Intervista ad Antonio Salvati

 

Intervista ad Antonio Salvati

Antonio Salvati

“Lavorerei volentieri all’estero, ma per appagare la mia curiosità sul modo di vivere degli altri, sui loro costumi e sulle loro tradizioni. Oltre questo, resto fiero del mio essere portatore sano di ‘italianità’ e di ‘meridionalismo’.”

Dottor Salvati, perché ha scelto il corso di laurea in Filosofia e come mai all’Orientale?

“Per anni ho coltivato (non troppo) segretamente la mia passione per la filosofia. Studi in pieno contrasto (ma solo apparentemente) con quelli che avevo scelto per il conseguimento del diploma (sono diplomato in Ragioneria). Così, dopo aver compiuto regolarmente il biennio in Economia aziendale alla Seconda Università degli Studi di Napoli, ho deciso di ‘rinunciare’ a questi studi per iniziare quello che maggiormente mi appassionava: la filosofia.
Perché l’Orientale? Il primo giorno che arrivai lì (era il 1995) c’erano tante ragazze nell’atrio di Palazzo Giusso. Decisi in un attimo.”

Come conosceva l'esistenza del nostro Ateneo?

“Già conoscevo l’Orientale perché mio zio Francesco vi si laureò in Lingue Straniere e spesso mi aveva parlato dell’aria ‘particolare’ che si respirava in quell’Ateneo. Così, insieme al mio amico di sempre Giuseppe Salzillo (laureato in filosofia, poi in psicologia, e oggi felice papà-psicologo a Milano) anch’egli fresco ‘ragioniere’ e col quale condividevo la passione per la filosofia, varcai il portone di Palazzo Corigliano e quando scesi giù, nell’aula dell’Antica scuderia, fui investito da un’aria umida, pesante, dal sapore stantìo. Avevo come l’impressione di essere avvolto da un’aria antica, una sorta di porta dimensionale (come scherzosamente soprannominammo quel ‘varco’). Ne rimasi folgorato. Immaginavo già le lezioni in quell’aula, con quell’aria.
Non sapevo ancora che la sede di Filosofia era all’ultimo piano del palazzo Anmig, in un solare (ma più asettico) appartamento alle spalle della Questura a cui si accedeva (dopo cinque piani a piedi) da via dei Fiorentini, proprio di fronte alla storica sezione del Pci napoletano (allora Pds).”

Oltre che alla Filosofia è interessato anche alle culture orientali?

“Qualche anno dopo la mia iscrizione incontrai quello che poi diventò (e per la mia gioia lo è tuttora e lo sarà per sempre) il mio maestro di vita.
Natale Musella è un maestro di Dzog-chen, allievo diretto del maestro Chgöyal Namkhay Norbu rinpoche (fondatore – sul monte Amiata – di Merigar, la comunità Dzog-chen istituita a Arcidosso in provincia di Grosseto e già professore di mongolo e di lingua e letteratura tibetana all’Istituto Universitario Orientale di Napoli) e del maestro, di tradizione bön, Geche Tenzin Wangyal allievo del lama Löpon Tenzin Namdak, fondatore della comunità Dzog-chen Yungdrung Bön.
Ricevuta l’iniziazione dal maestro radice, ho continuato a coltivare l’insegnamento nel mio cuore, cercando di integrarlo con l’esperienza che accumulavo. Questo percorso è stato corroborato però da robusti studi di filosofia orientale e di storia delle religioni e dall’apprendimento della lingua tibetana con la professoressa Giacomella Orofino.“

Che cosa ricorda della sua esperienza universitaria nel nostro Ateneo? Che cosa valuta, in modo particolare, come positivo?

“Quanti ricordi! Le corse a perdifiato da Palazzo Corigliano all’Anmig per seguire i corsi. Le ore di confronto-scontro tra noi matricole di Filosofia nei corridoi di quell’appartamento che sembrava tanto grande ma che alla fine era davvero minuscolo. Così piccolo che alla fine più di un professore era costretto a fermarsi per discutere con noi (proverbiale l’urlo lanciato dal professor Giulio Raio: «Qui mi si nega un’opinione!», durante uno dei nostri accesi dibattiti e la replica di un adirato professor Michele Fatica che uscendo dalla sua stanza e utilizzando la sua ben nota voce roca e profonda richiamò i presenti – Raio compreso – ad un comportamento più consono).
Ecco, quella era la mia Università, quella era l’Orientale: un luogo dove docenti e discenti erano in continuo confronto, un dialogo mai interrotto che continuava anche durante gli esami, intesi solo (non lo dico col senno di poi) come un momento di verifica di quello che si era meditato.
Ricordo ancora il mio esame col professor Alberto Postigliola, temuto (dagli aspiranti studiosi di Filosofia) professore di Storia della Filosofia e da noi soprannominato il ‘conte’. Era il 18 luglio del 1997 e faceva un caldo insopportabile (dimenticavo di dire che l’aria condizionata non ancora era stata installata all’Anmig). Erano le 13 in punto quando toccò a me sostenere l’esame con lui. Mi fece accomodare: contai dodici-domande-serrate (da Giordano Bruno ad Heidegger, passando da Kant a Husserl), un fuoco di fila che insieme al caldo per poco non mi fece svenire. Alla fine della dodicesima domanda mi guardò, sorrise e mi disse: «Adesso possiamo incominciare a fare l’esame». L’esame durò (giuro, ci sono testimoni) circa due ore con una sola pausa verso la fine quando Postigliola chiese congedo e si allontanò. Per fare una telefonata, disse. Quando ritornò capii che era andato nel bagno degli studenti per trovare sollievo sotto il rubinetto. Quell’esame finì con un trenta e lode: gli altri professori, quando lo vedevano sul libretto, non ci credevano.”

