Della geografia della percezione e di altre cose: intervista a Margherita Ranaldo
Della geografia della percezione e di altre cose: intervista a Margherita Ranaldo
"Ho troppa poca esperienza per sapere bene – e per dirlo agli altri – cosa siano o debbano essere un geografo e un esploratore. So benissimo, però, cosa significhi 'andarsene in giro', mia traduzione maldestra del francese flâner. Flâneuse sono stata a Napoli e ho cercato di essere a Parigi".
Lei si è laureata in Lettere (laurea triennale) nel febbraio 2007 con una tesi su «Napoli, città vissuta, raccontata, percepita. Per una applicazione di geografia della percezione», relatore il prof. Fabio Amato. Ci dice quale è stato il tema della tesi, e magari anche qualcosa intorno al concetto di “geografia della percezione”?
Il tema della tesi trae ispirazione dalla mia esperienza di vita, da studentessa fuorisede, a Napoli e dalla volontà di trovare, per la mia ricerca, un argomento che sentissi davvero “mio” e che rappresentasse la sintesi di tutte le mie passioni. Volevo che il lavoro, anche a una prima lettura, potesse sembrare quello che in effetti è: una tesi di laurea scritta da una studentessa di Lettere, che a un certo punto, grazie a un esame di Geografia Umana sostenuto qualche mese prima, vede aprirsi davanti a sé un orizzonte infinito di possibilità di ricerca e trova il modo di narrare, lei stessa, nel suo piccolo, attraverso la Napoli “raccontata” da alcuni grandi della letteratura italiana, la città che ha scelto per studiare e per vivere, rimanendone sopraffatta, quasi, nel senso migliore della parola, tanto da non potersi immaginare mai più altrove.
Città “vissuta” da me e dagli altri, dunque. “Raccontata” seguendo un giornalistico fil rouge che dal Fucini di una Napoli a occhio nudo di metà Ottocento, passando per Matilde Serao, Eduardo De Filippo e Giuseppe Marotta, arriva fino alla Gomorra di Roberto Saviano, dei primi anni Duemila.
Non è possibile raccontare, però, se non il risultato delle percezioni. Tutto passa attraverso il filtro della sensibilità culturale ed estetica, della capacità d'osservazione e d'analisi di chi decide di raccontare. Ecco perché approfondire il concetto di “percezione di un luogo” mi affascinò così tanto. Come vede Napoli uno studente che, per mille ragioni diverse, decide di vivere a Forcella? E come la vede, invece, chi a Forcella ci è nato, ci rimane inchiodato e pensa che in quel muro di panni romanticamente svolazzanti tra balcone e balcone, a Via delle Zite, in un cielo azzurro come solo lì sa essere, prima o poi potrebbe anche soffocare?
“Forcella” è stato, infatti, il caso di studio, scelto perché ci ho vissuto e ho sperimentato che cosa significhi vivere in un quartiere popolare e tanto mitizzato di Napoli, familiarizzare con la semiotica di certi luoghi, decodificarne linguaggio e comportamenti, entrare in case che vomitano oggetti inutili e avere a che fare con personaggi trimalcionici, vivere con la normale incoscienza gli anni di vita studentesca sentendoti libera come in nessun altro luogo potresti, e avere la certezza, allo stesso tempo, che lì, in quella via, in quei vicoli, ogni tuo minimo gesto non passerà inosservato. Questa la parte letteraria, anche un po' romantica, che si sviluppa, però, specularmente all'indagine geografica, condotta con metodo scientifico e che alle domande sollevate nella premessa trova risposte quasi sempre esaurienti.
Dal punto di vista metodologico, in quale prospettiva si è collocata? A quali testi-base ha fatto riferimento?
