Il viaggio del migrante? Un rito postmoderno di passaggio all’età adulta

 

Il viaggio del migrante? Un rito postmoderno di passaggio all’età adulta

Un momento della conferenza

Parlare dei migranti o, piuttosto, ascoltarli?

Palazzo del Mediterraneo, 1 ottobre 2010 – Disorientati abbastanza da volerne sapere di più. Se questo era l’obbiettivo di Triulzi, si può dire che l’ha raggiunto in pieno. Del resto mettere insieme la verve auroironica di Triulzi (“il mio paper è in rete e non lo leggerò, non ho mai creduto nella lettura dei paper in situazioni come queste, figuriamoci se voglio affligervi con il mio”) con le toccanti testimonianze di due attivisti del movimento indipendentista eritreo era già garanzia di successo. Alessandro Triulzi, che coordina a Roma l’Archivio delle Memorie Migranti, ha ipotizzato la lettura del viaggio del migrante, del suo “passaggio di frontiera” come un rito postmoderno di passaggio all’età adulta.
Il concetto africano di onore costringe chi è responsabile di una famiglia a fare qualsiasi cosa per mantenerla: ecco perché è così importante riuscire in questo viaggio. Di qui lo stigma per chi fallisce ed è ricacciato indietro. Dopo aver ribadito che è prioritario, nelle ricerche sui migranti, coinvolgere il maggior numero possibile di migranti stessi “perché si continua a parlare noi troppo di loro, quando invece dovemmo ascoltarli”, l’africanista ha ceduto la parola – prima che alla professoressa Ruth Iyob e al suo passato di guerrigliera – a Gabriel Tseggai che ha ripercorso la sua vicenda di eritreo nato e cresciuto ad Asmara e chiamato alla lotta per l’indipendenza quando ha cominciato a comprendere che cos’era quel qualcosa che “sapevamo e non sapevamo”, quando cioè ha preso coscienza che doveva compiere una scelta tra restare legato alla famiglia verso cui era educato a sentire degli obblighi o lasciarla per qualcosa, la lotta per l’indipendenza appunto, verso cui un senso del dovere più forte lo chiamava.
La sete di raccontare di Tseggai, più forte della commozione che talora lo costringeva a una pausa, ha trovato riscontro in una parallela sete di ascoltare del pubblico presente, e ha lasciato disorientati, questo sì, comprendere che solo da poco, grazie alle interviste di Triulzi e dei suoi collaboratori, Tseggai abbia trovato la forza di parlare della sua esperienza di combattente, poi di esule che pian piano scopre che oltre che per l’indipendenza sta combattendo per la libertà d’espressione e la giustizia sociale: concetti prima in qualche modo ignoti. Già. Perché, come aveva premesso Triulzi e come hanno ribadito gli altri testimoni, ricordare è difficile e doloroso: “l’esperienza del migrante è traumatica al momento, ma poi viene rimossa e dimenticata e la si può rivivere solo narrandola”. Narrandola come? Si chiede Alexandra D’Onofrio, autrice del video Viaggio dalle tenebre alla luce in cui raccoglie le testimonianze di migranti diretti in Inghilterra. Chi narra a volte deve “mentire” per proteggere la propria integrità. Ai migranti, o come preferisce la D’Onofrio, ai “viaggiatori”, l’Europa ruba l’identità costringendoli a inventarsi nomi nuovi e nuove storie, le loro menzogne non sono “mancanza di verità”, ma “qualcosa di più della verità” o che va aldilà di essa. “Bisogna avere la speranza, ma non averne troppa” – confida un viaggiatore al microfono – “Se hai troppa speranza non va bene”. E intanto si brucia le impronte perché non si sappia che viene dall’Italia e sia rispedito qui: “odio l’Italia e non ci voglio tornare”. Abbastanza, appunto, per rimanere disorientati e avere voglia di approfondire.

Concetta Carotenuto

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