Il processo di Kimberley: un accordo contro i diamanti "insanguinati"

 

Il processo di Kimberley: un accordo contro i diamanti "insanguinati"

Valentina Grado

“Il Consiglio di Sicurezza del processo di Kimberley evidenzia un rapporto soprattutto tra il commercio di diamanti e l’acquisto di armi, di equipaggiamenti militari; le cose si complicano ulteriormente se si pensa che questo tipo di commercio è strettamente connesso anche alla continuazione dei conflitti”

Professoressa Grado, può spiegarci cos’è il processo di Kimberley?

“Il processo di Kimberley è un sistema di certificazione internazionale per i diamanti grezzi che tenta di certificare l’origine conflict free dei diamanti commerciati in tutto il mondo.”

Cos’è cambiato dal 2000, anno in cui si tenne il primo incontro nella capitale sudafricana dei diamanti, Kimberley, ad oggi?

“In questi anni il sistema si è rafforzato perché inizialmente era uno strumento privo di sanzioni: gli Stati erano tenuti a determinati comportamenti ma non era previsto un regime sanzionatorio nel caso di inosservanza di questi impegni.”

Cosa accade adesso, quindi, in caso di inosservanza?

“Una delle novità fondamentali è stata quella di introdurre un regime sanzionatorio che consiste nell’espulsione dal sistema o la sospensione dal sistema stesso: sospensione significa che gli obblighi rimangono gli stessi per gli Stati, devono presentare quindi un rapporto annuale, dati statistici sulla produzione e sul commercio, ma non possono commerciare diamanti con gli altri partecipanti.”

Chi è che controlla che i Paesi rispettino l’accordo di Kimberley?

“C’è un meccanismo di monitoraggio che viene denominato Peer Review System o Peer Review Mechanism formato dalla presentazione dei rapporti annuali ma soprattutto dalle cosiddette visite e missioni di riesame: il gruppo di esperti sul monitoraggio visita lo Stato in questione e, con il consenso dello Stato stesso, controlla che sia adempiente agli obblighi del processo di Kimberley.”

La tracciabilità dei diamanti, quindi, è oggi veramente assicurata?

“Sulla base di quello che oggi ci hanno detto i nostri gemmologi Mark van Bockstael, uno dei padri ideatori della tracciabilità, e Alberto Scarani, posso dire che forse a livello di gemmologia non siamo ancora in grado di tracciarli ma a livello di sistema internazionale sicuramente sì.”

A proposito delle sanzioni a cui accennava prima?

“Espulsione dal sistema significa che non è più possibile commerciare diamanti con i partecipanti all’accordo: esiste infatti un divieto di commercio per i partecipanti con i non partecipanti e se si è quindi al di fuori del sistema non si possono più né importare né esportare diamanti. Chiaramente questo per un Paese che produce diamanti è un grande deterrente.”

Cos’è che lega il traffico di diamanti di sangue al traffico d’armi, al traffico di droga, al riciclaggio di danaro?

“Il Consiglio di Sicurezza del processo di Kimberley evidenzia un rapporto soprattutto tra il commercio di diamanti e l’acquisto di armi, di equipaggiamenti militari; le cose si complicano ulteriormente se si pensa che questo tipo di commercio è strettamente connesso anche alla continuazione dei conflitti: l’Assemblea Generale dice, infatti, che il processo di Kimberley ha come obiettivo primario quello di spezzare il legame tra conflitti armati e diamanti perché è proprio attraverso il sostegno finanziario che si ha con la vendita dei diamanti che si acquistano le armi.”

Quali sono i paesi maggiori produttori di diamanti e quanti di questi sono in guerra?

“I Paesi sono molti e hanno situazioni molto diverse tra loro: il Canada, la Russia, l’Australia ovviamente non hanno problemi di questo tipo ma tra i Paesi africani la situazione è molto più complessa. La Sierra Leone, la Liberia, la Costa d’Avorio, la Repubblica Democratica del Congo, la Repubblica Centroafricana sono purtroppo attraversati da sanguinosi conflitti mentre altri Paesi, come la Namibia, il Botswana e il Sudafrica sono tranquilli sotto questo punto di vista. Questo dipende, come abbiamo visto oggi, da come sono prodotti i diamanti; si fa, infatti, una grossa distinzione tra i diamanti alluvionali, cioè quelli facilmente reperibili senza grossi investimenti, e i diamanti che provengono da miniere. Il Botswana, ad esempio, è un importante produttore di diamanti ma ha soltanto miniere che sono controllate dallo Stato; i problemi nascono per l’Angola, per la Sierra Leone o per la Repubblica Democratica del Congo dove la gran parte dei diamanti è alluvionale e dove basta, appunto, che un minatore si armi di setaccio e di pala per trovarli.”