Base metodologica della mia ricerca è l'opera L'immagine della città (1960) di Kevin Lynch. I concetti fondamentali per l'analisi della città da me condotta sono quelli della sua leggibilità, figurabilità, della difficoltà di verbalizzazione che la riguardano- non sempre le percezioni sono completamente esprimibili a parole – passando, infine, per l'analisi di come la geografia stessa “riesca a generare il romanzo dell'Europa moderna” grazie all'opera di Franco Moretti Atlante del romanzo europeo 1800-1900 (1997), che mi fece comprendere quanto fosse fondamentale, per lo sviluppo completo della mia analisi, la precisa collocazione geografica dei luoghi narrati dalle opere letterarie prese in esame, in un lungo e altalenante viaggio tra il passato e il presente urbanistico del centro storico di Napoli.
Della percezione che i forcellesi hanno del luogo in cui vivono, si è fatto un quadro sintetico basato sull'elaborazione dei dati ricavati dalla somministrazione di questionari socio-geografici a un campione di residenti. Di Forcella, vero e proprio quartiere, anche se non in senso amministrativo, si sono forniti, nella tesi, dati relativi a quella precisa area utilizzando come fonte uno studio condotto da don Luigi Merola, parroco anticamorra impegnato in prima linea, in quegli anni, nel quartiere. Il tutto corredato da immagini e rappresentazioni cartografiche, strumenti essenziali del lessico geografico.
Un discorso appassionante.
Ho cercato, con modestia, di ripercorrere le orme della Serao e degli altri compagni di viaggio, andando lì nel ventre - che proprio a Forcella vide morire per sbaglio, nel fuoco incrociato di un regolamento di conti, la quattordicenne Annalisa Durante– e vedere, chiedere, capire come stavano le cose. La percezione cambia a seconda dell'interlocutore, questo è ovvio, ma chi vive (per forza) in un luogo, ne costruisce un'immagine molto diversa, nella sostanza più che nella forma, direi, da quella che elabora chi quel luogo lo osserva soltanto, anche se a lungo, da abitante temporaneo.
Mi interessava capire, infine, se l'immagine tribale di pasoliniana memoria corrisponda a quella che oggi i napoletani hanno di se stessi in relazione al luogo in cui vivono. Si poteva e si può ancora parlare di una tribù votata ad un inesorabile “suicidio – culturale –di massa”, che rifiuta la modernità, tra il porto che parla cinese, i cantieri di una avveniristica metropolitana, i palazzi d'arte e una postmodernità che pervade ogni cosa? Nonostante le eterne emergenze – anche e soprattutto culturali – io pensavo e penso di no. Col mio lavoro ho cercato di capire, dai napoletani di ieri e di oggi, il perché.
La laurea magistrale in Filologia Moderna, sempre col prof. Amato, ha riguardato «Parigi oltre la Torre. Politiche urbane nella Francia delle banlieues, nella Parigi dei quartieri sensibili» (8 aprile 2010). Il primo interrogativo che sorge riguarda proprio il titolo della tesi: vi compaiono la Francia delle banlieues e la Parigi dei quartieri sensibili, separate da una virgola. Vuole spiegare questo titolo? Lei pone sullo stesso piano (dal punto di vista dei problemi) la Francia delle banlieues e la Parigi dei quartieri sensibili?
Il titolo tradisce l'intenzione di sintetizzare, in qualche modo, sei mesi di vita parigina, un anno di lavoro e le 230 pagine di tesi che li raccontano. Parigi oltre la Torre... Il riferimento è ovviamente alla Tour Eiffel, anima luccicante della Ville Lumière. La presentazione del mio lavoro – stavolta molto più “geografico” per metodo e contenuti rispetto alla prima e più ingenua esperienza della laurea triennale – è l'unica finestra personale sulla città che ho deciso di aprire, per spiegare ai lettori i motivi che mi hanno spinto a partire e che cosa ha, di volta in volta, alimentato il mio desiderio di ricerca.
