Carla Lardone: “Tra noi dell’Orientale ci si riconosce all'istante”

 

Carla Lardone: “Tra noi dell’Orientale ci si riconosce all'istante”

Carla Lardone

La nostra laureata, oggi Mediatrice familiare: “Gli studenti dell’Orientale sono guidati a liberarsi da ogni preconcetto e ad esporre liberamente la propria opinione”

Carla, come mai si è iscritta al Corso di laurea in Lettere, indirizzo moderno, qui all’Orientale? A Napoli è dominante la Federico II in questo campo di studi, anche se da noi vi sono punte di eccellenza anche in tale settore…

“L’ultimo anno di liceo mi ritrovavo spesso a studiare a casa di un caro amico, mio compagno di banco. La sorella maggiore, iscritta all’Orientale, studiava nella stanza accanto e così nei pomeriggi, durante le pause in salotto per un caffè, ascoltavo affascinata gli argomenti che lei preparava per i suoi esami universitari. Ricordo in particolare Storia del giornalismo e dei mass-media e, mia antica passione, Storia del teatro e dello spettacolo. Non furono solo le materie in sé a incuriosirmi, bensì il modo di affrontarle, mettendo in campo il proprio senso critico. I programmi d’esame, infatti, prevedevano anche seminari di analisi.
Quando arrivai a Palazzo Giusso, poi, fu amore a prima vista. Niente a che vedere con la monumentale e imponente Federico II. Le modeste dimensioni pretendevano un rispettoso raccoglimento.”

In quale senso ritiene che l’Orientale abbia inciso positivamente su di Lei? Lo stile dell’Orientale, secondo molti ex studenti, è inconfondibile con quello di altri Atenei cittadini. Quale il suo parere?

“Concordo pienamente. Tra noi studenti dell’Orientale ci si riconosce all'istante e faccio anche fatica ad usare la parola ex. Si rimane per sempre dell’Orientale perché è lì che si viene al mondo e rimarrà per sempre Patria Natia.
All’Orientale si cresce perché si prende coscienza di sé e delle proprie capacità, ci si autodetermina facendosi carico del proprio piano di studio, mettendosi in gioco in aula, sapendosela cavare tra i vicoli di Napoli. Gli studenti di questo Ateneo sanno che passare da un corso all’altro non significa percorrere un corridoio asettico di un grigio edificio periferico, ma attraversare la città di fretta per arrivare in orario o, disponendo di più tempo, riflettere sull’ultima lezione passeggiando per via San Sebastiano e incontrare i volti storici di Napoli mescolati a quelli degli studenti. L’Orientale con le sue diverse sedi fa del centro storico partenopeo il suo unico plesso: la città e l’Ateneo si compenetrano indispensabili l’uno all’altro.
Guardo con sgomento ai dislocamenti di strutture pubbliche, quali esse siano, fatte in nome della funzionalità (basti pensare a com’è ora via dei Tribunali nell’assenza di ciò che le ha dato il nome e l’ha caratterizzata). Il contesto determina la relazione con gli altri e la percezione di sé. Non riesco ad immaginarmi, in moderni campus periferici, lezioni così vive e dinamiche come quelle di palazzo Corigliano. Fare un coffee break a un distributore automatico non guiderà o conforterà mai i pensieri come un caffè a un tavolino di piazza san Domenico.

Lei si è laureata nel 1999 con una tesi di laurea che riguardava alcuni aspetti della letteratura on the road. Le interessava di più l’aspetto di critica letteraria del lavoro o le sue implicazioni esistenziali?

