Intervista ad Alvaro Rocchetti in occasione del XIII Colloque dell’Association Internationale de Psychomécanique du Langage

 

Intervista ad Alvaro Rocchetti in occasione del XIII Colloque dell’Association Internationale de Psychomécanique du Langage

Alvaro Rocchetti

“La linguistica storica? È alla base della psicomeccanica”

Professore Rocchetti, potrebbe darci una definizione della psicomeccanica del linguaggio?

La psicomeccanica del linguaggio è un metodo che permette di analizzare il funzionamento del linguaggio risalendo dal discorso alla sua matrice cioè al meccanismo che abbiamo nella nostra mente – anche quando non parliamo – applicando tutte le osservazioni su un tempo chiamato “tempo operativo”, che è il tempo dell’operazione. Ogni elemento del discorso – la frase, la parola, la sillaba o il fonema – richiede un tempo più o meno lungo per essere concepito e enunciato. Questo tempo è, in parte, accessibile alla coscienza quando si tratta della frase, ma la maggior parte dei meccanismi in atto nella sintassi sfuggono alla coscienza del locutore. Se passiamo poi alla parola, alla sillaba e al fonema, sembra che il tempo sparisca, mentre – per fare un esempio – l’analisi ci dimostra che la -a finale di casa o quella di mura richiedono un gran numero di operazioni, come la scelta della parte del discorso chiamata nome, del singolare o del plurale, del femminile o del maschile, ecc.
Per la psicomeccanica la nostra capacità a usare la lingua può essere paragonata al funzionamento del computer: qualche volta ci rendiamo conto del tempo impiegato dal computer per fare le operazioni che gli chiediamo perché ci costringe ad aspettare prima di darci la risposta desiderata (come quando aspettiamo che il nostro interlocutore abbia finito la sua frase), ma il più delle volte si preme su un tasto e si ottiene subito la risposta. In realtà, tra il tasto premuto e la risposta, passa, ad esempio, una frazione di un decimo di secondo, durante la quale il computer può fare migliaia di operazioni. In una frase come «vado a Roma», la preposizione “a” è il risultato di una serie di operazioni: non è più la vocale che indica il genere o il numero come nell’esempio precedente, ma una preposizione di moto a luogo, che è stata scelta fra le altre preposizioni che avrei potuto usare. Se invece dico «sono a Roma», la stessa preposizione indica un punto di arrivo, il termine del movimento. Per la psicomeccanica, si tratta sempre della stessa preposizione, il cui meccanismo può essere rappresentato da una freccia con due intercettazioni: la posizione finale in “sono a Roma” e invece un’intercettazione anticipata nella frase “vado a Roma”. Se poi voglio indicare il movimento di allontanamento devo dire «parto da Roma» perché se dico «parto a Roma» ottengo di nuovo un moto a luogo. Questo vuol dire che la preposizione a è capace di esprimere due significati: il moto a luogo e lo stato in luogo, ma non l’allontanamento da un luogo. Quest’ultimo significato può essere espresso, come in “parto da Roma”, dalla preposizione da, ma anche, in altri contesti, da una variante che è di. Il meccanismo che distingue queste due preposizioni è evidentemente legato all’opposizione delle vocali -i e -a che è possibile mettere in relazione con il tempo operativo in modo da capire il meccanismo in atto: nel sistema vocalico le vocali si succedono secondo il punto articolatorio (u --> o --> a --> e --> i); la a occupa un posto centrale mentre la i occupa quello finale. Da esprime quindi uno spazio aperto (a partire dall’inizio d-), mentre di esprime uno spazio che si chiude, che si estende fino al termine. Così si capisce che una vita da cane sia una vita che coincide solo in parte con quella del cane, mentre in una vita di cane la nozione vita coincide completamente con la nozione cane. Questa opposizione si ritrova in altri settori della lingua: negli avverbi di luogo (qua/qui, là/lì), nella morfologia nominale (grida/gridi, ginocchia/ginocchi…). La psicomeccanica considera il discorso come un iceberg in cui la parte emersa rappresenta solo un quinto del totale, e proprio la parte sommersa della lingua è quella che interessa di più perché ospita i meccanismi.