Inizio col descrivere uno stato d'animo, il mio, pervaso da disincanto nei confronti di una città già visitata in un precedente viaggio ed espressione, dal mio punto di vista, di un enorme, esagerato, unico cliché. Parigi non mi diceva niente e io non potevo che constatarne, passivamente, l'indiscutibile fascino e la funzionalità dei trasporti. Così, senza la minima vibrazione. Ma proprio in una di quelle sere in cui l'umore è giù perché pensi di aver sbagliato a partire e di stare, in definitiva, perdendo il tuo tempo, succede qualcosa che cambia, finalmente, la tua visione del tutto: una rissa, in una stazione del metro. Rissa di quelle di una violenza indescrivibile, nella quale rischio di essere coinvolta io stessa, per caso. Un volta trovato riparo, non posso che guardare la scena da spettatrice, come tutti gli altri: la stazione era piena. Calci, pugni, armi; aggressori e aggredito, due colori diversi della pelle; sangue, impotenza degli astanti, fuga degli aggressori, silenzioso soccorso alla vittima; silenzioso come lo svolgersi di tutto il resto: la violenza più ovattata e crudele che avessi mai visto o sentito fino ad allora, i colpi più sordi che mai avessi udito sferrare.
Da allora cominciai a vedere, finalmente. Parigi, la vita vera a Parigi, mi avevano dato il loro benvenuto. Cominciai a notare che la città offriva spesso, alla vista di chi vuole osservare, schizzi di sangue sui muri delle stazioni, poveracci feriti e sbattuti in un angolo, risse davanti ai locali; e compresi, finalmente, che Parigi non è solo una delle mete del turismo mondiale, non è solo una delle città più affascinanti del Nord-Europa e, soprattutto, non è sempre arte, cultura, senso civico, efficienza. È una capitale nordica in cui il Sud del mondo, o meglio, il resto del mondo, si è riversato in massa. Sonnecchia placida, accarezzata dal fiume cui tanto deve, ma all'improvviso può esplodere, impazzire completamente senza che ci sia scampo. Fu il constatare questa schizofrenia urbana che fece scattare la molla: come si governa una metropoli come Parigi? Quali i problemi? Quali gli strumenti per risolverli?
Nella tesi Lei scrive che La interessava capire che cosa ci fosse oltre «la torre sfavillante, le vetrine chic e meno chic degli Champs Elysée, oltre le brasseries del centro, i caffè letterari di Saint Germain des Près, i riposanti e verdi parchi, i souvenirs di Saint Michel e Montmartre, il falso glamour del cibo giapponese che ormai invade a buon mercato tutti i quartieri eleganti»…
Oltre tutto questo, c'è «la città meno luccicante e più luminosa, quella che ti ricorda che lì, in una delle aree urbane più ricche del mondo, in uno di quei quartieri che sono Parigi e non lo sono insieme, abita gente povera, talvolta poverissima. Ci sono giovani sani che si impegnano per il futuro di tutti, che investono il loro tempo in associazionismo, attività ricreative, sport e che fanno sorridere luoghi poco accoglienti. Ma ci sono anche quelli che in guerre tra bande si contendono il territorio e spesso la vita e non sanno che farsene del romanticismo; gli artisti o i poeti sono per molti solo nomi di complessi residenziali; di torre gli basta la loro, quella in cui abitano, che a starci sotto sembra pure più alta e a mezzanotte non luccica e, veramente, non luccica mai, ci vivono centinaia e centinaia di persone e non ha un nome celebre, ma una lettera dell’alfabeto a distinguerla dalle altre. Questa è la Parigi oltre la torre, la Parigi delle torri, che ho cercato di raccontare.»
La Parigi oltre la Torre sembra essere quella delle banlieues: la Parigi che in alcuni momenti può “bruciare”.
