dei rapporti con i compagni di studi.
Alcuni corsi, poi, li ritengo fondamentali nella mia formazione tanto mi sono rimasti impressi come Antropologia Culturale con la professoressa Pasquinelli o Storia economica e storia sociale con il professor Frascani.
Al di fuori delle lezioni, frequentavo inoltre iniziative culturali tra studenti e facevo parte di un collettivo politico.”

Ha ancora contatti con i suoi ex-colleghi di studi? E con i suoi docenti?

“Tuttora una buona parte dei miei amici napoletani provengono dall’Orientale: tutte persone che vedo o risento regolarmente e con piacere. Tra l’altro all’Orientale era iscritta anche una delle mie migliori amiche.
Per quanto riguarda i docenti, sono in contatto soprattutto con quelli che erano amici di mio padre anche se non hanno insegnato direttamente a me. Tra questi vi è, ad esempio, la professoressa Lida Viganoni, che conoscevo da quando ero ragazzina.”

Ci racconta un aneddoto legato ai suoi anni universitari che ricorda con particolare piacere?

“Ho migliaia di ricordi, davvero: la vita attorno all’Università era un continuo di cene, incontri, manifestazioni e feste.
Nella mia mente è rimasta particolarmente impressa quella volta che io e una mia carissima amica, ora funzionaria alla Regione Campania, abbiamo assunto la responsabilità della gestione di una festa a Palazzo Giusso: impegno che ci eravamo prese con troppa leggerezza, senza pensarci abbastanza, per un evento che tra l’altro nemmeno avevamo completamente organizzato.
Solo dopo ci rendemmo conto della reale entità dell’onere e delle eventuali conseguenze, ma ormai impossibilitate dal tirarci indietro, passammo tutta la serata con la paura che qualcosa andasse storto e che noi potessimo passare dei guai.
Nonostante l’ansia di allora, me la ricordo come una cosa molto divertente: noi che preoccupatissime facevamo degli sbarramenti per evitare che qualcuno potesse salire le scale o intrufolarsi dove non doveva.
Naturalmente durante quegli anni si studiava anche, e molto. A questo proposito, mi ricordo con nostalgia dell’esperienza dei sei mesi d’Erasmus trascorsi a Parigi.”

Lei ora è una giornalista di una testata prestigiosa come il Corriere della Sera: svolgere questa professione era un desiderio che aveva da prima dell’Università?

“Era un progetto che si era delineato nella mia mente da prima dell’Università, verso i diciassette-diciotto anni, e la Facoltà che poi ho frequentato mi sembrava un buon compromesso tra la passione politica e la voglia di dedicarmi al giornalismo. Avevo anche capito che non volevo fare la giornalista a Napoli, cercando collaborazioni sparse e aspettando inutilmente anni per un contratto, e il mio piano era di laurearmi in fretta e poi tentare l’ammissione alla scuola di giornalismo a Milano.”

Diventare giornalista: un’ambizione comune a molti giovani. Ci racconta come è avvenuto, nel suo caso, l’inizio di questa professione? È stata una gavetta dura?

“Come ho detto prima, nel 1996 mi sono laureata e l’anno dopo sono entrata alla Scuola di giornalismo milanese che frequentai nel biennio 1997-99.
Adesso non so bene come siano le cose, ma quando la frequentavo la Scuola era un canale eccezionale per ricevere una formazione mirata ed entrare direttamente nel mondo del giornalismo, anzi forse era l’unico modo veramente vero e pulito in Italia.
Molto impegnativo è stato il lavoro che mi sono trovata a fare al suo interno ma, alla fine, la fatica è stato pienamente ripagata visto che sono stata assunta molto presto al Corriere della Sera e, anche lì, ho continuato ad imparare e faticare.
Personalmente, ritengo che la gavetta sia ben peggiore al di fuori delle scuole di giornalismo. In riferimento al contesto napoletano, conosco gente che collabora con delle redazioni per anni senza nemmeno un contratto e poi si vede sorpassare dai soliti raccomandati.”

