Flavia Coccia: L'Orientale? Per me fu come una casa
Flavia Coccia: L'Orientale? Per me fu come una casa
Il lavoro mi porta spesso in Cina. E quando passo per palazzo Corigliano, ancora oggi mi emoziono.
Dottoressa Coccia, lei è pugliese. Come mai si è iscritta all'Orientale? Come ne conosceva l'esistenza?
“Potrei dire che è stato un caso, ma nella vita nulla accade per caso.
Sono sempre stata incuriosita dalle lingue altre, e tante volte da piccola, quando sentivo qualcuno parlare in una lingua diversa dalla mia, mi sarebbe piaciuto capire che cosa dicesse. Dopo le superiori stavo preparando l’esame di ingresso alla Facoltà di Medicina, ma incontrai un mio amico con un fascicolo enorme sulle Facoltà universitarie italiane e così, scorrendo le pagine, lessi dell’Orientale di Napoli.
Non esitai un attimo, lessi tutto quanto c’era da leggere sull’Orientale, tornai a casa e dissi a mio padre «andiamo a Napoli, mi iscrivo all’Orientale». Non avevo ancora alcuna idea chiara riguardo alla lingua, sapevo solo che l’indirizzo sarebbe stato Estremo Oriente…”
Perché ha scelto la lingua cinese come oggetto principale di studio?
“Come dicevo, ero interessata all’indirizzo Estremo Oriente. Quindi nella mia prima bozza di piano di studi avevo inserito le lingue cinese e giapponese.
I corsi di lingua cinese cominciarono una settimana prima rispetto ai corsi di lingua giapponese. Le prime lezioni mi lasciarono estasiata, quei suoni, quei caratteri, tutto… La settimana successiva andai al corso di lingua giapponese.
Alla fine non sono stata io a scegliere: è stata la lingua cinese a scegliere me.
E da quel momento non mi ha più abbandonata e tantomeno io l’ho abbandonata.”
A distanza di anni dalla laurea, come valuta la sua esperienza nel nostro Ateneo? Anche per lei Palazzo Corigliano è un po’ come una patria?
“Palazzo Corigliano è stata la mia casa e ancora adesso, quando mi capita di passarci, avverto un’emozione. Nei primi giorni mi sentivo spaesata e quasi impaurita. Mi sembrava difficile anche lo scrivere in maniera definitiva il mio piano di studi. Non riuscivo a decidere gli esami da inserire, ciò che leggevo sui corsi mi sembrava sempre interessante, avrei voluto fare tutto e purtroppo non c’era nessun centro di Orientamento (è stato creato più tardi: nel 2000-2001, mi sembra). Così mi lasciai guidare dal mio intuito e dalle mie propensioni, terminai il piano di studi e mi misi alla difficile ricerca degli orari dei corsi. Le mie giornate cominciavano e finivano all’interno di palazzo Corigliano. Non riesco a contare la miriade di persone che ho conosciuto in quegli anni.
Ricordo con piacere alcuni professori, il rapporto amicale che si creava con loro come se non ci fosse alcuna differenza tra docente e studente, i meravigliosi corsi pomeridiani nell’aula dell’Antica Scuderia o delle Mura Greche. Bello, tra gli altri, fu un esame sul tema dell’amore, dal Romanzo di Tristano e Isotta nella versione di Bédier fino a L’amore e l’Occidente di Denis de Rougemont, a L’uso dei piaceri di Foucault. Lessi anche il celebre Sogno della camera rossa di Cao Xueqin: secondo molti critici, il più grande romanzo scritto in lingua cinese (è del XVIII sec.). Studiare per l’esame fu un’esperienza affascinante.
Quindi, ritornando alla domanda (visto che mi sono persa tra i ricordi), la mia valutazione sull’Ateneo non può esprimersi in maniera asettica: è una parte della mia vita, è la mia vita stessa. Per me è stata una grande casa, con un portone enorme, nella quale vivevano tante persone: alcune con molte storie da raccontare (i professori) e altre (noi studenti) con una spasmodica voglia di ascoltare. Se potessi – anche solo per pochi secondi tornare a quei momenti, a quel periodo – non so se ritornerei al presente.”