Infatti! Nella tesi ho analizzato, fin dalle sue origini medievali, il fenomeno “banlieues” nel suo complesso. Quando si parla di sviluppo urbano francese, in qualsiasi trattazione di carattere generale sull’argomento, Parigi, la sua regione, l’Île de France, le sue banlieues, finiscono inevitabilmente con l’assumere un ruolo preponderante. Nel mio lavoro affronto la questione nella maniera più completa possibile. La scelta del caso di studio parigino (il quartiere Flandre del diciannovesimo arrondissement) oltre ad essere in qualche modo obbligata, configurava un ottimo esempio di “banlieue” anche se in territorio parigino. In più il quartiere è uno dei soli sedici esempi di “politique de la ville” – ulteriore oggetto di approfondito studio da parte mia – attivati nella Capitale.
Pongo sicuramente sullo stesso piano la Parigi dei quartieri sensibili, con le banlieues dei quartieri sensibili sia di Parigi che del resto della Francia.
Dire “banlieues” non vuol dire automaticamente veicoli in fiamme, disordini, violenze, emarginazione e povertà. Vuol dire anche questo, e la mia analisi del Novembre francese del 2005 –quando la Francia, per l'ennesima volta, si vide precipitare in un vuoto di odio ed emarginazione sociale e geografica –cerca di spiegare scrupolosamente il fenomeno. Ma la banlieue rappresenta troppe cose per una sola parola, che tradotta in italiano con “periferia” non rende merito alla complessità concettuale, storica e politica della banlieue descritta.
Che cosa La interessa nella Geografia in generale? Crede che la Geografia abbia un taglio particolare all’Orientale? È stata ed è importante la lezione del prof. Coppola, ma esistono più metodi di approccio alla realtà, più tipi d’interessi: che cosa affascina Lei nella Geografia?
C'è un brano, probabilmente un po' inflazionato, de Le petit Prince (XV), di Antoine de Saint-Exupéry, che, se possibile, mi piacerebbe comunque poter riportare:
- È molto bello il vostro pianeta. Ci sono oceani?
- Non posso saperlo, disse il geografo.
- Ah! (il piccolo principe era deluso.) E le montagne?
- Non posso saperlo, disse il geografo.
- E le città, i fiumi, i deserti?
- Nemmeno questo posso saperlo, disse il geografo.
- Ma voi siete geografo!
- È vero, disse il geografo, ma io non sono esploratore. E a me mancano, nel modo più assoluto, gli esploratori. Non è il geografo che va a fare il conto delle città, dei fiumi, delle montagne, degli oceani e dei deserti. Il geografo è troppo importante per andarsene in giro. Egli non lascia il suo ufficio. Ma vi riceve gli esploratori. Li interroga e prende in nota i loro ricordi.
Ecco, io ho troppa poca esperienza per sapere bene – e per dirlo agli altri – cosa siano o debbano essere un geografo e un esploratore. So benissimo, però, cosa significhi “andarsene in giro”, mia traduzione maldestra del francese flâner. Flâneuse sono stata a Napoli e ho cercato di essere a Parigi.
Colpisce questo Suo riferimento a Saint-Exupéry, così come il fatto che si definisca una flâneuse.
Nella consapevolezza di non essere geografa, neanche un po', mi interessa e mi affascina però capire come la gente viva e dove e perché compie, se le compie, determinate scelte, indagare i meccanismi di interazione tra essere umano e spazio, l'azione dell'uomo sullo spazio e viceversa, gli effetti del pensiero, della creatività, della letteratura, della cultura in generale e infine della politica sulla vita di tutti noi, in relazione ai luoghi. Ecco che cosa mi affascina e mi interessa della Geografia, il suo essere “scienza umana” a tutto tondo. Nella descrizione favolesca del geografo che non lascia il suo ufficio e che si limita ad elaborare i ricordi dell'esploratore ravviso, forse ingenuamente, l'approccio scientifico che la disciplina richiede, nella “flânerie” quello prettamente umanistico. I due aspetti devono essere complementari. Perché il geografo che manca di esploratori non può sapere ciò che un geografo è chiamato a sapere.
