Antonella Di Vaio: conoscere il mondo all'Orientale

 

Antonella Di Vaio: conoscere il mondo all'Orientale

Antonella Di Vaio

"Culture in estinzione? Bisogna osservarle per capire come l’istinto di sopravvivenza spinga a uscire dal guscio dell’isolamento. All'Orientale ho imparato anche questo"

 

 

 

 

 

 

Lei si è laureata in Lingue e letterature straniere, il 29 ottobre 1996, con voti 110 e lode, discutendo una tesi su «Narrative circolari e rituali ibridi in Ceremonydi Leslie Marmon Silko», relatrice Lidia Curti. Una tesi originale su una figura affascinante quanto poco nota. Immagino che questa tesi sia stata il punto d’arrivo di un percorso di studi altrettanto interessante. Vuol dircene qualcosa?

La mia tesi su «Narrative circolari e rituali ibridi in Ceremony di Leslie Marmon Silko» è stata il punto di arrivo di un lungo percorso umano e culturale che ha preso forma all’Orientale e che ha avuto come punto di svolta il terzo anno, quando ebbi l’opportunità di partecipare a un progetto pilota. Questo progetto sfociò nella realizzazione e produzione di un video che voleva essere rappresentativo di un fenomeno italiano di quegli anni: accendemmo i nostri riflettori sui Centri Sociali occupati.

Altri luoghi, luoghi “altri” dove la generazione dei ragazzi degli anni ’90 si riuniva: piccoli puntini all’interno del villaggio globale, luoghi concreti reali in cui vivere, confrontarsi e agire. L’approccio era quello dei Cultural  e Media Studies. Ne nacque un video presentato in un convegno internazionale a Barcellona, e che riscosse grandi consensi e attestati di stima. Da quest’esperienza compresi che ciò che mi interessava erano gli aspetti culturali definiti “minori”. Così iniziai ad occuparmi in maniera naturale, mai forzata, anche della cultura degli Indiani d’America. Quel lavoro di ricerca e scrittura della tesi mi ha cambiata per sempre.

Un punto fondamentale mi sembra che sia la riscoperta, operata da Leslie Marmon Silko (nata nel New Mexico nel 1948), dell’identità nativa americana attraverso la riscrittura delle storie tradizionali. È un’opera, la sua, che aiuta anche a comprendere la relazione culturale dei nativi con la Terra e la Natura...

Senza alcun dubbio. Quando scrissi la tesi, appresi la cosmogonia di alcune tribù Nativo-Americane tra cui anche quella di Leslie Marmon Silko (Navajo e Pueblo). M’innamorai della loro concezione dell’universo e della natura: corpo e natura, il sé e la società non sono entità distinte e distaccate come invece avviene nella cultura occidentale classica. Per gli Indiani d’America se l’individuo sta bene ma la terra dove vive è malata si ha un cortocircuito. La stessa cosa accade per la società: non si può vivere bene in una società malata, prossima al crollo. L’uomo è parte di un tutto, un concetto armonico dell’universo che può sembrare – a una lettura superficiale – banale ma che invece (alla luce di ciò che oggi sta accadendo nel mondo) acquista un grande significato.

Bellissima, questa idea che l’uomo sia parte di un tutto… Ceremony(1977) è un testo pionieristico di ecofiction ed è diventato un riferimento indispensabile per gli studi sulla letteratura nativa americana. Una lunga cerimonia rituale consente al protagonista di purificarsi dagli orrori della guerra…

Concordo. Per scacciare i fantasmi del suo passato da “combattente” che emergono in incubi notturni e non, il protagonista partecipa a un rito cerimoniale con un medicine man. Scopre così che in passato la terra della sua tribù fu teatro dei primi esperimenti condotti sulla bomba atomica. Attraverso la cerimonia riesce a guarire se stesso e simbolicamente a curare anche le ferite laceranti della sua terra, sfregiata e umiliata.

Ciò che veramente mi colpì è la natura sincretica di questa cerimonia. Niente di banale. Niente spazio per le immagini stereotipate legate alle guarigioni ed esercitate dagli sciamani Nativi. Nella cerimonia c’è un tocco spiazzante di elementi contemporanei che richiama tutti a confrontarsi sempre con la necessità di trasformare la tradizione culturale se si vuole che sopravviva. Senza confronto e trasformazione i Nativi Americani sarebbero già morti. Ceremonyè la storia di un percorso possibile di guarigione personale e di un cammino che tutti i popoli Nativi devono intraprendere per evitare che la ricchezza e complessità delle proprie tradizioni culturali siano legate solo al ricordo. La memoria deve essere continuamente rivitalizzata con innesti contemporanei.

In Italia sono stati tradotti soltanto due libri di Leslie Marmon Silko: Donna Laguna (a cura di Cinzia Biagiotti, Edizioni Quattroventi, Urbino, 1996) e Cerimonia (ancora con Quattroventi, nel 2007). C’è poi un volume dal titolo Reading Leslie Marmon Silko. Critical perspectives through gardens in the dunes – pubblicato nel 2007 da una piccola casa editrice. Come spiega questo sostanziale disinteresse da parte della cultura italiana?

Il disinteresse verso la letteratura dei Nativi-Americani è piuttosto generale. Esiste negli States come in Italia: dappertutto. Il perché risiede nel fatto che c’è tanta ignoranza. La conoscenza degli Indiani d’America e della loro cultura è purtroppo ancorata a un passato fatto di film western dove il pellerossa è il cattivo, di capi silenziosi come Toro Seduto, di saloon ed ubriaconi vestiti con pelli di animali… poi non si sa più nulla. Invece in loro oggi c’è tanta arte, tanta cultura, letteratura: c’è un magnifico microcosmo che aspetta solo di essere scoperto.

