Costruzione della razza e relazioni di genere nel colonialismo italiano: il caso Eritreo

 

Costruzione della razza e relazioni di genere nel colonialismo italiano: il caso Eritreo

La locandina dell'evento

Napoli, 11 gennaio 2012 – Italiani brava gente? Il dibattito è aperto. Giulia Barrera contribuisce a sfatare la retorica del buon colonizzatore italiano

La storia insegna: ogni imperialismo ha sempre messo in atto strategie tese a giustificare di fronte all’opinione pubblica l’occupazione e lo sfruttamento di territori esterni al proprio territorio nazionale. Che si tratti della superiorità della razza bianca o dell'esportazione della civiltà o della democrazia c’è sempre stata una motivazione dietro alla conquista di terre lontane. Così è stato anche per la breve parentesi coloniale italiana, come racconta la dottoressa Giulia Barrera in un incontro tenutosi a Palazzo Giusso. La studiosa, una delle maggiori esperte di colonialismo in Italia, interessata in particolare all'ottica di genere, ha esaminato come l'esperienza italiana non abbia fatto eccezione. In particolare, analizzando il caso dell'Eritrea, Barrera illustra le politiche di genere che questo dispositivo ha realizzato. La giornata è stata organizzata nell’ambito del corso in Storia Contemporanea tenuto dalla professoressa Alessandra Gissi della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere. In effetti, secondo un'opinione diffusa, il carattere nazionale degli italiani avrebbe fatto sì che il loro dominio coloniale sarebbe stato più morbido rispetto a quello degli altri Paesi europei. La storica, che lavora presso la Direzione Generale degli Archivi ed è autrice di diverse monografie e articoli sul periodo, non è di questa opinione. Perché, al di là della retorica, il colonialismo italiano ha messo in atto  strategie per nulla dissimili rispetto a quelle delle altre dominazioni imperialiste. Infatti, se da un lato si può parlare di una peculiarità del colonialismo italiano nei termini di una piccola presenza di coloni, di una politica di non espropriazione di terre e di un regime di collaborazione con gli eritrei, dall'altro i vari governi hanno sempre teso a marcare le differenze rispetto al popolo occupante, sancendo in tal modo la propria superiorità. E proprio a causa di tale peculiarità non si potevano adottare le classiche strategie segregazioniste: gli italiani erano costretti a lavorare a stretto contatto con i colonizzati. Come veniva allora attivato questo dispositivo? Ad esempio non permettendo ai soldati eritrei inquadrati nel regio esercito, i famosi ascari di cui la retorica coloniale lodava la fedeltà e il valore, di accedere ai gradi di ufficiale, ma anche escludendo la possibilità per gli eritrei di avere un'istruzione superiore alla terza elementare. Ma il punto su cui forse maggiormente si è dibattuto e che interessa di più la studiosa ha riguardato il controllo delle relazioni fra i coloni italiani e e le donne eritree.
All'inizio, durante la fase militare, il governo incoraggiava le relazioni sessuali al punto da poter stabilire un legame tra la conquista delle terre e la conquista delle donne. I postriboli erano il luogo naturale in cui si consumava la relazione con la “bella abissina” della quale si esaltavano la sensualità e le doti amatorie. Su questi postriboli veniva esercitato uno stretto controllo medico, come del resto prevedeva la legge italiana, che però, nel caso eritreo, assumeva i tratti di un vero e proprio controllo militare: fino ad arrivare al caso limite di un postribolo costruito accanto a una caserma dei carabinieri e circondato da filo spinato. Insomma, un vero e proprio lager. Con lo stabilizzarsi della presenza dei coloni si svilupparono tuttavia delle relazioni di tipo duraturo fra gli italiani e le eritree, delle vere e proprie forme di concubinaggio. Il governo infatti, per marcare una differenza netta fra occupanti e occupati, non ammetteva che questi legami sfociassero in matrimoni misti. Così non era per i figli i quali ereditavano dal padre, insieme alla cittadinanza, i tratti morali e intellettuali. Dalla madre, ovviamente, solo quelli fisici! Riconoscere un figlio come proprio rappresentava una paternità coloniale importantissima per la costruzione della mascolinità coloniale, tanto che molti di questi bambini nati dalle unioni miste venivano educati in Italia.
A partire dal 1935 tuttavia la situazione cambia radicalmente. La presenza italiana in Eritrea si è fatta molto più sostanziosa. Mussolini considera la colonia piattaforma di partenza per l'invasione dell'Etiopia. L'Impero deve essere una vetrina per l'italianità di fronte alla comunità internazionale. Per questo il controllo si fa più rigido e sono le leggi razziali che devono essere rispettate. L'obiettivo è chiaro: stabilire una volta per tutte la superiorità del popolo italiano. Da ciò deriva la lotta al meticciato che ha caratterizzato la politica coloniale del fascismo. Simbolo di questa lotta è la norma del 1937 denominata “Legge per la Difesa del prestigio di razza”: ogni relazione duratura tra italiani e africane era proibita. La legge del 1940 invece vietava il riconoscimento dei figli avuti con donne africane.
Le conseguenze di queste leggi furono pesantissime in quanto, se i rapporti con le donne eritree continuavano, adesso i figli nati da queste relazioni fugaci venivano abbandonati a se stessi. Un'intera generazione di bambini italo-eritrei nati durante gli anni Quaranta subirono questa sorte, non essendo riconosciuti né in quanto italiani né in quanto eritrei, dando vita a delle vere e proprie comunità autonome. Molti di loro tra l'altro sono ancora in vita.
Come si vede, l'interesse di queste ricerche per l'attualità è grande. Secondo le parole di Giulia Barrera infatti “l'impatto che questo tipo di riflessioni può avere sui nostri giorni è abbastanza evidente e ci permette di smontare in maniera ancora più intima il mito del colonialismo buono”. E continua: “Gli studi ci sono da molto tempo. Soltanto che hanno avuto poco impatto sull'opinione pubblica. È infatti mancato un dibattito pubblico in Italia perché le colonie sono state perse durante la guerra. Quindi non c'è stato un momento autonomo di decolonizzazione come è avvenuto per le colonie inglesi e francesi”. Secondo la storica è questo che ha impedito per molto tempo di sottrarre alla retorica questa pagina di storia italiana. L'interesse è tuttavia nato soprattutto alla fine degli anni Ottanta ed è strettamente legato all'attualità: “Io faccio parte di quella generazione di storici che si sono avvicinati allo studio del colonialismo partendo da un esigenza legata al presente, quando, tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta, l'immigrazione è diventata un fenomeno importante e si è cominciato a parlare anche di problemi di intolleranza e di razzismo in Italia. In molti hanno cominciato a sentire il bisogno di guardare un po' indietro nel tempo a quello che era successo prima”.
Insomma, un incontro che ha contribuito a sfatare il mito incarnato dal motto “italiani, brava gente” che ha offuscato il presupposto ideologico di ogni colonialismo: i colonizzatori sono superiori rispetto ai colonizzati.

Salvatore Chiarenza, Agostina Picerni

© RIPRODUZIONE RISERVATA