Come reagiscono i gioiellieri di fronte alle normative vigenti?

“Il nostro obiettivo è quello proprio di sensibilizzare anche i gioiellieri alla dimensione etica del commercio, e si tratta di una dimensione che fortunatamente si sta sempre più ampliando.”

Quanto conta il fatto che i diamanti dei gioiellieri siano esclusi dal processo di certificazione?

“Questi diamanti non sono esclusi: la società civile e l’industria dei diamanti non possono votare, non possono adottare decisioni ma sono comunque membri osservatori che fanno parte anche dei gruppi tecnici di lavoro, di monitoraggio, di statistica. Questi fanno parte, insomma, di tutti i gruppi ad hoc che sono stati creati all’interno del processo di Kimberley.”

Secondo lei agli acquirenti quanto interessa la provenienza dei diamanti rispetto, ad esempio, al marchio?

“Interessa sempre di più: Alessandra De Chiara, che insegna qui all’Orientale Etica e mercato, ha evidenziato proprio come la dimensione etica stia sostituendo le mode di una volta, il marchio per intenderci. La dimensione etica, infatti, sta a mano a mano prendendo piede come strategia di marketing.”

In quali zone il traffico di diamanti di conflitto o di contrabbando è ancora florido?

“Ufficialmente l’unico caso di diamanti di conflitto, di diamanti insanguinati, è quello della Costa d’Avorio dove, per questo, esiste ancora un embargo imposto dal Consiglio di Sicurezza proprio sui diamanti provenienti da questo Paese. Il contrabbando è, in generale, ancora diffuso ma possiamo dire che le percentuali sono in questo senso scese: in Sierra Leone, ad esempio, nel corso della metà degli anni Novanta non c’erano più esportazioni perché tutti i diamanti venivano contrabbandati; oggi i diamanti contrabbandati costituiscono circa il 20% della produzione e da un’esportazione pari a zero credo che qualche passo in avanti è stato fatto. Tutto questo è dimostrato anche dal fatto che molti rapporti dei gruppi di esperti del Consiglio di Sicurezza evidenziano come gli introiti derivanti dalle esportazioni di diamanti in questi Paesi, come la Sierra Leone e la Liberia, siano molto aumentati rispetto alla situazione che esisteva nel corso della metà degli anni Novanta.”

Crede che l’informazione intorno a questo argomento sia sufficiente?

“Io penso che questo possa essere un buon inizio per tentare di seguire questo filone: il collega Mark van Bockstael parlava di una legge americana che si occupa non più dei soli conflict diamonds ma delle risorse in generale dei conflitti. Si tratta, quindi, di un tema che si sta espandendo perché non riguarda più solo i diamanti ma anche risorse minerarie tipo oro, coltan e via discorrendo: c’è tutto un movimento che tenta di regolamentare non soltanto la risorsa diamante ma tante altre risorse naturali dei Paesi.”

Che tipo di interventi sono previsti per sensibilizzare le persone?

“La sensibilizzazione viene soprattutto dalle organizzazioni non governative che stanno tentando, tra le altre cose, di ampliare il processo di Kimberley per fare entrare nella definizione del processo stesso non solo i diamanti collegati ai conflitti ma più in generale i diamanti collegati a gravi violazioni dei diritti dell’uomo. Quando noi parliamo dei diamanti di conflitti, infatti, ci riferiamo a diamanti utilizzati dai movimenti ribelli ma ci sono anche governi che sfruttano la situazione, come nel caso dello Zimbabwe ad esempio, per commettere gravi violazioni dei diritti dell’uomo. La sensibilizzazione, quindi, si sta facendo anche tentando di ampliare la portata del sistema di certificazione.”

Che tipo di interventi sono invece previsti per migliorare il sistema di controllo?

“Per migliorare il sistema di controllo uno dei suggerimenti è quello della trasparenza, perché al termine delle visite di controllo i rapporti non vengono pubblicati e quindi non si sa se uno Stato è inadempiente o meno. Già rendere il sistema più trasparente, ad esempio con un sito web migliore dove vengono pubblicati i documenti in questione, rapporti d’esame e via dicendo, potrebbe essere sicuramente un grosso punto di partenza. Far seguire ai controlli le sanzioni è poi un punto fondamentale da sviluppare, perché un controllo senza sanzione serve a ben poco.”

Francesca De Rosa

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