Intervista al filosofo Aldo Masullo

 

Intervista al filosofo Aldo Masullo

Aldo Masullo

“Oggi dobbiamo pensare al detto di Hölderlin, ripreso poi da Heidegger: solo quel che ci può perdere ci può salvare

Professore Masullo, l’università “L’Orientale” ha promosso un ciclo di Giornate di studio con l’obiettivo di aprire una discussione sul problema di un mondo che va sempre più nel senso di una considerazione economicistica di ogni suo aspetto. Che cosa ne pensa?

“Ritengo che una istituzione universitaria non possa limitarsi a insegnare dottrine, saperi tecnici e conoscenze di certo molto utili alla vita quotidiana, ma debba contenere e intessere tutto questo in una rete di problematiche più ampie e aperte che spingano l’uomo oltre sé stesso. Senza questa spinta gli uomini rimangono semplici esseri di natura, anche se magari coltissimi”.

Crede che possa venirci un aiuto da quelle culture altre che poggiano su una visione della vita diversa dalla nostra? Penso alla filosofia buddista o allo zen.

“Non sono mai preso da vagheggiamenti nella ricerca e nella speranza che altro da quello che comunemente sappiamo di noi riesca ad aiutarci molto, però non posso negare che ciò che ci costituisce come esseri umani pieni è il nostro essere dei crocevia in cui molteplici strade si intersecano e ognuna di esse porta movimenti, attese, promesse, ricordi diversi da quelli degli altri. Solo a questa condizione, questo luogo di intersezione che è la nostra persona, può realizzarsi pienamente”.

Una delle espressioni chiave di questo progetto è “decolonizzare l’immaginario”. Questo probabilmente è il compito più difficile perché si dovrebbero sradicare quelle rappresentazioni simboliche che fanno parte ormai dei nostri modelli di comportamento. Da dove si può iniziare? L’Università è il luogo giusto, o bisogna andare ancora più indietro nei licei e nelle scuole?

“Credo che la cultura cominci a formarsi appena poco dopo la nascita, nel momento in cui, per la prima volta, una madre ci accosta al suo seno, ci fa sentire il tepore del latte, ci fa avvertire la dolcezza delle curve del suo seno, ci balbetta le prime parole, ci sorride e nel sorriderci insegna a noi a sorridere, e ci fa maturare continuamente in dialogo con qualcuno che ci sta intorno o con qualche altro che attendiamo di incontrare.
Ma credo che la funzione dell’università nella spinta dell’uomo oltre sé stesso sia di straordinaria importanza: quindi una Università che educhi e formi gli individui a essere soprattutto educatori di sé stessi e dei propri figli”.

Cambiamento, questo è ciò che ci si propone con il progetto Oasi. L’I Ching cinese ci dice che la via verso il cambiamento è fatta di piccole e costanti trasformazioni, la storia europea, invece, ci insegna le grandi rotture. Qual’ è per lei la strada da seguire?

“Se pensiamo alle singole esistenze non può non valere il principio del cambiamento passo per passo: nessuno diventa gigante da nano, ma tutti diventano giganti (se e quando lo diventano), crescendo lentamente.
Diversa è la condizione dei popoli, perché essi sono fatti di tanti individui e qui il cambiamento avviene quando la somma dei cambiamenti dei singoli è diventata così alta che l’intero sistema non regge più, crolla e si ha la rottura. Le due vie non sono alternative l’una all’altra ma sono complementari: non ci può essere cambiamento collettivo senza rotture, ma queste non possono non esserci perché segnano il punto di arrivo di una condizione di massa, la cosiddetta massa critica, che determina il cambiamento traumatico”.

Nei suoi libri scritti negli ultimi anni Zygmunt Bauman parla di una «vita liquida», caratterizzata da precarietà e incertezza e dove ogni frammento del mondo è divenuto un oggetto di consumo, aggiungendo che ciò che conta è la velocità per arrivare a questi oggetti e non la durata. È un’ analisi che si possa condividere?