Qual era la situazione della psicomeccanica in Francia quando lei ha iniziato a occuparsene?

Quando ho iniziato a occuparmi di psicomeccanica del linguaggio era l’ultimo anno in cui Gustave Guillaume era in vita. Avevo visto l’annuncio del seminario da lui tenuto, ma quell’anno non sono riuscito a seguirlo. Ho seguito però il seminario tenuto da un suo allievo, Maurice Molho, conosciuto anche in Italia, dove è stato invitato diverse volte. Molho ha scritto un articolo molto interessante su “Duel et possessif en florentin du ‘500” [http://chroniquesitaliennes.univ-paris3.fr/PDF/11-12/duel.pdf], sul duale e la dualità. Successivamente ho seguito molti altri discepoli di Guillaume: Roch Valin, quando veniva a Parigi a fare conferenze o anche il seminario di Gérard Moignet. Una volta, mentre trasportavo nella mia piccola Renault Dauphine, Roch Valin, Jean Stefanini, Maurice Molho e Gérard Moignet, dissi: «se abbiamo un incidente e moriamo tutti, il guillaumismo si ferma qui!».

Qual è oggi in Francia la situazione della psicomeccanica del linguaggio?

La psicomeccanica si è diffusa nel mondo. Moignet ha avuto molti discepoli in Oriente, soprattutto in Giappone, Corea, Cina. Roch Valin ha sviluppato il suo insegnamento nel Canada, a Québec, e in Francia. Sempre in Francia c’è stata la rivista “Modèles Linquistiques”, diretta da André Joly, che si è dedicata prevalentemente a far conoscere la psicomeccanica. André Joly ha diretto anche una équipe di ricerca sulla psicomeccanica del CNRS (Centre National de la Recherche Scientifique). Adesso lo studio della psicomeccanica è portato avanti in diverse università francesi tra cui Paris III-Sorbonne Nouvelle, dove insegno e dove abbiamo un seminario di psicomeccanica che si chiama SCoLaR (Systematique COmparée des LAngues Romanes). La psicomeccanica è presente anche nelle università di Lille, di Aix-Marseille. Con i suoi postulati metodologici, è di un grande aiuto per gli ortofonisti : due degli interventi di questo convegno implicano ortofonisti di Nizza e di Chambéry. Il tipo di analisi usata nella psicomeccanica da ottimi risultati anche quando è applicata al linguaggio gestuale. Il professore Philippe Séro-Guillaume, dell’ESIT (École Supérieure d’Interprètes et Traducteurs) di Parigi, è un guillaumiano, e sostiene che per lo studio della gestualità, la psicomeccanica è l’unico metodo che può essere usato efficacemente. Séro-Guillaume ha scritto un bellissimo articolo sulla psicomeccanica e la LSF (langue des signes française) e interverrà nel mio seminario sull’incidenza nella lingua dei segni francese che si terrà il 6 ottobre 2012 al Centre Universitaire Censier della Sorbonne Nouvelle. I legami si stringono sempre più anche con la neurofisiologia e con la ricerca sui robot. Sempre al seminario del 6 ottobre parteciperà un ricercatore del CNRS che presenterà una teoria neurolinguistica in grado di spiegare perché i computer hanno oggi la capacità di apprendere come gli esseri umani.

Chi sono in Italia i referenti principali della psicomeccanica del linguaggio?