Quanto l’hanno aiutata nello svolgere il suo lavoro le conoscenze apprese all’Orientale?

“Molto, direi. Considero i miei studi assolutamente coerenti con ciò che faccio ora. Le conoscenze storico-politiche apprese mi hanno aiutato al momento di superare l’esame d’ammissione alla scuola di giornalismo e mi guidano anche ora nello svolgimento della mia professione.
Senza falsa modestia, è stato un bellissimo Corso di studi e mi è sinceramente piaciuto studiare all’Orientale.”

Secondo lei giornalisti si nasce, ovvero è necessaria una predisposizione naturale, o si può anche diventare?

“Ma certo che giornalisti si può diventare: non penso ci sia bisogno di talento o di un genio innato come quello per la musica. Lo ritengo difatti un mestiere artigianale che si apprende facendolo, come si trattasse di fabbricare un paio di scarpe!
L’importante è che lo si impari in massima parte con la pratica o, come dicevano i vecchi saggi, consumando le suole e stando in mezzo ai fatti e alle notizie che a volte si incrociano involontariamente, pensando di andare a cercare una cosa e trovandone un’altra. Ultimamente Internet ha però un po’ drogato questa visione del lavoro.

Pensa che la stampa cartacea tradizionale sia destinata prima o poi a scomparire data la crescente importanza di (anche social) media basati sul Web?

“Distinguerei due versanti: la crisi della carta e la crisi del giornalismo.
Nel primo caso, a causa del costo della carta e della manodopera immagino che, prima o poi, i giornali si trasferiscano su altri supporti, magari elettronici.
Nel secondo caso, ritengo invece che il citizen journalism, pur avendo una certa rilevanza sociale e politica, non possa essere in nessun modo sostitutivo dei giornali e della stampa: giornalisti non ci si improvvisa e la qualità della notizia ne risente subito quando si fa questo mestiere per hobby.
Come dicevo prima, tutti possono fare i giornalisti con una preparazione specifica e un’esperienza minima, ma di certo non è una professione che si inventa.
La pratica insegna a distinguere che cosa sia una notizia e cosa no, come si stabiliscono le priorità, come riportare un fatto senza che sia fazioso o ideologicamente schierato eccetera. Tutta una serie di sensibilità che, insieme a molte altre competenze, è necessario acquisire per svolgere questa professione a tempo pieno e fornire un’ informazione di qualità che aiuti veramente a comprendere i fatti.”

Sul sito del Corriere della Sera Lei ora sta curando il blog “Nuovi Italiani” dove tratta di immigrazione ed integrazione degli stranieri in Italia. Questi nuovi italiani, secondo lei, possono essere considerati una speranza per il futuro demografico ed economico del nostro Paese?

“Be’, dato che siamo un Paese che invecchia, i nuovi italiani sono certamente una speranza, innanzitutto demografica e poi anche economica, visto che con il loro lavoro ci pagheranno la pensione (anche se questo è valido fino ad un certo punto dato che parte dei loro guadagni torna al Paese d’origine).
Oltre a questi punti di vista, io credo che gli immigrati – io mi occupo in particolare di seconde generazioni – siano una fonte di nuove energie propositive per un Paese, come il nostro, stanco e sfiduciato.
Quello che sorprende in loro è infatti soprattutto la fiducia e l’ottimismo nei confronti del futuro.
Come emerge da alcuni dati del CENSIS, che mi sono trovata a visionare per un inserto dedicato ai 150 anni dell’Unità d’Italia, gli immigrati sopra ai 18 anni (e quindi non necessariamente le nuove generazioni) sono convinti, rispetto a noi, che negli anni a venire questo sarà un Paese più onesto, più giusto e che i loro figli avranno sicuramente migliori condizioni di vita: una popolazione piena d’energie che, anche a costo di grandi fatiche, riversa sull’Italia tante speranze e aspettative.
Tale atteggiamento potrebbe fare molto, essere una specie di spinta psicologica per un’Italia che al di là di una crisi economica, secondo me, sta sperimentando una crisi di valori e motivazioni. Queste persone, che avranno progressivamente la cittadinanza, spero vivamente siano una dose di adrenalina per il tessuto politico e sociale del Paese.”

