Intervista a Federico Albano Leoni
Intervista a Federico Albano Leoni
“Il 25 febbraio a Napoli si riunisce una parte importante di miei compagni di strada”
Professore Albano Leoni, nei prossimi giorni sarà a Napoli per una Giornata di studi a lei dedicata. Come ha accolto questa iniziativa e cosa la lega agli ospiti che interverranno?
“Beh, questa iniziativa mi ha fatto un grandissimo piacere e la considero un grande onore: le organizzatrici e gli oratori sono tutte persone alle quali sono legato da vincoli di amicizia, anche molto antichi, e di gratitudine per tutto quello che da loro ho imparato. Il 25 febbraio a Napoli si riunisce una parte importante di miei compagni di strada.”
Lei è stato a lungo ordinario di Glottologia presso la Federico II di Napoli, e attualmente è alla Sapienza di Roma. La Giornata di studi è stata organizzata dai due atenei napoletani: la Federico II e l’Orientale. Quali sono i suoi rapporti con queste istituzioni e con i docenti che vi insegnano?
“Ho insegnato alla Federico II dal 1974 al 2005, che è una bella tranche de vie. Sono stato profondamente integrato, non solo nella mia Facoltà, ma nell’intero Ateneo, come docente, come amministratore, come organizzatore di strutture interdipartimentali e sono onorato di poter dire di essere stato amico di Rettori eminenti, come Carlo Ciliberto, Fulvio Tessitore, Guido Trombetti e di Presidi, come Giuseppe Galasso, ancora Fulvio Tessitore, Giovanni Polara, Nino Salvatore, Lorenzo Mangoni, Oreste Greco, di essermi sentito a casa mia anche in settori importanti di Scienze, Ingegneria, Agraria, Medicina. Inoltre, non ho mai sentito traccia della rivalità tra l’Orientale e la Federico II, della quale a volte si parlava e che forse da qualche parte sussisteva. E non solo sono stato in rapporti cordiali o di amicizia con molti Rettori, da Gherardo Gnoli a Luciano Zagari, a Biagio de Giovanni, a Nullo Minissi, a Adriano Rossi, a Domenico Silvestri, a Mario Agrimi, ma profondissimi e sempre amichevoli sono stati i rapporti con la scuola linguistica dell’Orientale, e dunque con Domenico Silvestri e Cristina Vallini, con Giorgio Banti e Maurizio Gnerre, per non dire dei progetti comuni e delle avventure scientifiche e organizzative con i ‘fonetisti’ Donatella Locchi, Antonella Giannini e Massimo Pettorino. Del resto le organizzatrici, delle quali sono fiero di aver potuto seguire gli studi e le carriere, almeno nelle fasi iniziali, si ripartiscono tra Federico II e Orientale. Per me i due Atenei che ci ospitano il 25 febbraio sono sempre stati una grande ed affascinante comunità di studio.”
Uno degli aspetti della sua ricerca di cui è più fiero, tra quelli che le ha riservato maggiori soddisfazioni?
“Chi fa ricerca è il giudice migliore e più severo di se stesso e quindi tende a essere più insoddisfatto che fiero, e così è anche per me: penso sempre che tutto quello che ho fatto avrebbe potuto essere fatto molto meglio e che a volte avrei fatto meglio a non farlo. Questo è vero per ogni ricerca pura e particolarmente vero per la ricerca nelle scienze umane, dove un risultato non è buono in sé, ma lo è se suscita altre idee e se è raccolto da altri per andare avanti.”
Lei è stato allievo di Antonino Pagliaro. Vuole raccontare un ricordo...