È un mio grande rammarico, quello di non aver fatto in tempo a conoscere il professor Coppola, ma dalle testimonianze di chi ha potuto godere dei suoi insegnamenti posso comprendere come nei suoi allievi cercasse di stimolare l'osservazione approfondita, senza rifugi nella comoda semplificazione, dei fenomeni geografici e sociali, l'interesse per la realtà, insomma, per le dinamiche e gli accadimenti che segnano la contemporaneità e trasformano il mondo in cui viviamo. Ed è proprio seguendo il suo luminoso esempio e quello di uno dei suoi più cari allievi, il prof. Amato, che spero di continuare ad approfondire sempre di più e meglio i miei studi e le mie ricerche in ambito geografico.
Per alcuni aspetti le Sue tesi – quella triennale e quella magistrale – sono diverse in parte (come argomenti e come taglio) da quelle che solitamente dà il prof. Amato. È d’accordo?
Sono d'accordo. Anche se non conosco nello specifico i contenuti e il taglio delle tesi che solitamente il prof. Amato affida ai suoi studenti, credo di poter affermare che si sia trattato, tanto alla triennale, quanto alla specialistica, di due casi particolari. In entrambe le occasioni, mi sono sentita veramente libera di proporre argomento e taglio, avvalendomi sempre della guida insostituibile, presente e allo stesso tempo discreta, del Professore. Il mio lavoro ci ha visto concordi sulle finalità della ricerca, le modalità di svolgimento, i campi su cui focalizzare l'indagine. Il professor Amato ha sempre, infine, incoraggiato la mia passione per la scrittura e tollerato benevolmente una leggera deformazione professionale: il taglio un po' troppo giornalistico che mi è capitato di dare alle mie ricerche, dalla scelta degli argomenti alla stesura dei testi.
Il Suo interesse per i problemi sociali era condiviso dai Suoi colleghi di Lettere moderne? Ad osservare il Suo profilo si direbbe che Lei sia stata una studentessa atipica per il Corso di laurea in Lettere. In generale, la Facoltà in cui è più vivo l’impegno politico-sociale è quella di Scienze Politiche.
No, non mi pare che i miei colleghi condividessero “accademicamente” lo stesso mio interesse. Non so quanto atipica io possa essere stata come studentessa del corso di laurea in Lettere. Ho studiato con passione, tanta passione, durante gli anni del percorso universitario da me scelto. Ma in effetti c'è un aneddoto al quale spesso attribuisco una importanza minore di quella che poi i fatti dimostrano abbia avuto in realtà: alla fine del Liceo classico, in preda a un irrisolvibile dilemma, non riuscivo a decidermi. Relazioni Internazionali all'Orientale o Lettere moderne alla Federico II? (Non sapevo nemmeno ci fosse Lettere all'Orientale.) Scelsi con la testa le Relazioni Internazionali, per le quali comunque da tempo nutrivo un forte interesse, salvo pentirmi dopo una sola settimana di corsi, convinta che poi, per tutta la vita, mi avrebbe divorata il rimpianto di non aver scelto, col cuore, la Facoltà di Lettere. Cambiai al volo corso di laurea. Una volta scoperto che anche all'Orientale c'era Lettere, non serviva nemmeno cambiare Ateneo, e il gioco fu fatto. Ecco spiegata, forse, questa leggera ambiguità del mio profilo studentesco e il carattere un po' ibrido dei miei lavori di ricerca.
Quale idea si è fatta, nel corso degli anni, dell’Orientale, dei suoi docenti, dei suoi studenti? Studiare all’Orientale segna una persona?