La linguistica psicomeccanica comincia ad estendersi in Italia. I principali referenti si trovano a Napoli. Lo studioso che ha dato lo spunto per la diffusione di questa materia è stato Roberto Silvi, che a Parigi è stato mio allievo, e ha tradotto i Principi di linguistica teorica di Gustave Guillaume. All’Università L’Orientale di Napoli poi ci sono Alberto Manco e Arturo Martone, che contribuisce su un versante filosofico. Un altro professore interessato dalla psicomeccanica è stato Leandro Schena che ha insegnato a Trieste e alla Bocconi. Ora è in pensione, ma ha aperto la via a una studiosa italiana di rilievo, Luciana Soliman, che era alla Bocconi e adesso insegna a Padova. La psicomeccanica è già abbastanza diffusa in Spagna, dove sarà pubblicato un volume in memoria di Maurice Toussaint il quale è stato un allievo di Molho e Valin ed è stato sempre molto vicino alla psicomeccanica di Guillaume, pur avendo teorie proprie.

Quali interazioni può avere la psicomeccanica con le altre discipline che studiano l’uomo e il suo ambiente?

La linguistica normalmente si occupa dei testi ovvero del discorso già fatto. Invece, noi studiosi di psicomeccanica ci occupiamo del discorso in atto, mentre si fa, e analizziamo il modo in cui si passa dalla lingua che il parlante ha in testa al discorso. Anche quando non parliamo, la lingua rimane in noi come potenzialità: la psicomeccanica cerca di scoprire i meccanismi che mettiamo in atto quando parliamo. Gli ortofonisti sono molto interessati da questa metodologia perché, fra le diverse metodologie usate dai linguisti, è quella che meglio permette di capire perché alcune persone – e soprattutto alcuni bambini – non riescono ad esprimersi in modo corretto. Le linguistiche tradizionali, che si sono occupate solo – o quasi solo – dei risultati del discorso, non sono in grado di dare una spiegazione a questi fenomeni. Noi, invece, cerchiamo di capire quali operazioni eseguisce il parlante, e per questo le nostre ricerche, basate sugli spostamenti dell’influsso nervoso e sulle intercettazioni di questi spostamenti, interessano tanto gli ortofonisti quanto gli studiosi di intelligenza artificiale. Questi ultimi cercano anch’essi di capire cosa accade al livello del linguaggio nella mente delle persone. L’obiettivo è quello di creare un computer che sia in grado di apprendere e autocorreggersi, proprio come fa un bambino che apprende il linguaggio. Come ho affermato prima, allo stato attuale della ricerca gli scienziati sono arrivati a costruire dei computer capaci di creare delle cellule e delle colonne di cellule organizzate, come accade nel nostro cervello. Gli scienziati sono perfino riusciti a spiegare perché dormiamo: e quest’ultimo aspetto è fondamentale per questo tipo di ricerca, perché se il computer vuole imitare l’uomo “deve dormire”. Quando impariamo o ascoltiamo qualcosa, infatti, solo alcune cellule sono in grado di lavorare: le altre devono rimanere in silenzio, come quando, in una sala piena di gente, se tutti parlano, non si capisce niente. Invece, se si lascia che solo uno parli, tutti possono ascoltare e capire. Quando però queste cellule hanno finito di imparare hanno bisogno di dormire, perché è durante il sonno che le altre cellule – quelle che sono rimaste silenziose – ricevono quanto appreso dalle cellule attive. Nello stesso modo, se il computer vuole imitare la mente umana, bisogna che smetta la sua attività e si metta a informare tutte le cellule circostanti, per diffondere l’informazione appresa.
Vorrei ancora aggiungere alcune considerazioni sulla psicomeccanica e su come si differenzi dalla linguistica generativo trasformazionale, pur avendone diversi aspetti in comune.