“Il titolo della tesi può meglio rispondere a un interrogativo circa gli aspetti religiosi dell’esperienza on the road e, seppure abbia affrontato testi di particolare spessore letterario, come Furore di Steinbeck, in realtà l’intento del lavoro era verificare se il vagabondaggio praticato dalla beat generation abbia avuto origine non solo dal rifiuto del ‘sistema’, ma da un’esigenza spirituale che partiva da quello che Chatwin definì impulso al movimento.
Ciò che mi proponevo era liberare il ‘vagabondo da tutti quegli stereotipi che ne fanno una persona non in grado di vivere secondo le regole della società’. Per questo tipo di ricerca gli Stati Uniti sembravano offrire maggiori spunti di riflessione, se è vero che i discendenti dei primi colonizzatori avvertono ancora il continente come uno ‘spazio da percorrere’. Si pensi, inoltre, come dopo la drammatica situazione economico-sociale, causata dal crollo della Borsa del ’29, si sia determinato un nuovo tipo di nomadismo. E tra questi nuovi nomadi (o meglio dire: profughi?) ci fu anche chi decise di continuare a vivere sulla strada…
Queste esperienze furono tramandate – attraverso ballate popolari, come quelle del folk-singer Woody Guthrie – alla successiva generazione degli anni ’50, la beat generation appunto. Una generazione che lesse nel racconto di Kerouac un’opera di denuncia e di condanna della società in cui i giovani vivevano e alla quale si opponevano praticando un’esistenza on the road, in una continua e quasi morbosa ricerca di senso.”

L’esperienza di ricerca e di scrittura della tesi è stata un momento bello, per lei?

“Certamente, è stata un’importante occasione di arricchimento e gratificazione personale poter esporre una propria tesi che trovasse fondamento in un attento lavoro di ricerca. È un peccato non utilizzare questo importante strumento didattico anche nelle scuole secondarie. Ma l’esperienza della tesi ha segnato, per me, anche un momento di passaggio, in cui sentivo di essere in una ‘zona di confine’: un testo di Battiato ripete ‘impaziente mi aspettava la vita mentre il vento del mattino frizzante si portava via ogni cosa’. Alla fine del proprio percorso universitario si è propensi a possibili esperienze future, ma si è consapevoli che se ne sta concludendo una che ti ha cambiato profondamente.”

Quali sono i suoi scrittori preferiti? Quelli in cui si è maggiormente riconosciuta?

“Non credo esistano scrittori che io possa definire ‘preferiti’. Contestualizzo sempre al momento di vita che sto attraversando. Quando ci rechiamo in libreria, la nostra scelta ricade su letture che speriamo rispondano alle richieste di quel nostro preciso momento.
Se rileggiamo un libro in momenti diversi della nostra vita, elaboriamo riflessioni sempre nuove e rispondiamo a domande che non c’eravamo posti prima d’allora.
Ci sono poi letture che aprono a interrogativi inaspettati ed ai quali per tutta una vita si cerca di dar risposta: quei libri e quegli scrittori ci rimarranno accanto per sempre. Posso quindi citare gli autori che mi sono rimasti qui di fianco: Dostoevskij, Pirandello, Nietzsche, Steinbeck, Ibsen, Elio Vittorini, Erri De Luca. Li ho enumerati a caso, alla rinfusa…
Esistono anche autori che la vita, ‘per necessità’, ti ripresenta; e confesso che nonostante l’età adulta, rileggo sempre con gran piacere La freccia azzurra di Gianni Rodari.
Infine, credo ci sia un solo scrittore nel quale, con terrore, mi riconosco come in uno specchio ed è Pessoa.”

Gi esami più interessanti che ha sostenuto come studentessa di Lettere Moderne?