“Antonino Pagliaro era un uomo distante, che incuteva soggezione e timore, distaccato, come disse De Mauro nel commemorarlo nel 1973, che non consentiva di abbassare la guardia. Tuttavia una volta mi guardò con aria divertita. Io mi ero laureato con lui (ma in effetti ero stato seguito da De Mauro) con una tesi di comparazione tra certe espressioni formulari in Omero e nei Veda e il giorno dopo la discussione (mi pare il 4 luglio del 1964) partii in autostop per l’India e da Benares gli mandai una cartolina. Quando tornai lo andai a trovare e lui mi guardò con un suo sorriso ironico, appena accennato, quasi interiore, e mi disse «Ah, sei stato in India» e poi cambiò discorso parlandomi di una borsa di studio che stava per farmi avere.”
Un consiglio del suo maestro/dei suoi maestri del quale non avrebbe potuto fare a meno e che ha seguito.
“Consigli nel senso in cui si legge per esempio nelle fiabe dei Grimm, quando un qualche anziano saggio istruisce un giovane per affrontare la vita o superare un ostacolo, non ne ho mai avuti. Sia Pagliaro, sia De Mauro mi esortavano ovviamente a studiare. Mi esortavano a studiare anche altre filologie, oltre a quella classica, da cui provenivo. E così studiai filologia slava e soprattutto filologia germanica, che poi ho insegnato per molti anni.”
E il consiglio che non ha seguito?
"Non ho studiato abbastanza.”
Quale consiglio darebbe ad un giovane interessato agli studi linguistici in un momento in cui le scienze umane faticano a veder riconosciuto il ruolo che spetta loro nella formazione dell'individuo così come nella sua spendibilità nel mondo del lavoro?
“Gli direi anche io di studiare molto e bene e di non scoraggiarsi perché chi ha una preparazione di base solida è anche un intellettuale versatile. Molte delle mie allieve napoletane vengono dalla filologia classica, eppure hanno fatto tesi di laurea e di dottorato in fonetica sperimentale di livello eccellente. Certo, è anche vero che i tempi sono particolarmente difficili, ma le scienze del linguaggio sono, come si dice, trasversali e dunque il loro studio apre forse qualche prospettiva di futuro in più.”
La Giornata di studi raccoglierà riflessioni riguardanti molteplici dimensioni della ricerca linguistica. Pensa che oggi sia ancora possibile aspirare ad essere un linguista completo, ossia arrivare ad una visione d'insieme senza perdere di vista la profondità dei singoli fenomeni?
“Penso proprio di sì. È vero che oggi le specializzazioni sono tante e divergenti e si può studiare, non solo legittimamente ma anche con grande utilità per il progresso delle scienze del linguaggio, la statistica linguistica, la fonetica sperimentale, o la tipologia linguistica o la storia comparata delle lingue semitiche e così via, e questa è una grande ricchezza che va salvaguardata e potenziata. È anche vero che chi controlla uno di questi àmbiti difficilmente è in grado di padroneggiare gli altri o anche solo uno degli altri. Ma il problema non è quello del controllo di tutto l’universo delle scienze del linguaggio da parte di tutti in uguale misura, obiettivo certamente irraggiungibile e, credo, anche inutile. Il problema è invece quello della consapevole ricerca degli aspetti generali, quale che sia il punto di partenza, di ciò che rende le lingue, ciascuna lingua, strumenti primari della cognizione umana, e questo è un obiettivo che si può perseguire anche studiando una sola lingua o un suo aspetto particolare. Voglio dire che la visione d’insieme si può raggiungere perché essa non è la somma aritmetica dei dettagli di tutte le lingue, ma è il tendere a capire in che modo le lingue, e ciascuna lingua, siano strumenti attraverso i quali noi umani rappresentiamo il mondo, produciamo e capiamo sensi.”
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni hanno condizionato gli studi linguistici consentendo l'esplorazione di nuovi settori grazie a nuove e sempre più sofisticate strumentazioni, ampliando i confini della ricerca e della diffusione del sapere.
D'altro canto, l'ampliarsi dei confini di studio è andato di pari passo con una sempre maggiore specializzazione e concentrazione dell'indagine su fenomeni linguistici puntuali e circoscritti.
