Camus e Pasolini, i maestri irregolari

 

Camus e Pasolini, i maestri irregolari

Camus e Pasolini (Tratto dalla locandina dell'evento)

Napoli, 16 novembre 2010 – Ciò che emerge dalla prima delle tre giornate Camus Pasolini

Due scrittori impegnati del XX secolo – ciclo di incontri organizzato dall’Institut Français de Naples in collaborazione con l’Università Federico II e L’Orientale di Napoli – è il tono d’intimità che suddetti autori stabiliscono con chi li legge, soprattutto con i giovani. È l’adolescente infatti l’interlocutore in grado maggiormente di sentire la sincerità, a quel punto condividendola; è nel presente/reale che prende vita, nelle loro opere, una particolarissima oralità seppure in forma scritta.
Di Pasolini e Camus emerge forte quel senso di grecità. La verità, in quanto tale, trama qualcosa di tragico (nell’accezione greca, comunque non pessimisticamente determinata). Si rivela ad ognuno ma pretende di saper essere riconosciuta: bisogna saper riconoscere Dioniso.
Il Pasolini incondizionatamente arrabbiato degli Scritti Corsari, delle Lettere luterane, di Accattone, de Il Vangelo secondo Matteo, La ricotta, Amado mio; ma anche quello di Descrizioni di descrizioni, degli interventi sul “Corriere della sera” – e qui, si deve dire, anche inventore di un genere qualora non ascrivibile ai codici meramente giornalistici – il Pasolini sempre e ovunque poeta insomma diffida dal futuro. “Amare, conoscere conta”, dice, “non l’aver amato, aver conosciuto”.
Passino anche le sue intuizione d’economia, è indubbiamente l’omologazione (dell’immaginario) degli italiani il koan su cui si dovrebbe, guardando a lui, meditare riformulando, inventandoli, nuovi concetti ora ripensati all’affacciarsi di nuove identità – come le chiama lo scrittore Filippo La Porta – multiple, a palinsesto, meticce.
Scrittore ab joy, di una nostalgia da esclusione che, per forze inverse, non toglie amore per la vita ma lo accresce. Cosa diceva, scriveva, filmava, narrava, decantava il poeta friulano; ma anche come diceva tutto ciò. La base emotiva, questa sua trasparenza esistenziale era l’elemento a tal punto latore d’una angoscia sì urlata da renderlo familiare a chi – oramai conscio della perdita d’ogni oggetto d’amore – era consapevole della desacralizzazione moderna della realtà tutta. Ogni desiderio è figlio di un pensiero, e quello di Pasolini si sapeva sempre dov’era e cosa sentiva. Il suo era un anti-capitalismo fisiologico; il vizio borghese del possesso (degli oggetti, di noi stessi, della vita) è tutto nella domanda che Pasolini rivolge a Franco Citti, il Vittorio di Accattone nel documentario Pasolini, l’arrabbiato di J. Fieschi. “Mi accusano di distribuire false speranze ai miei attori, li prendo per un ruolo e poi li abbandono. Io ti ho abbandonato?” dice Pasolini. Franco Citti, uno nato anti-borghese, come Ninetto Davoli, è disarmato di fronte a tale presunzione di possesso. L’attore rivela in questo modo tutta la sua estraneità alla piccola-borghesia, viziata alle origini da quel consumismo privato reo di coltivare fragili e pretenziose future aspettative.
Quella di Camus è una critica all’esistente, al mondo così com’è in nome di un’esperienza vissuta di felicità. Nella sua opera certamente più ambiziosa – L’Homme révolté – lo scrittore premio Nobel per la letteratura nel 1957 reclama una filosofia nuovamente appassionata alla verità, anche quando incongruente, dilettantisticamente geniale.
Camus e Pasolini, entrambi legati alla vita del popolo, allo stato di comunista quando questo è fratellanza per gli umiliati e gli offesi. Entrambi provenienti da zone di confine (dall’Algeria il primo, dal Friuli l’altro), originari di una provincia dove più acuta è la percezione di una crisi di civiltà. Entrambi vivi nel teatro e nel calcio, autentici perché individuali nella collettività.
Mi rivolto dunque siamo.

Claudia Cacace

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