“L’essermi iscritta al Corso di laurea in Lettere dell’Orientale mi ha permesso di organizzare un piano di studi molto libero. Oltre gli esami obbligatori ho potuto liberamente spaziare tra tutte le discipline delle diverse Facoltà dell’Ateneo, e forse proprio i corsi ‘facoltativi’ sono quelli che si affrontano con una consapevolezza e un entusiasmo (per così dire) diversi, i corsi nei quali ci si arricchiva maggiormente anche grazie al confronto con studenti impegnati in differenti percorsi disciplinari.
Vorrei, però, rimanere rigorosamente sulla domanda e ricordare più propriamente le sedute d’esame. Si sa, gli esami sono esami e si affrontano sempre con un prevedibile stato d’ansia, ma all’Orientale ce ne sono alcuni dai quali ti alzi con nuove considerazioni e dove ancora una volta a concedersi è stato il docente che fa del tuo sapere, appreso sui libri, solo un preludio: lo plasma ancora, ne fa nascere una discussione che porta lontano dal testo, in territori non ancora esplorati.
Ricorderò sempre il bellissimo esame di Filosofia della storia con il Professor Paolo Augusto Masullo, durante il quale dai testi di Nietzsche arrivammo a personalissime considerazioni sul tema del dolore, e al termine del quale il professore mi consigliò vivamente di cambiare indirizzo e d’iscrivermi al Corso di laurea in Filosofia.”

Quali docenti, incontrati nel corso degli anni, La hanno maggiormente segnata in positivo? Quali ricorda più vivamente?

“Il corso di Storia del teatro e dello spettacolo non deluse le mie aspettative, anzi fui letteralmente affascinata dal prof. Vicentini. Le lezioni si tenevano, e credo non a caso, negli scantinati di palazzo Giusso in un’aula dove la cattedra era su un palchetto, il professore teneva letteralmente la scena, tanto che in alcuni momenti non sapevi più se eri in Facoltà o in uno scantinato di un teatro d’avanguardia. Ma lo ricordo anche per la sua disponibilità e attenzione nei confronti di noi studenti. In Dipartimento eravamo di casa… Vicentini, che incuteva una certa soggezione, si accertava sempre che potessimo reperire i testi d’esame a costi contenuti e che avessimo le riduzioni sui biglietti dei teatri cittadini. Frequentai anche il suo interessantissimo e dinamico seminario di Analisi dello spettacolo: mi appassionai ancor di più al Teatro tanto da fare parte, in seguito, del direttivo del CUT (Centro Universitario Teatrale).
Ma fu folgorante l’incontro con le lezioni di Storia delle religioni, che si tenevano il giovedì e il venerdì pomeriggio nelle meravigliose aule Antica Scuderia e Mura Greche di palazzo Corigliano.
Dal loggione consigliato dal Professor Vicentini come punto di miglior osservazione giunsi dietro le quinte degli spettacolari altari di ogni Credo.
Le lezioni di Storia delle religioni erano domande, domande continue che ti accompagnavano sin dentro casa, cui dovevi far fronte decostruendo vecchie convinzioni e con un modo completamente nuovo di articolare il pensiero. L’attenzione doveva essere massima e non bastavano le due ore del corso. Alle diciassette, a lezione terminata, noi studenti eravamo lì a far ancora domande al docente o semplicemente a conversare, e lui, amabilmente, si concedeva fin fuori a un caffè. Così non era raro che gli presentassimo i nostri ragazzi che ci attendevano all’esterno. Il mio ragazzo era un radioamatore e anche lui fu coinvolto in una discussione tra il Professore e uno studente interessato ai newsgroup che allora stavano nascendo in rete. A Storia delle religioni ci sentivamo pienamente accolti in tutte le nostre acerbe ma passionali istanze giovanili, liberi ed incoraggiati ad esprimere ogni nostra opinione.”

Quale il suo lavoro attuale? Come ci è arrivata?