Beh, studiare all'Orientale segna decisamente una persona, la tempra. È una palestra di vita. Al di là delle battute, ciò che mi ha sempre affascinato dei docenti è l'approccio diretto e facilitato che quasi tutti adottano nel relazionarsi agli studenti. Quasi fosse un marchio deontologico. Rispetto, dovuta distanza, ma apertura al dialogo e al confronto non comuni ai docenti di altri Atenei. Il profilo dello studente tipico dell'Orientale si è molto evoluto negli anni e oggi, credo, sia quasi impossibile definirne uno. L'internazionalizzazione, infine, da sempre cifra peculiare dell'Ateneo, arriva a toccare concretamente le vite di studenti e docenti, nelle forme più diverse. Anche avendo scelto un percorso filologico-letterario, che non prevedeva esami di lingua straniera, all'Orientale ho avuto modo di apprendere bene il francese e l'inglese e di avere un primissimo ed elementare approccio alla lingua cinese. Questo grazie ai continui stimoli che un Ateneo ricco di fermenti come l'Orientale, nonostante tutte le difficoltà in cui versa il mondo dell'Università in Italia, è capace ancora di offrire. Certo, poi sta agli studenti cogliere e sfruttare al meglio ogni opportunità.
Dall’Orientale al “Levante”, il giornale di cui Lei è Direttore responsabile. Perché questo nome? Perché “Il Levante”?
Questo bisognerebbe chiederlo a chi l'ha fondato, io sono arrivata a far parte della squadra due anni dopo. È abbastanza chiaro il riferimento all'Oriente, tuttavia. I genitori del progetto erano tutti studenti dell'Orientale e in maggioranza di Scienze Politiche.
Una rubrica del “Levante” è dedicata all’Orientale. Come mai? La redazione ha una forte presenza di laureati dell’Orientale?
La redazione vede una fortissima presenza di studenti o neolaureati dell'Orientale, ma i nostri collaboratori attualmente vengono anche da altri percorsi sociali professionali e da altre Università. La nascita nel 2006 de “Il Levante” come emanazione editoriale dell'associazione studentesca “Orientale 05”, ha fatto sì che l'attenzione verso l'Ateneo restasse viva e puntuale, nonostante la naturale evoluzione del progetto, che grazie all'impegno, alla passione e al duro lavoro di tutti i collaboratori, cresce di giorno in giorno.
Peraltro, il rapportotra “Il Levante” giornale e l’Università “L’Orientale” è di assoluta indipendenza, mentre del legame “affettivo” ho già spiegato le ragioni storiche.
Martedì 25 ottobre c’è stata una giornata di studi a palazzo Du Mesnil a Napoli. Il tema era “Etica, Immigrazione e Città”. Crede che l’Orientale possa fare molto per i “migranti” qui a Napoli e in Campania?
Non ho partecipato personalmente, ma “Il Levante” ha seguito l'evento che ha avuto spazio anche sull'inserto cartaceo – curato dalla nostra redazione – ogni due settimane nelle edicole di tutt'Italia, ospite del quotidiano ecologista “Terra”.
La giornata di studi è stata un vero successo e chi vi ha partecipato ha parlato di altissima qualità degli interventi e di interessantissime prospettive di indagine e di riflessione. Per non parlare dei momenti di forte impatto emotivo che le varie testimonianze, di operatori del settore e immigrati, hanno saputo creare.
“L'Orientale” deve rappresentare (e già rappresenta, con le attività di insegnamento della lingua italiana agli immigrati di Napoli e provincia, che ho avuto il piacere di seguire molto da vicino) un faro, un punto di riferimento per i migranti nella nostra regione. Non credo ci sia, non solo in Campania, ma in Italia una Istituzione culturale che, potenzialmente, meglio dell'Orientale possa adempiere a questo compito: giocare un ruolo fondamentale nell’accoglienza e nella mediazione culturale, cercando così di recuperare il ritardo, tutto italiano, a quello che è l'appuntamento del Mezzogiorno e del Paese con la Storia. Il futuro è “migrante” e Napoli deve esserci e non potrà esserci, a mio avviso, senza le competenze e i saperi del più internazionale dei suoi Atenei.
Intervista a cura di Francesco De Sio Lazzari