Ho detto che la linguistica tradizionale di solito si occupa dei risultati della produzione del linguaggio: testi scritti, registrazione di dichiarazioni orali, ecc. Si occupa dei risultati, e non sempre cerca di risalire al meccanismo che li ha prodotti. Ma c’è una linguistica che percorre una strada vicina a quella della psicomeccanica del linguaggio, ed è la grammatica generativo-trasformazionale di Chomsky. In Italia questa teoria linguistica è stata molto rappresentata e ha dato ottimi risultati. Qualche volta la grammatica generativo-trasformazionale arriva agli stessi risultati della psicomeccanica: ma molte volte invece gli esiti sono diversi. Questo avviene perché Chomski e i suoi seguaci non si occupano di capire se il funzionamento della lingua corrisponda davvero a quello che mette in atto il parlante. Loro ricostituiscono una lingua, a partire da quello che noi chiamiamo il discorso, cioè la realtà concreta della lingua; essi cercano di spiegare il discorso, ma, in realtà, se la spiegazione non coincide con il sistema reale che il parlante possiede, non se ne preoccupano. Ad esempio, durante questo convegno, il professore Arturo Martone ha messo in rilievo le difficoltà della grammatica generativo-trasformazionale nell’analisi della metafora che pur è uno dei procedimenti fondamentali del linguaggio. Per gli studiosi di psicomeccanica invece, i quali basano la loro metodologia sul concetto di tempo operativo che ho citato prima, la produzione discorsiva va sempre in una direzione e non può mai tornare indietro. Ad esempio se io dico «ringiovanisco» in realtà continuo a invecchiare e qualche volta addirittura ricado nell’infanzia, quando sono arrivato al termine! Quindi, mentre per noi il tempo ha una direzione univoca, per la grammatica generativo-trasformazionale il tempo non ha la stessa importanza. C’è una differenza fondamentale tra la grammatica generativo-trasformazionale e la psicomeccanica: noi siamo legati alla parte vivente dell’umano, all’espressione, e al tempo che vediamo tutti scorrere, più o meno rapidamente per ognuno. Invece la grammatica trasformazionale, per stabilire la competenza di linguaggio, crea delle strutture che non sono in relazione col tempo ma sono trasformazioni di una serie di frasi di base che possiedono tutti. La trasformazione consiste appunto nel passaggio da queste frasi di base a frasi più complesse. Dal nostro punto di vista invece lo sviluppo linguistico funziona diversamente: il bambino che apprende a parlare ricostruisce dall’inizio tutto il sistema della lingua, e qualche volta lo ricostruisce male, come quando ad esempio dice “dicete, facete” ecc. Qualche volta questi esiti sono ammessi nei dialetti o nelle lingue, ma in questo caso, “dicete” e “facete” sono, per un italiano, degli errori. Essi nascono da una ricostruzione sbagliata del sistema della lingua. In altre parole, il bambino non si limita a ripetere quello che sente dire da chi lo circonda, ma sarebbe più corretto dire che ricostruisce il discorso. Ricordo ancora quando mia figlia, da bambina, diceva in francese «Ils sontaient très content» invece di dire “ils étaient très contents” (erano molto contenti). A che cosa era dovuto questo errore? Ricostruiva la forma “ils *sontaient” a partire dal ragionamento seguente: “Il parle / Il parlait, quindi: Ils sont / ils *sontaient”. In dialetto fiorentino ad esempio “un c’ènno” significa “non ci sono”, ma come si è arrivati a questa forma? Costruendo è/enno sul modello ha/hanno. È così che funziona il meccanismo: si tratta di una ricostruzione che qualche volta, se è considerata una bella trovata, viene ammessa nella lingua. Se invece si rivela una ricostruzione sbagliata non è accettata e il bambino è portato a fare una nuova ricostruzione più conforme al meccanismo usato dagli adulti. Ad esempio, nel caso degli errori “dicete, facete” che ho segnalato poco fa e riguardano anche i bambini francesi (*“vous disez”, *“vous faisez”), la ricostruzione è basata sull’analogia con le forme regolari del tipo volete, avete, leggete, ecc. Ma dopo un periodo di ricostruzione sbagliata, tutti i bambini, che siano francesi o italiani, consigliati dagli adulti o lasciati da soli, correggono spontaneamente trovando la ricostruzione giusta. Come procedono per trovarla ? Si rendono conto che l’italiano, come il francese, ha tre forme specifiche alla seconda persona del plurale per tre verbi fondamentali : essere (verbo fondamentale dell’esistenza), fare (verbo fondamentale dell’attività umana) e dire (verbo fondamentale della parola umana). Quando il bambino ha individuato questa specificità, corregge spontaneamente la sua ricostruzione e… si trova pronto per consigliare i suoi futuri figli, anche se la comprensione del vero meccanismo non è mai arrivata alla sua coscienza di bambino (e nemmeno alla coscienza dell’adulto!). Questo è solo un’illustrazione del modo con cui la psicomeccanica può spiegare fenomeni che non sempre le altre linguistiche riescono a spiegare.

