Intervista ad Antonino Pennisi

 

Intervista ad Antonino Pennisi

Antonio Pennisi

“Federico è certamente un grande linguista”

Professore Pennisi, chi è Federico Albano Leoni?

"Federico è certamente un grande linguista, uno dei pochi che ha saputo dare agli studi sul linguaggio una dimensione sperimentale per suffragare ipotesi teoriche avanzate e affascinanti. Naturalmente è anche un grande amico e un punto di riferimento per noi che – una volta – eravamo giovani."

Quali sono i punti di contatto tra il suo percorso e quello del professore Albano Leoni?

"Credo che ciò che ci accomuna di più è l’interesse per la dimensione naturalistica e sperimentale degli studi sul linguaggio e sulla mente. Anche se, naturalmente, utilizziamo strumenti di analisi e letterature differenti."

Che cos’è la filosofia del linguaggio?

"Bella domanda! Una volta non avrei avuto dubbi a dirle che la filosofia del linguaggio (ma, più in generale, le scienze del linguaggio) costituisse la disciplina egemone, il modello per tutte quante le scienze umane e naturali: ma dagli anni settanta in poi quasi tutto il panorama culturale novecentesco prima e, oggi, quello del nuovo millennio, è completamente cambiato. Non è un caso che molti di noi abbiano spostato il baricentro della propria ricerca verso le scienze cognitive. Naturalmente nell’approccio che noi abbiamo adottato nei confronti delle scienze cognitive il linguaggio rimane un elemento fondamentale, anzi, per quanto mi riguarda, costituisce il fondamente della specie-specifictà dell’intelligenza e della cognizine umana, come tutta la tradizione filosofico-linguistica da Saussure, a Chomsky a Wittgenstein, ma, prima di tutti loro, già da Aristotele era stato lucidamente preconizzato. Il motivo teorico che ha determinato, tuttavia, la fine della svolta linguistica e l’intrapresa di nuovi percorsi di indagine più legati al naturalismo scientifico e filosofico è la progressiva perdita di ogni attrattiva per le ipotesi neo-idealistiche sul linguaggio: la pretesa che tutti i problemi filosofici e scientifici non siano altro che problemi di linguaggio e che l’unica realtà possibile e conoscibile sia la realtà linguistica."

Come giudica il livello di studi in quest’ambito, in Italia?

"Molto alto. Sia la tradizione demauriana, sia quella analitica, sia quella di stampo semiotico mi sembrano nettamente superiori alla media della ricerca filosofica in Italia. Nelle nuove generazioni, poi, il trapasso dalla filosofia del linguaggio alla filosofia della mente e alle scienze cognitive mi sembra segua una traiettoria lineare e ben definita. Anche in questo caso possiamo parlare di punti di vista che si differenziano pur restando all’interno di una medesima prospettiva: gli studi sulla pragmatica, quelli tipici di filosofia della mente e quelli più orientati al naturalismo evoluzionistico ripercorrono divisioni già conosciute ma del tutto prive di quegli oltranzismi ideologici che, talvolta, hanno pesato in passato. Vedo, inoltre, affievolirsi i confini tra la ricerca che si svolge nel Nord o nel Sud d’Italia: la nuova filosofia del linguaggio (della mente e della natura) è del tutto unitaria."

Lei è stato Responsabile del gruppo di ricerca Filosofie della mente e patologie del linguaggio: teorie e prassi.

"Sì, parecchio tempo fa. Di fatto le ultime posizioni della mia ricerca e del gruppo che ho il piacere di coordinare ci spingono verso un approccio radicalmente scientifico-naturale alla filosofia del linguaggio e della mente. La prima conseguenza di tutto ciò è che la nostra attività deve nutrirsi delle ricerche più aggiornate: inseguire problemi e non raccontare storie significa adottare un’etica della ricerca scientifica che va al continuo inseguimento di ciò che può falsificare le proprie idee. E questo si può fare oggi solo con i dati empirici, la sperimentazione controllata e rigorosamente verificata nella letteratura scientifica che ogni giorno produce dati interessanti. Naturalmente restiamo filosofi e non è detto che tocchi a noi (ma non è neanche escluso lavorando in équipe come prescrivono le scienze cognitive) trovare i dati, ma certamente saperli utilizzare in maniera del tutto professionale e farli comprendere ad un più vasto pubblico questo certamente sì che è di nostra competenza. Ci siamo spesso accorti che se rispetti la scienza la scienza rispetta te. Credo che sia del tutto ingiustificato il complesso del mestiere del filosofo nell’epoca delle scienze e delle tecnologie. Anzi ci siamo spesso accorti che chi sprofonda nell’analisi tecnica – e grazie a Dio questo accade quotidianamente – produce una enorme mole di dati che andrebbe persa senza la sintesi filosofica. La filosofia, per questa via, può arrivare dove non è mai arrivata. O forse dove è sempre arrivata: se pensiamo ad Aristotele, a Cartesio, a Leibniz, e, praticamente, a tutta la filosofia precedente allo storicismo idealista, non si è mai posta una frattura tra scienza e filosofia."