Cosa deve fare un giovane linguista per non rischiare di restare ancorato al dato particolare?
“Per risponderle valgono in parte gli argomenti della risposta precedente. Aggiungerei che mi sembra di cruciale importanza che uno studioso, giovane o maturo, o anche vecchio, quale che sia la sua specializzazione, dedichi molto tempo allo studio diretto dei grandi classici del pensiero linguistico, dai Greci ai giorni nostri. E magari anche qualche classico del pensiero non direttamente linguistico. I miei maestri Antonino Pagliaro e Tullio De Mauro hanno mostrato come sia prezioso studiare il pensiero, per esempio, dei filosofi presocratici o di Aristotele o di Locke, o di Vico o di Wittgenstein. Si scopre così che le questioni che contano sono poche e sono sempre le stesse e ruotano tutte intorno al rapporto tra lingua e realtà, tra lingua e pensiero, tra lingua e conoscenza (o, come si dice oggi, cognizione). Si scopre così che una teoria linguistica degna di questo nome è in fondo una teoria della conoscenza. Quando gli studi particolari, cioè le descrizioni di fenomeni linguistici, condotte con le tecniche proprie e irrinunciabili di queste discipline, affondano in questo terreno sono molto fruttuosi.”
Quanto conta una solida formazione in linguistica storica nel profilo del linguista contemporaneo?
“Conta moltissimo. Non solo perché ci insegna a vedere relazioni tra lingue apparentemente lontane o a scoprire meccanismi di cambiamento ma anche, e soprattutto, perché insegna a vedere e capire la perenne instabilità delle lingue nel tempo e nelle masse parlanti, per ricordare Saussure. Ciò naturalmente a condizione che la linguistica storica non sia vista solo come l’applicazione di una serie di leggi fonetiche o di meccaniche trasformazioni morfologiche e coì via (che pure bisogna conoscere), ma sia vista come lo strumento per la comprensione di come le comunità linguistiche trasformano gli strumenti per la rappresentazione della loro conoscenza del mondo.”
Lei ha diretto dal 1990 al 2005 un Centro interdipartimentale di ricerche fonetiche presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II ed è stato responsabile di progetti nazionali di ricerca sull’italiano parlato. Quale era lo stato degli studi fonetici in Italia, all’epoca?
“La fonetica in Italia non ha mai avuto statuto solido: la sua presenza è sporadica sul piano didattico (e in gran parte dipendente dalle inclinazioni personali dei docenti di linguistica), per lo più limitata a rudimenti di fonetica articolatoria e di trascrizione, e non è parte stabile di curricula; sono rari i casi in cui profili scientifici di fonetisti siano stati apprezzati dalle commissioni giudicatrici di concorso. Non migliore è la situazione sul versante scientifico-tecnologico: fisici e ingegneri che si dedicano alle tecnologie della voce fanno poca carriera. Tuttavia, dalla fine degli Ottanta del Novecento, le cose sono in parte cambiate. Nel 1988 si costituì, per iniziativa di Franco Ferrero, il G(ruppo) di F(onetica) S(perimentale) in seno all’A(ssociazione) I(taliana) di A(custica). Si aprì cosi una stagione di grande vivacità e di crescita. Ai congressi dell’AIA e del GFS i fonetisti di formazione linguistica incontravano ricercatori e tecnici della Fondazione Ugo Bordoni (FUB) di Roma, dell’Olivetti, dell’IBM, del Centro Studi e Laboratori Telecomunicazioni (CSELT) di Torino, dell’ALCATEL FACE, dell’Istituto per la Ricerca Scientifica e Tecnologica (IRST) di Trento, dell’Istituto Superiore Poste e Telecomunicazioni (ISPT), e con questi si confrontavano: da loro apprendevano