Al di là di facili luoghi comuni, secondo lei qual è la giusta strada per una serena integrazione di popoli, culture e tradizioni diverse?

“Rendere le persone di varie provenienze tutte uguali davanti alla legge e farle partire dallo stesso nostro livello e quello dei nostri figli.
Essenzialmente, ci vuole un riconoscimento dell’uguaglianza degli esseri umani che abitano lo stesso territorio, al di là della provenienza o della nazionalità, perché si possa iniziare a parlare di integrazione. Fare in modo, cioè, che tutti siano partecipi alla gestione della stessa Cosa Pubblica ed avere responsabilità, diritti e doveri.”

Lei ora vive stabilmente a Milano. Come vede e quale atteggiamento ha verso Napoli, la sua città d’origine?

“Sono ormai quasi 14 anni che vivo a Milano ma non dimentico mai di essere nata a Napoli, città alla quale mi sento molto legata malgrado tutto quello che si dice di negativo a proposito.
Finita l’Università me ne volli andare perché volevo fare altre cose e mi pareva di non poter realizzare a Napoli il mio sogno di diventare giornalista.
Adesso rivedo la scelta con qualche senso di colpa e mi dispiace averla abbandonata.
Napoli mi sembra una città molto bisognosa e, a volte, penso nel mio piccolo a come trovare il modo di potermi tornare a occupare della mia città.”

Tre consigli che darebbe ad uno studente interessato ad intraprendere la carriera di giornalista professionista.

“Le cose sono cambiate molto negli ultimi anni ed io non sono – ahimè – troppo aggiornata. Dal mio punto di vista, ad uno studente giovane consiglio assolutamente la scuola di giornalismo, non solo per imparare a fare il giornalista ma anche come canale per ottenere stage in grandi giornali.
Un’altra cosa della quale mi sono fatta un’idea è che il giornalismo bisogna farlo in posti veri.
Come si sarà capito, io non credo molto al giornalismo fai-da-te o alle nicchie d’informazione: più formativa, soprattutto all’inizio, è un’esperienza in una realtà più completa come può essere quella di un’agenzia di stampa o di un quotidiano, non per forza grande, ma almeno che sia strutturato e si occupi sul serio di fare informazione.
Ad uno studente raccomanderei, quindi, tramite scuole di giornalismo o altre realtà universitarie che io però non conosco, di cercare uno stage presso una testata affermata e di imparare a diretto contatto con il mondo dei giornalisti professionisti. Poi magari tentare di riuscire ad inserirsi.
Se questa strada non dovesse soddisfare o riuscire, oppure nel caso di una persona più matura, ha senso anche collaborare dall’Estero.
Al contrario dell’Italia, dove è molto difficile fare il giornalista freelance, in Paesi poco battuti come l’India, alcune parti dell’Africa, l’America Latina si possono ottenere con maggior facilità una serie di collaborazioni con giornali del nostro Paese e svolgere così la propria professione.
Naturalmente ci vuole anche una buona motivazione e propensione personale a fare questo. Se devo dire la verità, io che ho imparato tante di quelle cose stando nelle redazioni, non ne sarei stata capace. Ad ogni modo, ritengo serva un qualche tipo di percorso formativo anche in questo caso poiché è improbabile dire un giorno «io sono un giornalista» ed iniziare a lavorare veramente.
In ultimo, lo ripeto ancora, fare il giornalista è un mestiere prettamente pratico e non un lavoro intellettuale. Lo si impara facendolo, magari sotto la guida di altri giornalisti più anziani come fosse l’apprendistato di un giovane pittore che va alla bottega dell’artista.”

Fabiana Andreani

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