Su quale tema ha fatto la tesi? L'argomento le fu suggerito o fu una sua scelta personale?
“Come dicevo, nulla accade per caso. Già dal primo anno capii chi era il professore e la materia in cui avrei voluto fare la tesi. Non perché io fossi una persona dalle idee chiare, ma per me è stata la scelta più naturale da fare. Così un giorno del mio secondo anno, nello spazio antistante le Mura Greche incontrai il professore che avevo scelto e gli dissi «voglio fare la tesi con Lei». E così è iniziato il nostro percorso insieme, un percorso che poi ci ha portato al tema della tesi: La Cina di Victor Segalen, un autore che è una delle espressioni massime sull’esotismo.”
L’interesse per l’esotismo si collega strettamente a quanto ha vissuto e studiato all’Orientale? È stato un arricchimento significativo per Lei?
“Sicuramente il mio interesse per l’esotismo è strettamente collegato alla mia scelta universitaria. Scegliere di studiare cinese è scegliere il Paese che rappresenta
l’esotismo estremo. Avevo sentito parlare di esotismo, ma ne ho colto il senso solo preparando la mia tesi. Nella lettura delle opere e della vita di Segalen ho colto l’amore per l’altro, l’amore per il diverso. L’arricchimento nella diversità, avvertire la differenza senza avere neanche per un istante il desiderio di rendere l’altro simile a se stessi, ma (al contrario) rallegrarsi di questa eterna incomprensibilità. Ho amato ogni pagina della mia tesi, ogni testo letto mi ha insegnato qualcosa di questo amore disinteressato per la diversità… e così adesso, a distanza di anni, mi rendo conto che non mi ha mai abbandonato. Io cerco la diversità ogni giorno, ne ho quasi sete e così mi spingo ogni anno, più volte all’anno, in Cina.”
Ha conservato rapporti con docenti e laureati dell'Ateneo?
“Sì. Sono rimasta in contatto con molti amici laureati, come me, all’Orientale.
Siamo un po’ tutti sparsi nel mondo, ma con alcuni mi sento spesso. E poi il professore che mi ha seguito nella tesi.”
Di fatto, lei vive tra l’Italia e la Cina: come mai? In quali città cinesi va più spesso? Quale la colpisce maggiormente?
“Sì, il mio lavoro mi porta spesso in Cina. Lavoro nel settore dell’abbigliamento. Nello specifico sono impiegata nell’Ufficio Prodotto. Mi occupo delle produzioni in Cina, quindi almeno tre volte l’anno ci vado per controllare le produzioni dei capi. La città in cui vado spesso, è Shanghai… io adoro Shanghai.”
Conosce anche Pechino?
“Sì, certamente! Ho un ricordo bellissimo di Pechino, che risale al 1997. Bellissimo per la sensazione d’immenso che mi ha dato, per esempio, la piazza Tian An Men, e per la singolarità e il fascino dei vari vicoletti lì intorno, che mi hanno detto essere ormai tutti scomparsi.
Non so come sia diventata ora Pechino. So soltanto che quando ci ho vissuto, andando via vi ho lasciato un… pezzo di cuore. A differenza di Shanghai è più dispersiva, ma a pochi kilometri si può ammirare la Grande Muraglia… Quando dico “dispersiva”, intendo che – a differenza che a Shanghai – a Pechino non si può camminare a piedi. A Shanghai, sì. Forse per questo amo più Shanghai. L’ho fatta più mia.”
Se fosse possibile, andrebbe a vivere in Cina o preferirebbe restare sempre in Italia (senza questi continui spostamenti)?
“Vivere in Cina tutta la vita, no! Nella città non c’è il cielo, ed io senza cielo non posso vivere.
Io amo la Cina, ma (almeno nelle città) c’è sempre una cappa grigia di smog che impedisce di vedere il cielo e questa cosa mi ha portato alla scelta che ho fatto: ossia un lavoro che mi consenta di vivere in Italia e di andare spesso in Cina, perché anche senza cielo una vita senza Cina non riuscirei proprio a viverla… Così la vivo a piccole dosi insieme alla mia Italia.”
Francesco Messapi
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