“L’analisi di Bauman è molto più ricca di quanto si possa riassumere in queste poche battute e per di più non si può dire che la sua analisi complessiva sia certamente esauriente: la realtà è molto più complessa di quanto si possa tradurre nelle pagine di una ricerca sociologica sia pur di grandissimo livello come quella di Bauman.
Io condividerei questa analisi. Del resto essa non è neppure troppo originale se si pensa a quello che si è scritto e che tuttora si dice sulla nostra civiltà: la sua atomizzazione, il suo frantumarsi, il suo diventare sempre più fatta di piccoli brani, di piccole pietre come un muro che si sia sfaldato. Questo non è soltanto un’analisi sociologica più o meno severa ma è l’impressione che avverte ognuno che viva nel nostro tempo, e direi che forse è l’impressione che in ogni tempo è stata avvertita dagli uomini.
Noi siamo nel fiume che scorre, per riprendere la celebre immagine di Eraclito: se tutto scorre, se tutto è liquido e noi siamo in questo scorrere, è evidente che noi si abbia l’impressione che nulla sia certo e stabile, che nulla sia capace di reggere nelle sue strutture, che tutto vada alla rovina. Ecco, dunque, il senso della rovina è quello che Heidegger sottolineava nei suoi scritti giovanili come Ruinanz, “rovinosità”. Tutti viviamo la rovinosità: questo è di ogni tempo, appartiene alla vita dell’uomo che continuamente paragona il proprio desiderio di durare al disinganno che la realtà viceversa gli pone dinanzi. Ancor di più si avverte in epoche come la nostra in cui questo rovinio sembra che acceleri drammaticamente la sua velocità”.

Tutte queste considerazioni – del tipo di Baumann, tanto per intenderci – partono da una visione negativa del presente. Lei pensa di lasciare ai giovani un mondo migliore o peggiore di quello vissuto nella sua giovinezza?

“Per mia natura non sono né ottimista, né pessimista, e nemmeno esaltatore del passato o del futuro. Mi ritengo, piuttosto, criticamente realista: c’è sempre il drammatico conflitto tra il nostro bisogno di permanenza e l’inevitabile cambiamento delle cose che ci circondano. Quindi alla sua domanda si può rispondere solo dicendo che non vi è mai una qualità unica del mondo; questo è sempre un complesso di qualità positive o negative, alcune che sono divenute emergenti, altre che si sono dileguate, e in ogni caso il mondo è come un quadro molto complesso, incessantemente mutevole.
Si deve avere la forza di dire, di pensare e di educare i più giovani al fatto che il mondo ha sempre la forma che riusciamo a dargli con la nostra volontà e con il nostro coraggio: il coraggio di vivere. Questo coraggio bisogna a tutti i costi cercare di evitare che i giovani perdano, di fronte a difficoltà che appaiono sempre più grandi e insormontabili”.

Passando ora alla sua professione di filosofo Le chiedo: generalmente si dice che la filosofia sia riservata solo a una élite culturale, mentre “i molti” non ne capirebbero nulla. Questo atteggiamento è dovuto a chi non si sforza di comprendere o è la stessa filosofia che, nel corso dei secoli, ha specializzato fino all’estremo il proprio linguaggio?