Quello che lei dice fa pensare a uno sviluppo analogo nella ricerca medica: all’inizio la ricerca procedeva studiando i corpi morti, sezionandoli, mentre adesso si fa sempre più ricorso allo studio dei corpi ancora in vita…

I primi testi della psicomeccanica sono stati scritti da Gustave Guillaume prima della guerra del ’14. In seguito sono stati ritrovati dopo che egli li nascose. Quindi, si può dire che la psicomeccanica del linguaggio esiste da circa cento anni. Le altre linguistiche sono passate come passano le mode. La psicomeccanica, invece, più viene approfondita e più ne viene messo in luce il valore euristico. L’unico problema che rimane è quello della denominazione della disciplina. Gustava Guillaume pensava che il prefisso psico- facesse riferimento al mentale, a quello che si svolge nel cervello. In seguito all’affermarmi della psicanalisi, il prefisso psico- ha identificato l’inconscio. Pertanto, il filosofo André Jacob ha proposto di denominare la psicomeccanica “linguistica operativa”, ovvero una linguistica che si occupa delle operazioni che ciascuno compie nella propria testa. Io trovo valida questa denominazione. La psicomeccanica non è la meccanica della psicologia, come potrebbe apparire, ma quella del linguaggio. Ma è possibile cambiare un (quasi) centenario? Meglio quindi usare la denominazione completa : psicomeccanica del linguaggio.

Quale futuro vede per la psicomeccanica del linguaggio?

Gustave Guillaume ha detto che la psicomeccanica del linguaggio dimostrerà il suo valore strada facendo: più se ne scopriranno i meccanismi di funzionamento, più il corpus dei testi sarà convincente per coloro che l’hanno praticata. Io vedo un affermarsi sempre più forte nel campo della rieducazione del linguaggio. Tutti gli ortofonisti dovrebbero informarsi sulla psicomeccanica del linguaggio perché questa è l’unica linguistica che può contribuire al loro lavoro. Le altre linguistiche, basate sui testi, non riescono a servire al loro scopo. Oggi, [giovedì 21 giugno 2012 – N. d. R.] la professoressa Patricia Malquarti ha dato un valido esempio di come la psicomeccanica del linguaggio possa aiutare il lavoro degli ortofonisti. Io vedo benissimo che la psicomeccanica del linguaggio è rimasta in una sfera francese, in questo convegno infatti si parla in francese. Bisognerebbe tuttavia che venissimo sorpassati da studiosi di psicomeccanica del linguaggio provenienti da altri paesi. Ciò avviene in parte: i coreani ad esempio hanno creato dei siti internet molto aggiornati. Però bisogna evitare l’idolatria di Gustave Guillaume o di Roch Valin. Quello che bisogna seguire è il loro atteggiamento, orientato verso l’innovazione, la creazione, la scoperta di nuovi meccanismi. Da un altro lato vedo il futuro della psicomeccanica nell’approfondimento della strada tracciata dal neuroscienziato Giacomo Rizzolatti e dalla sua équipe. Rizzolatti sostiene che all’inizio il linguaggio fosse fatto da gesti, e che solo in seguito i gesti siano stati sostituiti dai suoni; posizione questa che già era di Condillac. Allo stesso modo, noi studiosi di psicomeccanica del linguaggio, e io in particolare, siamo convinti che il linguaggio sia solo in minima parte costituito da suoni soprattutto per la parte riguardante il significato. Quest’ultimo piuttosto si fonda nell’articolazione, che permette di imitare, e in parte di suggerire la nozione che si vuole trasmettere. Il suono serve solo a trasmettere il significato tra due persone che già sanno come questi suoni vengono prodotti, in quanto appartenenti alla stessa comunità linguistica. Faccio un esempio: per dire, «io» faccio questo gesto [porta la mano verso di sé – N.d.R.] mentre con la lingua, in latino, dico ego. Quindi ego, con la g sonora, è un movimento verso di sé, verso la parte interna del corpo. Il latino diceva «venio» che è diventato vengo; l’italiano ha cercato per tanto tempo come sviluppare questa o finale che indica la persona; ha usato “go”, come in tollo > tolgo, solvo > sciolgo, ecc. perché –go era più suggestivo di -o. Quando in ego è caduta la g, ha lasciato il posto a «io», costituito dalla vocale “i” esterna più la vocale “o” interna, che rappresentano foneticamente il movimento da fuori a dentro, come il gesto che ho fatto per designarmi. Nello stesso modo in spagnolo si usa “yo”, in rumeno “ieu”, “je” in francese: sono tutti movimenti dall’esterno all’interno. Al contrario “tu” è un movimento che batte contro l’altro, è un movimento opposto che va dall’interno verso l’esterno. Oppure ancora “noi” rappresenta l’interno perché la “n” è nasale, invece voi è all’esterno e così via.

