I nostri laureati: intervista a Giovanna Ricchezza

 

I nostri laureati: intervista a Giovanna Ricchezza

La statua di Datini davanti Palazzo Pretorio, Prato

La periferia può essere un luogo fisico ma, soprattutto, un luogo dell’anima. Il Web Magazine d’Ateneo ne parla con Giovanna Ricchezza, laureata in lingue e culture dell’Asia e dell’Africa, con una specializzazione in cinese, cresciuta ad Afragola ed ora residente a Prato: “Mi sembra di essere perennemente in viaggio sui binari che tengono uniti centro e periferia, senza mai scendere”

Giovanna Ricchezza, che ricordo ha della sua esperienza di studio all'Orientale?

Sono cresciuta nell'immediata provincia napoletana, un contesto privo d'identità propria, vuoto perché del tutto dipendente dalla grande e vicina metropoli. L'approdo all'Orientale ha significato l'apertura ad un mondo molto vario, colorato, per molti aspetti diverso dal mio e per questo infinitamente stimolante.

Quanto questa esperienza ha inciso sulle sue scelte e sulla sua vita attuale?

L'esperienza di studio all'Orientale ha fornito le basi sulle quali sto costruendo me stessa e sulle quali progetto il mio futuro. Ho studiato cinese ed è grazie a questa laurea che ora lavoro, anche se part-time, anche se a Prato, in Toscana.

Parliamo di 'periferia': che cos'è la periferia per lei?

Parlare di periferia è parlare anche del centro attorno al quale essa si sviluppa, luoghi inter-dipendenti, non solo geografici ma anche emozionali. Credo che la loro essenza risieda nella molteplicità dei legami che intercorrono tra loro, proprio come infinite linee di circumvesuviane, treni, pullman, che li uniscono. Chi percorre queste linee si apre (o è costretto ad aprirsi) all'altro, fa esperienza della diversità, conosce la molteplicità, cambia. Periferia e centro acquistano significato solo nel momento in cui si lascia l'una per raggiungere l'altro e viceversa.

Considera la sua vita come 'periferica'?

Oggi percepisco la mia vita come estremamente periferica, forse il termine più esatto è acentrica, sia dal punto di vista personale che sociale: vivo in continuo movimento, tra centri e periferie di vari luoghi geografici, spesso senza neanche il tempo di rendermene conto; inoltre vivo in una realtà sociale a me ancora estranea, con estranei, questi estranei fanno gruppo, sono il centro, dal quale io sono distante. Mi sembra di essere perennemente in viaggio sui binari che tengono uniti centro e periferia, senza mai scendere.

Spazio e integrazione: che esperienza ne ha?

Ho sempre creduto nella relatività degli spazi fisici: un luogo è fatto dalle persone che lo popolano. Prato è una città multietnica, meta di forte immigrazione ormai da vent'anni a questa parte, c'è di tutto e a me questa mescolanza piace molto.

In base alla sua esperienza di contatto con diverse culture, crede sia possibile una completa integrazione?

Ho molti dubbi sulla possibilità di una reale, totale compenetrazione tra culture, tuttavia credo si possa provare a trovare dei punti in comune, anche semplici, nelle pratiche di vita quotidiana, in alcune idee, persino in alcuni comportamenti sociali e su questi punti costruire le basi per una solida convivenza.

Lei accennava, prima, a realtà sociali estranee: si riferisce alle comunità di immigrati presenti a Prato?

Quando parlo di una realtà sociale a me estranea non mi riferisco agli immigrati, ma alla gente del posto. Nonostante non si possa parlare di razzismo, l'integrazione è abbastanza difficile, soprattutto in ambito lavorativo, diciamo che c'è una certa diffidenza nei confronti dei meridionali. È come una scala: i toscani sono in cima, un gradino più sotto ci sono gli italiani del nord, in fondo alla scala ci sono prima i meridionali – che vengono al nord togliendo il lavoro a chi è originario di queste zone, quando potrebbero starsene a casa loro e tentare di risolvere i loro problemi – e subito dopo gli immigrati. A volte mi sento più vicina a questi che non ai locali.

Lei è cresciuta in periferia, ora si trova a vivere in una periferia sia reale che metaforica: ha mai avuto il desiderio di ‘farsi centro’ in qualche modo?

Credo di aver sempre avuto una ‘sindrome del centro’, cioè ho sempre percepito il centro – nel mio caso la città di Napoli – come un El Dorado dove ogni possibile desiderio, materiale o intellettuale, potesse trovare appagamento. Quindi si, ho sempre voluto ‘essere centro’, però più passa il tempo più mi rendo conto che la distanza è irreversibile.

Dunque, la condizione di ‘periferico’ è irreversibile ed irreversibilmente negativa?

La condizione periferica non è necessariamente negativa, anzi, mi sembra che paradossalmente i ‘periferici’ siano persone più portate allo spostamento, molto spesso perché costrette, e proprio questo costante spostamento mi sembra ci arricchisca in quanto persone, in molti modi diversi.

Consiglierebbe a qualcuno di iscriversi all'Orientale?

Consiglierei di iscriversi all'Orientale a tutti coloro che hanno una spiccata attitudine al confronto, all'apertura verso le altre culture, alla simpatia e alla curiosità verso il diverso. L'Università può migliorare sotto molti aspetti, ma quegli anni restano per me il periodo che più di tutti ha formato la mia persona ed influenzato la mia vita, dalle esperienze passate alla situazione presente, e alle aspettative future.

Mariangela Barretta

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