Può parlarci brevemente delle ricerche che sta conducendo sulla percezione del linguaggio nella fase neonatale e post-natale?

"Anche qui bisogna distinguere tra l’archeologia cognitiva delle lingue mutole e i nuovi studi sulla formazione della corteccia uditiva e sulle sinergie udito-voce nell’animale uomo. Quei primi scritti erano come romanzi di cui oggi siamo in grado di ricostruire l’impalcatura scientifica. Forse può essere interessante sapere che allora come ora – e soprattutto ora – siamo in grado di toccare con mano diretta, studiando embrioni e neonati di varie specie, cosa vuol dire avere una struttura specie specifica pronta-per-il-linguaggio. Per esempio dopo decine di anni di studi sperimentali sulla neuro-fisiologia dell’udito siamo in grado di apprezzare l’evoluzione tecnica dagli uccelli, ai mammiferi, ai primati, all’uomo: un progressivo sistema che si stacca dalle produzioni olistico-analogiche per diventare sempre più analitico-digitali (differenze tonotopiche). Certo la filosofia (specie l’aristotelica e l’analitica cartesiana) aveva colto il nesso tra l’articolazione linguistica e la potenzialità tecnomorfa della cultura umana, ma, anche in questo caso, mancano tutti i passaggi che fanno diventare una favola una storia vera."

E di quelle sul linguaggio schizofrenico?

"Lei vuole brevi cenni sull’universo. Ho fondato la psicopatologia del linguaggio come disciplina accademica circa venti anni fa ed oggi ho bravi allievi che, per fortuna, hanno preso il mio posto: Valentina Cardella, per esempio si dedica a questi studi con grande entusiasmo. Se posso citare un solo dato significativo di questo genere di studi è che sono gli unici a resistere ad una prospettiva cognitivo-neuroscientifica. A tuttoggi sono praticamente nulle le correlazioni tra psicosi e danni cerebrali: come dice anche Plum e la Andreasen (tra i maggiori studiosi al mondo di questi problemi) la «neuropatologia è il cimitero della schizofrenia». Il fatto è che la modalità di esistenza degli schizofrenici è sostanzialmente denunciata da una semantica rigorosissima ma del tutto pragmaticamente spiazzata: non è sbagliata ma inadeguata, non è deficitaria ma eccessiva. E tutto questo il cervello dei malati – almeno sino ad oggi – non ce lo dice neppure se lo interroghiamo con gli strumenti di brain imaging più sofisticati. La schizofrenia è la malattia più linguisticamente fondata che esista."

Cos’è l’ALS?

"Una bellissima impresa scientifica sperimentale meritatamente giunta al successo per merito di Giovanni Ruffino, uno studioso militante di altri tempi ed un uomo onesto come pochi altri. Anche in questo caso non mi occupo più di Atlante Linguistico della Sicilia dai tempi in cui con Mari D’Agostino, tirammo fuori la sociolinguistica spaziale, che non tratta di un’avventura sulla luna ma di cartografia della variabilità diastratica, diamesica, diafasica e, soprattutto, spaziale, cioè geografica. Oggi, nel settore atlantistico, mi occupo di APIS (Agenzia per l’Immagine Siciliana), un’atlante della fotografia storica della Sicilia ed anche una palestra per i talenti dei più giovani fotografi della nostra terra."

Quali spunti di riflessione sono stati sollevati da lei e da Alessandra Falzone ne Il prezzo del linguaggio: evoluzione ed estinzione nelle scienze cognitive, volume del 2010 edito da Il Mulino?