Da quanto lei afferma la psicomeccanica del linguaggio sembra sovrapporsi alla fonosimbolica e alla fonosemantica.

Si, sicuramente. In Francia Luca Nobile ha scritto cose interessantissime sull’italiano e la sua simbolica. Per me però non è una simbolica ma è un vero e proprio gesto: come quando ad esempio in lingua segnata si fa il gesto per dire “partire”, in questo modo [fa il gesto – N.d.R.]. Questo gesto ha la particolarità di avvicinarsi il più possibile alla nozione che rappresenta, anche se non può mai raggiungerla. Da ciò deriva una arbitrarietà del segno solo parziale. Se il rapporto fra significante e significato fosse del tutto immotivato sarebbe impossibile parlare perché diventerebbe molto complicato ricordare le parole. Deve esserci qualcosa nel linguaggio che ricorda la nozione enunciata. A dimostrazione di quanto detto posso citare la lingua dei segni: le lingue segnate, quando vogliono inventare concetti, cercano qual è il gesto più vicino al significato, e così si stabilisce il legame tra gesto e nozione. Per questo la psicomeccanica del linguaggio dovrebbe approfondire le ricerche di Rizzolatti, andando a vedere, tramite la risonanza magnetica, come circola l’influsso nervoso nel cervello, ovvero analizzando l’attività linguistica nel suo procedere.

Si possono dunque stabilire rapporti molto stretti tra linguistica storica e psicomeccanica del linguaggio?

La linguistica secondo Saussure avrebbe dovuto scegliere la sua via fra sincronia e diacronia. Per noi questo è un errore, perché la lingua è un sistema sempre sincronico nonostante avvengano dei cambiamenti che fanno sì che il sistema si modifichi. La sincronia è l’evoluzione di tutto un sistema che poco a poco si modifica. La linguistica storica è alla base dalla psicomeccanica: gli studiosi di psicomeccanica vedono la diacronia come l’evoluzione della sincronia. La storia delle forme linguistiche ci mette qualche volta sulla via giusta per comprendere il meccanismo del linguaggio, perché permette di capire come esso funziona. Come ho mostrato nel mio intervento c’è un legame stretto tra la forma di una parola e la sua funzione. Ad esempio, il condizionale, che in italiano si forma sul passato remoto dell’ausiliare avere si basa invece sull’imperfetto in francese. Bisogna studiare la storia per capire come è stato costruita la parola, e spesso la costruzione mette sulla via del significato. Il francese ha molte sfumature nell’uso del condizionale che l’italiano non possiede. La storia ci permette spesso di trovare una spiegazione a questi fenomeni e di capire perché alle volte il bambino non ha ricostruito il meccanismo in maniera corretta.