L'Orientale ha contribuito a darle un senso di apertura al mondo, e alle culture, contribuendo a sviluppare nella sua riflessione i temi del multiculturalismo e dell’interculturalità?

“Non so se sia stata l’Orientale a sviluppare la mia riflessione sull’integrazione delle culture o la mia passione sulle religioni e i costumi dei popoli. Non saprei dirlo. Vero è che all’Orientale ho appreso le basi per effettuare confronti, comparazioni e ho trovato sempre professori disponibili ad assecondare o frenare il mio ‘gigantismo intellettuale’.”

In effetti, vi sono tanti stimoli e possibilità di conoscenze nell’Ateneo che il laureato in Filosofia ne esce oggettivamente con una formazione diversa da quella del consueto laureato.
Si può dire, allora, che studiare Filosofia all’Orientale è qualcosa di diverso dallo studiarla altrove?

“Rispondo con un sì convinto, anche se si tratta di una risposta d’impeto. Ho studiato accademicamente la Filosofia solo all’Orientale e quindi il mio parere sarebbe un po’ troppo di parte. Una riflessione però posso farla, forte anche del confronto con altri studiosi di filosofia formati in altri atenei: quello che l’Orientale ha in più è l’insegnamento di docenti portatori di visione filosofiche scevre dal pregiudizio eurocentrico. Eurocentrismo e Orientale sono agli antipodi.”

Si respira la consapevolezza, come scriveva Jung nel commento psicologico al Libro tibetano della grande liberazione, che “non c’è conflitto tra religione e scienza, perché non esiste una scienza basata sull’amore per i fatti né una religione basata soltanto sulla fede; c’è una conoscenza religiosa e una religione conoscitiva.”
Quali sono i suoi filosofi preferiti? Quelli in cui lei si è maggiormente riconosciuto?

“Penso che sia una cosa comune a chi studia la filosofia: quando ti imbatti in un nuovo autore, la meccanica è (quasi) sempre la stessa. Alzi gli occhi dall’ultimo libro o dalla fotocopia bisunta che un amico-collega ti ha prestato ed esclami: «Ecco la verità, questo ha capito tutto. La penso come lui!». Poi gli anni passano, gli studi aumentano e comprendi che lungo la strada che porta alla verità si trova sempre ottima compagnia, ma che tu devi percorrere la strada e non farti portare in braccio da qualcun altro…”

Su quale tema ha fatto la tesi? L'argomento fu una sua scelta personale? L’ha interessato? Vi ha lavorato con passione?

“La mia tesi si intitola Giuseppe De Lorenzo, tra scienza e sapienza, la summa dei miei studi su questo personaggio (fu anche professore di Storia delle religioni, per un paio d’anni, all’Orientale) dal fascino indiscutibile ma dalla personalità così variegata da rendere impossibile qualsiasi catalogazione. Fu uno dei primi studiosi a far conoscere al largo pubblico, agli inizi del Novecento, il buddhismo primitivo, quello delle origini. Una sintesi talmente curata da essere valida ancora oggi. E non lo dico io, ma Raniero Gnoli, sanscritista e decano degli studiosi d’indianistica.
Una mia scelta? Macché! Non sapevo nemmeno chi fosse! Fu il professor Francesco De Sio Lazzari a ‘presentarmelo’ e a chiedermi di lavorarci. Non smetterò mai di ringraziarlo.”

Quali docenti, incontrati nel corso degli anni, la hanno maggiormente segnato in positivo? Quali ricorda più vivamente?

“Li ricordo tutti e di tutti potrei raccontare un aneddoto, anzi ci provo. L’odore delle sigarette del professor Giulio Raio, il volto pallido ma gli occhi fiammeggianti di Vincenzo Placella, il fascino di Anna Maria Rao, il sorriso di Maria Donzelli, la proverbiale pazienza di Francesco De Sio Lazzari, la paterna ironia di Mario Agrimi, i gesuiti di Giacomo Di Fiore e i socialisti di Luigi Parente, le amorevoli cure di Giuliana Scalera, i mantram di Mauro Bergonzi e spero di non aver dimenticato nessuno (non è vero). Un’indimenticabile galleria di figure.”

Quale il suo lavoro attuale?

“Sono giornalista professionista dal 2003 e dopo aver lavorato in diversi giornali campani sono approdato a La Stampa, il quotidiano nazionale per cui seguo le maggiori vicende di cronaca che hanno caratterizzato gli ultimi anni del Mezzogiorno d’Italia.”

Sta continuando a studiare? Che cosa?

“Sto lavorando ancora sul pensiero di Giuseppe De Lorenzo, per dimostrare la validità della sua proposta culturale e della sua visione ‘laica’ del buddhismo. Inoltre continuo i miei studi sulle culture, sulle lingue e sulle filosofie orientali.”

Se fosse possibile, andrebbe a lavorare all’estero o preferisce comunque restare in Italia?

“Lavorerei volentieri all’estero, ma per appagare la mia curiosità sul modo di vivere degli altri, sui loro costumi e sulle loro tradizioni. Oltre questo, resto fiero del mio essere portatore sano di ‘italianità’ e di ‘meridionalismo’.”

Francesco Messapi

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