Lei è sensibile alla critica nei confronti della società moderna  che poco alla volta ha finito col distruggere il rapporto tra gli individui e la Terra? È il tema della dimensione spirituale della Terra…

Sono più che sensibile e lo dimostra il mio percorso culturale e di vita fin qui fatto.

A questa ricerca ed a queste riflessioni è stata condotta dai corsi della prof.ssa Curti o vi è arrivata per vie proprie?

L’incontro con la prof. Curti, con Iain Chambers e tutto il gruppo di lavoro: Marie Hélène Laforest, Marina De Chiara, Silvana Carotenuto, per citare altre persone davvero importanti, è stato fondamentale. La Curti è stata l’anima ispiratrice, il detonatore. Poi io sono stata curiosa abbastanza da tracciare un sentiero di ricerca del tutto personale, che alcune volte (in fase di scrittura più che di ricerca) si è anche distanziato dalla prof. Curti ma credo che anche questo è stato parte del processo di crescita.

L’Orientale favorisce questo tipo di attenzione nei confronti dei problemi che nascono negli incontri e negli scontri tra le culture?

Assolutamente sì. Penso che l’Orientale sia, dal punto di vista cittadino, non una semplice Università, ma un luogo “vivo” dove far cultura, dove ci si pongono domande, dove è tangibile la possibilità di confrontarsi e con il corpo docenti e con gli altri colleghi e quindi dove si può crescere e maturare come persone, non solo studiare e fare esami.

Posso chiederLe quali corsi L’hanno maggiormente stimolata durante i Suoi studi universitari?

Tutti gli esami di letteratura inglese. Inoltre il mio piano di studi, sul quale allora c’era maggiore flessibilità, era improntato anche all’economia (biennalizzai sia Storia Economica che Geografia Politico-Economica) e con il tempo, vista la strada che poi ha preso la mia carriera professionale, devo dire che mi è tornato molto utile.

Lei lavora – in qualità di Cultural Affairs Assistant –presso il Consolato degli Stati Uniti a Napoli: un osservatorio privilegiato. Quale ruolo, secondo Lei, può svolgere l’Orientale nell’attuale situazione politica e culturale? C’è chi parla di “scontro delle civiltà” (penso al libro di Samuel P. Huntington, pubblicato in Italia dall’editore Garzanti, nel 2000) e chi insiste sulla necessità dell’incontro, della collaborazione. L’Orientale educa efficacemente all’incontro, alla conoscenza reciproca? Prepara a uno stato di “accoglienza” nei confronti dell’altro?

Certo. L’Orientale prepara studenti e insegnanti al confronto e all’accoglienza. Confrontarsi è necessario, è l’apertura verso l’altro. E tutto ciò è un elemento fondante e ricorrente anche nel mio attuale lavoro: la diplomazia è una disciplina dialogante.

Lei conosce certamente la collega Donatella Izzo, che insegna Letteratura angloamericana nel Corso di laurea in «Lingue, Lettere e Culture comparate». È una docente molto attiva, che cura con passione la preparazione degli studenti. Ha avuto modo di collaborare con lei in qualche iniziativa?

Conosco bene Donatella Izzo. Lo scorso anno ho avuto modo di partecipare a un seminario organizzato da lei con la presenza di un ricercatore Fullbright. È una docente molto professionale e appassionata delle materie di cui si occupa. La prossima primavera probabilmente ci sarà un grosso impegno di Donatella che vedrà al suo fianco il Consolato USA e l’Ambasciata di Roma.
Voglio citare con Donatella anche la prof. Marina De Chiara con la quale lo scorso anno ho organizzato due programmi culturali ospitati dal Centro Archivio Donne da lei presieduto.
Infine, per quanto riguarda il mio lavoro, vorrei precisare che l’Ufficio Public Affairs si occupa non solo di Studi Americani, ma anche di tematiche dell’area di Scienze Politiche. Quindi le possibilità di collaborazione sono molteplici. Ecco, questa forse è una cosa che mi fa piacere aggiungere.

Un’ultima domanda, che nasce da un mio interesse profondo e che segna un forte punto d’incontro con Lei. Anche io, infatti, sono molto sensibile al destino di quei popoli che sono stati devastati – nella loro vita, nei loro ritmi, nelle loro tradizioni – dalle conquiste di noi europei… Penso non soltanto agli Indiani  (i c.d. Pellerossa) e agli altri popoli delle Americhe, ma anche agli Aborigeni australiani, ai Maori della Nuova Zelanda, agli Inuit dell’Alaska,  agli aborigeni di Taiwan, che discendono dagli abitanti dell'isola prima della colonizzazione cinese nel Seicento.

È un interesse che ci unisce, mi sembra… Quali le Sue esperienze in rapporto a queste altre culture?

Dopo la mia esperienza con i Nativi Americani, e durante la frequenza di un corso di Antropologia presso la Goldsmiths University (a Londra), dove ho conseguito un Master in Media&Communication Studies, ho incrociato gli Aborigeni Australiani. Anche in questo caso mi sono appassionata molto, benché l’approccio qui non nascesse da un libro di narrativa, ma fosse legato ai media.

Presi in esame un esperimento di radio e di televisione fondate e gestite da alcune popolazioni aborigene australiane. La lezione che ho imparato, e che con estrema modestia mi sento di poter applicare a tutte le situazioni di cosiddette “culture in estinzione”, è che l’istinto di sopravvivenza spinge a uscire dal guscio dell’isolamento.

Il sincretismo culturale e la personalizzazione dei percorsi per arrivarci sono le scoperte che invito tutti a fare. E per questo ancora mi sento di ringraziare l’Orientale.

Intervista a cura di Francesco De Sio Lazzari

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