Possiamo dire che la psicomeccanica porti alla luce dei meccanismi che vengono applicati dal parlate in maniera inconscia?

Sì. Il meccanismo inconscio è straordinario. Noi, insieme alle scimmie, siamo gli unici animali, come ha mostrato Rizzolatti, capaci, vedendo un gesto, di riprodurlo nel cervello, come se lo facessimo noi stessi. Questo avviene grazie ai neuroni specchio. Siamo in grado di capire che se trasmettiamo un suono, chi riceve questo suono riesce a ritrovare il modo in cui è stato prodotto, ovvero ritrova il gesto che lo ha generato, grazie ai neuroni specchio. Quando andiamo in un paese di cui non conosciamo la lingua, rimangono solo i gesti per comunicare: sono i gesti che trasmettono il significato e se parliamo e l’altro non capisce ciò accade perché non ritrova i gesti che abbiamo prodotto per emettere un suono. Poiché i significati – i concetti – e i significanti – i gesti – non sono legati da un rapporto del tutto immotivato, come ho detto. Possono comprendere solo coloro che sanno che quando facciamo un gesto di un certo tipo, producendo un determinato suono, questo è legato a un determinato significato. Tuttavia, anche se la parte motivata è molto importante, non raggiunge mai la nozione, perché il linguaggio allude sempre a altro. Diciamo «sedia» ma non c’è una sedia nella nostra testa, la sedia è sempre fuori. Ma l’arbitrario viene solo a completare la motivazione e non è alla base di tutto il linguaggio, come ha preteso Saussure: è, piuttosto, il complemento assolutamente necessario della motivazione. Le persone che nello stesso gruppo linguistico hanno visto e capito il legame che c’è tra il gesto articolatorio — che va incontro al significato — e il significato che le è attribuito, capiscono, gli altri no. Si tratta di meccanismi che si attuano spontaneamente. Il bambino cerca sempre di fare legami, di ricostruire il linguaggio. Ricordo che in francese mia figlia diceva la “carabane” facendo un legame tra “cabane” [capanna – N.d.R.] e “caravane” [caravana – N.d.R.]. Diceva «facciamo una carabane» per dire facciamo una capanna. E nel dirlo mescolava i due termini, perché il meccanismo linguistico non sempre funziona bene. Tuttavia, anche se gli adulti non correggono il bambino, egli lo fa autonomamente, perché vede che nessun adulto dice così. Il linguaggio si forma in questo modo, a piccoli passi. La psicomeccanica è in relazione con la filosofia del linguaggio, con la semiotica, con la riflessione sulla posizione dell’uomo di fronte al mondo. Invece le linguistiche di corpus, o le linguistiche specializzate sui risultati non hanno questa visione, perché non ne hanno bisogno per la loro ricerca. Esse non hanno bisogno di questa visione dell’uomo in mezzo al mondo e davanti a un’altra persona, con la quale deve comunicare. Per questo penso che la psicomeccanica del linguaggio sia destinata a un importante sviluppo.
In quanto vicepresidente dell’AIPL, vorrei concludere ringraziando L’Orientale e tutti gli organizzatori per l’accoglienza e il trattamento che abbiamo ricevuto: Alberto Manco e alcuni dei suoi collaboratori che in questi giorni e nei mesi scorsi lo hanno coadiuvato per l’organizzazione del convegno: Azzurra Mancini, Valentina Russo, Francesca De Rosa. E naturalmente vorrei ringraziare il Rettore, Lida Viganoni, la quale oltre ad aver reso possibile la realizzazione del convegno, ha messo a disposizione queste sale assolutamente magnifiche, con un paesaggio da sogno. Tutti in Francia conoscono il detto «voir Naples et mourir»!

Salvatore Chiarenza - Direttore: Alberto Manco

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