tecniche e protocolli di analisi; a loro mostravano, o almeno cercavamo di mostrare, come le lingue fossero oggetti complessi, non sempre riducibili alla serenità di una rappresentazione binaria. La fonetica italiana ne uscì trasformata e svecchiata: il GFS fu la palestra nella quale si sono formati, direttamente o indirettamente, i quadri attuali degli studi sulla voce e sul parlato (attivi oggi prevalentemente nell’Associazione Italiana per gli Studi sulla Voce e nel Gruppo di tudio sulla Comunicazione Parlata). L’altro momento saliente nella storia che sto rievocando fu la costituzione, pure negli anni Novanta, del primo gruppo di lavoro sul Trattamento Automatico delle Lingue (TAL), voluto e animato da Antonio Zampolli, uno dei pochi linguisti italiani che univa straordinarie capacità organizzative e manageriali a una lucida visione dell’importanza del trasferimento dei risultati della ricerca nelle applicazioni, come mostrava l’esperienza dei paesi più avanzati, dove questo trasferimento costituisce un elemento portante e strategico. In quel contesto si costituì e si sviluppò il Centro Interdipartimentale di Ricerca per l’Analisi e la Sintesi dei Segnali (CIRASS) dell’Università di Napoli “Federico II”, che nacque formalmente il 1 gennaio 1990, grazie alla collaborazione di un piccolo gruppo di linguisti, fisici, audiologi e poi anche di ingegneri. Il CIRASS, che sarebbe stato dieci anni dopo l’attuatore del progetto CLIPS, nasceva dunque su una ipotesi di fonetica multidisciplinare, si ispirava a centri italiani ed europei, ed era dunque lo specchio delle tendenze di quel periodo.
Le cose non sono poi andate benissimo. Forse in conseguenza di una divisione del lavoro internazionale, per la quale all’Italia non toccava sviluppare tecnologie nel settore della voce, l’incipiente collaborazione scientifica tra università, centri di ricerca e imprese fu progressivamente ridimensionata: chiusero in rapida successione le divisioni e i centri studi della Olivetti (che uscì definitivamente di scena), dell’IBM, e dell’Alcatel Face (che furono trasferiti all’estero); quelli che rimasero, ad eccezione della società Loquendo, si ripiegarono su se stessi, preoccupati per la propria sopravvivenza più che proiettati in avanti. Il TAL di conseguenza si rivelò un’impresa disperata in Italia perché l’idea moderna che lo aveva animato dovette confrontarsi con l’ambiente di casa nostra, dove la scienza è spesso separata (ma forse in questo caso non lo era), l’imprenditoria è timida (e preferisce al rischio e all’investimento il bagnomaria delle provvidenze statali), una politica razionale di sostegno alla ricerca è assente.
Malgrado ciò, penso che per la fonetica italiana gli anni Novanta abbiano rappresentato una svolta positiva i cui effetti durano ancora. Dal 1995 si costituì una rete informale tra studiosi di varie università, soprattutto di Pisa (Normale e Università) e di Napoli (Federico II e Orientale), e poi di Salerno (i cui quadri tuttavia si erano tutti formati a Napoli) che dette vita a numerosi e importanti progetti finanziati dal MIUR (soprattutto i progetti detti API, AVIP, CLIPS, Parlaritaliano).
Da questi progetti felicemente portati a termine uscirono, oltre ai corpora AVIP e API (raccolti in dvd) e CLIPS (in rete), pubblicazioni scientifiche, libri, atti di congressi, tesi di laurea e di dottorato. Questi progetti furono inoltre il luogo della formazione di giovani studiosi: per molti rappresentarono il percorso formativo fondamentale, per alcuni, purtroppo pochi, il percorso si concluse con l’inserimento nell’università.