“La filosofia non è una pertinenza esclusiva dei filosofi di professione perché essa non è altro (e proprio qui trova la sua ragione) che la cura che l’uomo ha della propria esistenza.
Non trascurarsi è il segno della filosoficità. La maggioranza degli uomini si distrae da sé stessa, diventando l’oggetto, la preda, l’occasione di eventi e di forze che stanno fuori e che finiscono per servirsi dell’uomo come di uno strumento, o comunque di un fruscello di cui prendersi gioco.
Dunque la filosofia è quel richiamo, che l’uomo prova in sé stesso, a riprendere cura del proprio essere, a cercare di capire di che cosa egli ha veramente bisogno e quali sono le condizioni perché possa intrecciare una relazione positiva con altri esseri umani, con il passato e quindi anche con il futuro.
Ritengo che la filosofia sia una potenzialità di fondo dell’essere umano e il fatto stesso che l'uomo, unico tra i viventi, esista comunicando da individuo a individuo e costruendo il proprio mondo attraverso la comunicazione delle istituzioni, della società e della scienza, sta ad attestare in lui una potenzialità che non può essere sequestrata nella pura e semplice naturalità, non può ridursi a quella che oggi si definisce la "mera vita".
L’uomo è sempre qualche cosa di più della mera vita; il problema sta nel vedere in che modo noi riusciamo a tessere la vita che va oltre la nostra nudità naturale”.

Nell’antichità esistevano generi filosofici oggi scomparsi, come le consolationes e le epistulae. A un certo punto la forma del trattato ha avuto la meglio ed è diventata dominante. Che cosa abbiamo perso con questo mutamento?

“Abbiamo perso parecchio da questo punto di vista.
Questo che Lei sta sottolineando è il progressivo insterilirsi del discorso filosofico che si fa colonizzare dal discorso di carattere strettamente scientifico: un discorso che, con una tecnica molto precisa, serve a illustrare, per esempio, un principio della fisica, un processo biologico, il funzionamento di un'istituzione; un discorso che si potrebbe dire "scolastico", perché la scienza è scuola, ricerca che si sviluppa nella collaborazione, e continuamente si alimenta con le domande che ci vengono dal nostro non sapere, e a cui si cerca di dare le risposte che arricchiscano il sapere di ognuno.
La filosofia è qualche cosa di diverso, di più complesso, e anche di più fondamentale e profondo perché, come ci hanno insegnato i primi grandi maestri tra cui Platone, non consiste nella "prima navigazione", cioè nella ricerca della conoscenza degli oggetti e del mondo oggettivo. La filosofia è piuttosto la "seconda navigazione", cioè quel tentativo più arduo e più fruttifero, ma anche più avventuroso, che noi abbiamo il coraggio di intraprendere quando non ci accontentiamo di conoscere ciò che ci circonda ma cerchiamo di conoscere noi stessi.
Questo significa anche che la forma del discorso filosofico non può ridursi al trattato, ma vive nella dialettica, nel dialogo: le più grandi forme di filosofia sono state dialogiche. Basti pensare a Platone, a Bruno, a Leopardi”.

La filosofia antica, come i dialoghi di Platone, mirava più a formare che a informare. Crede che oggi la filosofia abbia mantenuto questa capacità?

“Non so se di fatto abbia mantenuto questa capacità, però in linea di principio sì. Non so se oggi si sia capaci di dialogare e di educare come Platone si proponeva di fare, ma dico che, se non c’è questo, non c’è la filosofia, ma allora non c’è neppure una umanità capace di diventare "adulta", cioè pienamente se stessa”.

Infine una domanda sul momento difficile e complesso che la cultura vive in questi ultimi anni. Lei intravede una via d’uscita positiva? La figura del filosofo potrebbe esercitare un ruolo decisivo?

“Non credo nelle trasformazioni magiche o negli uomini della provvidenza, anche se si tratti del campo della cultura. Credo piuttosto che l’umanità abbia dentro di sé risorse così profonde e ricche che, nonostante la devastazione che oggi sembra minacciarci, alla fine non possano non venire alla luce, sia negl'individui che nei popoli. È così che l’uomo si risolleva. Pensiamo al detto di Hölderlin, ripreso poi da Heidegger, che "solo quel che ci può perdere, ci può salvare", o molto più veracemente a Gian Battista Vico, per il quale i popoli, quando sono giunti al punto più basso della propria decadenza, sono respinti verso l’alto e incominciano a ricostruire la trama della loro umanità e del loro esser civili”.
 

Aniello Fioccola

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