“Successivamente alla laurea, conclusi gli studi di Mediazione Sistemica e Familiare presso l’Istituto di Terapia Familiare di Napoli, diventando così Mediatrice Familiare, una figura, questa, non ancora del tutto conosciuta. In realtà, è una utile risorsa per dipanare i conflitti generati all’interno di una coppia in fase di separazione e divorzio, riattivando un dialogo finalizzato soprattutto a riorganizzare un nuovo assetto familiare che tuteli i figli minori. Le competenze acquisite mi furono immediatamente utili nel mio lavoro come Sistemista.
Mi spiego. Cominciai a lavorare come sistemista informatica presso diversi Tribunali, spostandomi tra Lombardia, Lazio e Campania, implementando programmi gestionali negli Uffici Giudiziari sui quali poi dovevo istruire il personale e avviarlo nell’utilizzo. Giunta negli uffici mi resi conto che ciò che si chiedeva agli utenti era un modo completamente nuovo e sconosciuto di affrontare il lavoro, di abbandonare vecchi schemi, rinegoziare posizioni e relazioni e subire un riassetto organizzativo. Il cambiamento imposto al personale dai vertici amministrativi generava spesso conflitti all’interno degli uffici che necessitavano di ‘mediazione’. L’approccio sistemico era l’unica opportunità in grado di affrontare problematiche che non potevano essere ricondotte all’incapacità o all’incompetenza dei singoli lavoratori nell’adeguarsi a nuovi sistemi lavorativi,
Da queste mie esperienze lavorative è nato anche un testo che ho presentato all’AIMS (Associazione Italiana Mediatori Sistemici) dal titolo «Mediazione Sistemica nella ‘pubblica Amministrazione dei conflitti’»: oggetto del discorso erano gli interventi di mediazione negli uffici Ministeriali per la gestione dei conflitti generati dal cambiamento organizzativo.
Adesso sono ancora un’informatica, mentre quella della mediazione è un attività che svolgo, per così dire, come volontariato, allo stesso modo della maggior parte degli operatori del sociale che nel nostro Paese non vedono ancora riconosciuta la loro professione, non solo da un punto di vista etico, ma come pragmaticamente utile alla gestione dei conflitti sociali.”

Più in particolare: quale il contributo dei suoi studi universitari al suo attuale lavoro?

“I miei studi umanistici e alcuni esami, come ad esempio Psicologia, hanno certamente influito, facendomi acquisire una maggiore sensibilità su alcune tematiche sociali, ma quelle che poi ho scoperto essere tecniche di Mediazione, in particolare, erano già alla base dell’approccio disciplinare di molti docenti dell’Orientale, impegnati a trasmettere un rispettoso confronto interculturale e a contestualizzare ogni relazione con l’altro da sé, tramite attente analisi.
Gli studenti dell’Orientale sono guidati a liberarsi da ogni preconcetto e ad esporre liberamente la propria opinione. In un setting di mediazione tutto questo si chiamerebbe Brain Storming, una tecnica da manuale dall’accattivante nome anglosassone ma vivamente sperimentata durante i miei corsi universitari.”

Se fosse possibile, andrebbe a lavorare all’estero o preferisce comunque restare in Italia? È una domanda che poniamo a parecchi intervistati, per verificare l’atteggiamento dei giovani nei confronti dell’Italia dei nostri giorni.

“Potendo serenamente rispondere a questa domanda, direi della mia personale tendenza a non vedere alcun posto come quello definitivo; o potrei dire – diversamente, cioè: con altre parole – quanto l’Orientale con i suoi studi e le sue radici ben piantate nel territorio partenopeo dia un sano senso di appartenenza che apre al mondo.
Ma la mia risposta è fortemente viziata dalla situazione attuale che vive l’Italia. Il desiderio di esperienze lavorative in altri Paesi (dove tra l’altro l’operatore del sociale è maggiormente riconosciuto e gratificato) è stato sostituito da un sentimento di fuga che paradossalmente mi costringe a restare perché ad affrontare un viaggio guardandosi alle spalle si rischia di diventare statue di sale.
Quotidianamente tento di ripristinare e sottrarre all’abbandono i piccoli spazi che vivo, ma con frustranti e scarsi risultati. Ciò di cui mi sento maggiormente privata come donna, come napoletana, come italiana, è il decoro: il Decoro che gratifica lo sguardo e l’anima, una tela bianca, linda dove poter realizzare pensieri e atti artisticamente sensibili.”

Francesco Messapi

© RIPRODUZIONE RISERVATA