Dunque, ricapitolando, nel corso degli anni Novanta era accaduto che: a) grazie alla frequentazione degli ambienti TAL e GFS, avevamo imparato a ragionare anche in termini di applicazioni della ricerca fonetica e linguistica; b) grazie alla esperienza maturata durante i progetti PRIN avevamo imparato a organizzare risorse linguistiche, in particolare corpora di italiano parlato, e a mettere a punto gli strumenti di supporto; c) ultimo, ma non minore, avevamo imparato a lavorare in gruppi di competenza mista e a parlare, noi linguisti, con fisici, con informatici, con ingegneri e, in qualche misura, a capirli e a farci capire. Sono questi i tre punti che caratterizzano la fonetica moderna nel mondo.”
Tra i molteplici interessi in ambito linguistico, la sua attenzione si è spesso concentrata sulla dimensione sonora della lingua e, in particolare, sui suoi aspetti percettivi: uno degli ambiti meno studiati e non soltanto per mancanza di strumenti d’indagine adeguati. Qual è lo stato attuale degli studi in ambito fonetico e, in particolare, di fonetica percettiva in Italia?
“La fonetica percettiva è trascurata dai linguisti, non solo in Italia, come in genere trascurato è il punto di vista del ricevente. Anche nella vicenda che ho raccontato prima, di fonetica percettiva ce n’era poco o niente. Ma questo è un problema generale della linguistica, che è tutta sbilanciata verso il parlante o verso il testo a scapito del ricevente. Uno dei motivi, forse il principale, di questa asimmetria risiede nella profonda differenza tra il parlare e l'udire: il primo è in gran parte esterno, visibile, percepibile e autopercepibile; il secondo è interiore, invisibile, sfuggente. Posso vedere chi parla (anche se non sento quello che dice), ma non posso vedere l'ascolto; posso osservare e percepire alcuni movimenti del mio apparato fonatorio (laringe, bocca, lingua, labbra), ma non posso vedere o percepire i movimenti dell’apparato uditivo (timpano, ossicini, perilinfa, membrana basilare ecc.) mio o dei miei interlocutori. Studiare il parlante e il parlato è (o sembra) più facile che studiare l’ascoltatore e l’ascolto. Naturalmente nessuno può pensare che i linguisti debbano occuparsi obbligatoriamente anche dell’udito o dell’ascolto o del ricevente, ma non si può non osservare una preferenza, domandarsi quali ne siano le ragioni e quali ne siano gli effetti sulle nostre conoscenze. Un motivo di questa preferenza è certamente il fatto che la rappresentazione scritta della lingua, oggetto di studio obbligato in passato e prevalente ancora oggi, valorizza e stabilizza il prodotto, il testo, ma non induce a studiare la ricezione uditiva. Un secondo motivo, anche importante, è dato dalla natura interiore e invisibile della percezione, che richiede tecniche e metodi di osservazione, elicitazione e studio che la linguistica ritiene estranei ai suoi apparati. In fonetica questa preferenza si manifesta in maniera molto chiara nel predominio della descrizione articolatoria (cioè del produttore) finalizzata alla descrizione e alla trascrizione del prodotto (cioè del testo). A partire dai primi decenni del Novecento è andato diffondendosi lo studio del versante acustico del messaggio. Insomma, nella ricerca linguistica l’udito e il ricevente sono spesso trascurati perché in passato erano considerati argomenti propri dei filosofi e oggi sono considerati argomenti degli psicologi o di quanti si occupano della fisiologia della percezione.”
In una delle sue ultime pubblicazioni, Dei suoni e dei sensi (Il Mulino, 2009), parla di alcune importanti questioni che hanno caratterizzato parte della linguistica degli ultimi decenni: la “reticenza delle teorie a misurarsi con i fenomeni”; lo “squilibrio” tra le teorie e le pratiche linguistiche; il carattere “autoreferenziale” di alcune “architetture fonologiche che, nella loro eleganza, appaiono indifferenti al problema del significato”. Quanto hanno inciso nella storia del pensiero linguistico del secolo scorso questi elementi?