"Ora siamo davver vicini al centro attuale degli interessi miei e del mio gruppo di lavoro! Abbiamo scritto questo libro utilizzando un metodo tipico delle scienze cognitive: confrontare ipotesi filosofiche e precise competenze scientifiche. Alessandra Falzone – ricercatrice di Filsofia del linguaggio – ha una formazione dottorale di Psicobiologia. Ha studiato quindi specificamente sia attraverso la più recente letteratura sull’afasia sia con metodologia sperimentale l’area di Broca. Da quelle ricerche, che hanno seppellito la vecchia immagine di un’area della vocalizzazione, esce fuori la configurazione dell’area di Broca come un neuroprocessore evolutivo che non solo è fondato sul linguaggio ma che è il crocevia di tutti i tipi di categorizzazione modale e inter-modale. In altre parole l’area di Broca non serve a articolare ma a categorizzare qualsiasi tipo di percezione che, nell’uomo, passa attraverso la codificazione linguistica. Abbiamo preso spunto da questo nuovo piano di riferimento scientifico, tuttavia, non per mitizzare o esaltare l’intelligenza linguistica, ma per, una volta tanto, valutarne i suoi risvolti contro-adattativi. In altre parole il linguaggio più che una risposta specie-specifica è una condanna specie-specifica, è una forma di intelligenza che sottopone automaticamente a parsing semantico, sintattico e articolatorio tutti i possibili modi di conoscere della nostra mente. Solo l’uomo dà un nome a tutte le cose. Anche altri primati sanno istituire rapporti fra nomi e cose, ma solo l’uomo è condannato a stendere una rete con strettissime maglie lessicali e sintattiche per riferirisi a tutti gli aspetti di tutte le cose. Certo un mezzo potentissimo, ma anche arido, rispetto ad altri approcci etologici. In qualunque caso il suo potere tecnomorfo ha accelerato i tempi evolutivi umani sino a portarci vicinissimi all’estinzione. Appunto il prezzo del linguaggio è l’estinzione umana che, nel libro, viene preconizzata senza mezzi termini. L’intento, tuttavia, non è catastrofista: vuole soprattutto invitare la filosofia ad essere più umile nei confronti della natura, deporre quella boria dei dotti e delle nazioni che Vico vedeva troppo spesso tracimare dalla presunzione umanistica e scientifica."

Quali sono i filosofi del linguaggio del passato che più l’hanno ispirata e quali invece, tra quelli contemporanei, apprezza in particolare?

"Non li definirei proprio filosofi del linguaggio, comunque: Aristotele, Vico, Cartesio e Darwin per il passato; Chomsky, Lieberman e De Mauro per il presente; le scienze cognitive e l’evoluzionismo come indirizzi per il futuro, ma fondati più sul lavoro di gruppo che non sul filosofo-eroe."

Cosa pensa del cosiddetto “innatismo”?

"Penso esattamente come l’evo-devo attuale del mio amico Minelli: solo le strutture sono innate, mai le funzioni. L’evoluzionismo studia le possibilità delle strutture. L’evo-devo la loro realizzazione in relazione ai limiti intrinseci delle strutture."

Ci sono delle corrispondenze tra il linguaggio umano e quello animale o delle macchine?

"Sarebbe troppo lungo da spiegare in dettaglio. Anche se in certe condizioni alcune specie animali possono capire l’uomo e viceversa, penso che la risposta giusta sia: no!"

Cosa sta scrivendo adesso?

"Sto pensando un libro sulla bio-politica. Non nel senso foucaultiano del termine, ma in quello strettamente darwiniano. Penso che tutto ciò che accade nella politica – sia quella piccola, sia quella grande e grandissima – come diceva ancora una volta Vico: «abbia piccciolissimi inizi». I grandi movimenti, le migrazioni, le strategie di espansione della popolazione, la mancata ritualizzazione dei combattimenti, le strutture sociali dei piccoli e grandi gruppi, i fenomeni di obbedienza e rassegnazione e quelli di rivolta e autonomia, persino fenomeni che sembrano localissimi come le mafie, i galoppinaggi, il clientelismo, etc. hanno tutti una radice naturale. La sociologia, l’etica e la storia come l’abbiamo conosciute sino ad oggi non servono più a nulla: chi spera di utilizzare i meccanismi di governo del mondo basato su una popolazione di centinaia di milioni in un mondo ormai avvviatosi al suo ottavo miliardo di abitanti è completamente fuori strada. Penso che la stessa idea di ingegneria sociale – comunque la si intenda – diventerà sempre più inapplicabile. E forse, anche, la nozione stessa di governo e governabilità."
 

Francesca De Rosa

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