Cinema iraniano all’Orientale
Cinema iraniano all’Orientale
Napoli, 22 aprile 2010 – Proiettato ieri a palazzo del Mediterraneo per il secondo incontro della Rassegna di Cinema Iraniano a cura di Natalia Tornesello Takhte siyâh, film del 2000 della giovane regista Samirâ Makhmalbâf
È del 1932, di Abdolhossein Sepanta, il primo lungometraggio sonoro iraniano, Lor Girl. Il suo era un cinema "familiare", trame incorniciate tra strette dinamiche amorose – anche di tradizionale ispirazione letteraria – che raccontavano di storie in cui la gente poteva facilmente riconoscersi e per questo particolarmente adatte al gusto del pubblico locale.
Del decennio compreso tra il 1937-1947 restano poche tracce. L’assenza di un minimo respiro d’arte visiva è da addebitarsi ai costi e alle difficoltà tecniche, alla concorrenza – tacitamente sleale – di molti film stranieri (ricordiamo che nonostante la dichiarata neutralità del paese, inglesi e russi entrarono comunque in Iran), spesso capolavori mondiali che contribuirono ad affondare il già malconcio grande schermo persiano – che non rinverrà prima del 1948 con La tempesta della vita di Esmail Kushan. Datato in questo periodo anche la nascita del doppiaggio (decade il rito della spiegazione in sala), ed un sempre più restrittivo controllo del governo su qualsivoglia importazione – anche d’ attrezzature – dall’estero.
Sin dalle sue origini (quando un armeno fondò la prima accademia artistica, d’eco a quella sovietica) l’evoluzione cinematografica iraniana ha sempre tendenzialmente diffidato dalla vedette-cinema, accostandola più volte alla corruzione occidentale vista come invasione e di slancio propagandista. Primi tentativi di censura formale in Iran risalgono già agli anni '20, quando i proprietari delle sale cinematografiche venivano sottoposti alla pressione dei gruppi religiosi preoccupati dall'esposizione del pubblico iraniano alla morale occidentale.
Nel 1950 l'incarico di controllo e censura dei film viene assegnato alla Komisiyun-e nemâyesh (Commissione dello spettacolo), un comitato formato dal capo della polizia, da rappresentanti del Ministero degli Affari Interni e della Cultura, e del Dipartimento delle Pubblicazioni e della Radiodiffusione. La Komisiyun-e nemâyesh (per un periodo con un cieco ai vertici dell’organismo!) redige un documento articolato in 15 punti in cui si individuano gli elementi che impediscono la proiezione di un film. Al punto primo si legge: "Le pellicole non devono contraddire i fondamenti della religione e la diffusione di idee sovversive contro l'Islam e la religione sciita".
Fu solo negli anni '60 che iniziarono a emergere i primi segni di un linguaggio cinematografico distintamente iraniano. Sono gli anni che vedono l’accostarsi del cinema alla letteratura, una relazione questa tra registi impegnati e cinematografia che porterà alla nascita della nouvelle vogue iraniana ripresa poi dai registi del periodo post-rivoluzionario come Mohsen Makhmalbaf (Viaggio a Kandahar), padre di Samirâ.
Premiato al Festival di Cannes nel 2000 (Premio della Giuria), Lavagne racconta di un viaggio come di un percorso iniziatico, simbolico, che porta alla scoperta di realtà sconosciute, molto spesso ignorate, tra i monti polverosi e aridi di una remota regione del Kurdistan. Due maestri, che trasportano grosse lavagne a spalla, cercano bambini – contrabbandieri ai confini – per insegnare loro a leggere e a scrivere. I due si divideranno, avranno storie diverse, parallele. "Per leggere un libro bisogna sedersi. Noi non possiamo fermarci". I bambini, spesso costretti alla fuga, vivono nella paura, corrono per salvare la propria vita. Reeboir – uno dei maestri – cammina con loro, deciso ad insegnargli l’alfabeto, almeno con quella parte della lavagna che gli è rimasta (con l’altra ha steccato la gamba di uno di loro). Il rumore dei loro passi, veloci e incerti sulla terra infame e trivellata dai bombardamenti, basta alla sonorità del film. Said, l’altro maestro, accompagna un gruppo di profughi fino al confine (da notare qui una virgoletta folcloristica, poi poetica, sul rito del contratto matrimoniale e successivo divorzio, con la lavagna lasciata in dote).
Quello di Samirâ Makhmalbâf (La mela, Alle 5 della sera) è il cinema del lamento, pellicole su cui si dispiegano le tragedie più infide della guerra, e i cui effetti sulla popolazione, i più dolorosi, sono spesso invisibili e non sempre immediati.
Un atto di fede nella cultura iraniana, tra documentarismo (il realismo è dato dalla tecnica della macchina da presa a spalla) e simbolismo secolarizzante.
Claudia Cacace