“A me sembra che le grandi correnti di pensiero linguistico del Novecento, cioè lo strutturalismo e il generativismo, abbiano avuto una importante caratteristica comune: quella di espungere dal loro orizzonte tanto i parlanti, visti nella loro materialità psicofisica e nelle loro determinazioni storiche geografiche sociali ecc., quanto il mondo, nel senso della Umwelt, cioè della scena condivisa nella quale si attuano le interazioni significative degli umani alla quale queste si riferiscono e ne sono in parte determinate. L’attività linguistica umana, che si realizza in questa Umwelt condivisa, è volta esclusivamente alla generazione e alla interpretazione di sensi e di significati. La lingua, come diceva Benveniste, è il dominio del senso e, aggiungerei io seguendo Karl Bühler, questo senso risulta sempre dall’intreccio tra una dimensione simbolica e una dimensione latamente deittica. Di conseguenza, ogni indagine linguistica (fonologica o morfologica o sintattica o altro) dovrebbe sempre avere sullo sfondo questo aspetto centrale e porsi una domanda: in che modo ciò che sto descrivendo concorre alla generazione di sensi e alla loro interpretazione? Del resto questo è il punto di vista che, attraverso il primato della significazione, cioè del processo della generazione e della interpretazione dei sensi, consente di superare gli steccati, che molta linguistica continua ad erigere, tra ciò che è linguistico e ciò che si considera paralinguistico. Infatti, se si accetta che le lingue siano non solo sistemi simbolici ma anche, e in pari misura, sistemi indicali, è possibile riappropriarsi, in quanto linguisti, della potenza semiotica della prosodia e della voce.
Questo non sempre accade e spesso, mi sembra, l’attenzione degli studiosi è volta più alla eleganza dell’architettura del loro modello o della loro descrizione che alla loro capacità esplicativa.”
In un altro passo parla di “dicotomie sbilanciate” in riferimento ad alcune “asimmetrie concettuali” che hanno caratterizzato gli studi linguistici nel secolo scorso, non in senso positivo. Ce ne parli.
“Nel libro ricordato ho cercato di richiamare l’attenzione sul fatto che la linguistica, specialmente del Novecento, ha tematizzato alcune dicotomie, alcune di matrice saussuriana: langue/parole, signifiant/signifié, parlante/ascoltatore, e nel trattarne ha sempre nettamente privilegiato il primo termine di ogni coppia. Cosa hanno in comune i termini perdenti? Una risposta è probabilmente l’osservazione che la linguistica, almeno a partire dall’Ottocento, ha scelto la via che andava verso una rappresentazione esclusivamente discreta dei fenomeni. E infatti la langue e il significante sembravano, forse però a torto, più facilmente rappresentabili per mezzo di categorie discrete di quanto non fossero la parole e il significato con i loro ineludibili richiami alla soggettività e alla mente del parlante/ascoltatore; e analogamente il parlante e la sua attività sembravano offrirsi all’osservazione meglio dell’ascoltatore che in quanto tale non può essere indagato se non con le tecniche introspettive della psicologia. Ma mi sembra che oggi ci siano segni importanti di una inversione di tendenza, se solo si pensa allo spazio che hanno oggi le riflessioni sul soggetto parlante, o gli studi sul parlato, che è il dominio della parole.”
Da questo punto di vista, pare che si abbandonino lentamente i vecchi paradigmi mentre si cercano nuove strade. Secondo lei è possibile suggerire un percorso?
“Non ho percorsi da suggerire: sarebbe temerario e anche sciocco. I suggerimenti vengono invece dalle configurazioni che assumono i paradigmi scientifici generali. Oggi, mi sembra, la linguistica sta imparando a collaborare con una costellazione di discipline che, come lei, studiano le forme della conoscenza umana e della sua rappresentazione e alle quali porta la sua irrinunciabile capacità di descrizione dei fenomeni linguistici.”
Azzurra Mancini