Intervista a Marco Mancini
Intervista a Marco Mancini
“Se c’è un consiglio che ho seguito è quello di avere sempre spirito critico nei confronti di tutte le cose…”
Professor Mancini, lei di recente è stato a Napoli per un giornata di studi con Federico Albano Leoni. Ci potrebbe dire quali sono i punti di contatto tra il suo percorso e quello del professor Albano Leoni?
“La prima cosa è che, seppur in anni diversi, entrambi veniamo dalla stessa scuola visto che Federico è stato un allievo di Antonino Pagliaro ed io sono un allievo di un allievo di Pagliaro. Se lui quindi è da considerarsi il ‘figlio’ di Antonino Pagliaro, io sono un po’ da considerare come il ‘nipote’. Da questo punto di vista, certamente abbiamo una comunanza nelle radici.”
Un elemento di vicinanza ed uno di divergenza tra lei e il professore Albano Leoni: concezioni, approcci, metodi, prospettive.
“Sicuramente un aspetto di prossimità è dato dalla comune sensibilità per le tematiche di natura storico-culturale.
Un motivo di distanza è nel fatto che lui, oggi come oggi, pratica un settore nel quale io personalmente non sono particolarmente coinvolto: quello della fonetica, tra l’altro con un’impostazione molto innovativa anche anti-strutturale.
Questo, un poco, marca la distanza tra di noi anche perché io non mi considero affatto un fonetista. Inoltre in lui è presente un’impostazione germanistica che io ho coltivato poco.”
Ci vuole raccontare un ricordo, un aneddoto o eredità di un suo maestro?
“Il mio maestro è stato, come dicevo prima, un allievo di Pagliaro cioè Walter Belardi che tra l’altro ha insegnato molto a lungo all’Orientale.
Gli aneddoti che potrei raccontar sono centinaia poiché trattandosi di un maestro restano tutti quanti impressi.
Ce n’è uno molto divertente però che mi ricorderò sempre e che mi insegnò tantissimo: un giorno lui venne e fu la prima volta che volle insegnare a noi allievi come si faceva la linguistica medio-persiana, un settore di una difficoltà che è difficile solo immaginare.
Di allora due cose mi rimasero impresse: la prima è che lui ci mise davanti i testi, dei quali non capivamo assolutamente nulla, la seconda è che li cominciò a leggere e, come farebbe un chirurgo in una lezione di anatomia, ci disse cosa stava facendo mentre li analizzava. Posso garantire che fu un modo di imparare straordinario.
Un altro aneddoto connesso con questo e tipico della figura di Belardi, che non aveva nessuna pietà e nessuna considerazione per l’aspetto psicologico e la fatica dello studio, fu che per imparare il medio-persiano ci disse che dovevamo imparare l’aramaico, una lingua semitica fuori dall’orizzonte della nostra formazione indoeuropeistica.
Così il venerdì ci portò un manualetto di aramaico, lo ricordo ancora era Syrische Grammatik di Brockelmann, e ci disse «venite lunedì così ci leggiamo insieme qualche passo del Vangelo di Marco».
Così quel fine settimana mi toccò di imparare l’aramaico e questo, devo dire, fu una buona scuola sicuramente.”
C’è un consiglio del suo maestro del quale non avrebbe potuto fare a meno e che ha seguito? E un consiglio che non ha seguito?
“Dunque ce n’è uno che ho seguito e uno che non ho seguito. Quello che ho seguito si tratta di avere sempre lo spirito critico nei confronti di tutte le cose che io leggessi, cioè di non appiattirmi mai sulle posizioni che sono proposte proposte dalla bibliografia di riferimento, e di conseguenza non farsi inghiottire dalla medesima bibliografia di riferimento, ma cercare sempre una via originale: se uno non ha una via originale allora è meglio allora che non scriva.
Il consiglio che non ho affatto seguito era di non praticare le cariche accademiche: ma essendo ora rettore, si può ben vedere come non sia stato aderente a questo. Però il mio maestro mi perdonò e me lo disse pure.”
Quale consiglio darebbe ad un giovane interessato agli studi linguistici in un momento in cui le scienze umane faticano a veder riconosciuto il ruolo che spetta loro nella formazione dell'individuo così come nella sua spendibilità nel mondo del lavoro?
“Domanda alla quale anche la mia carica istituzionale mi porta a rispondere con grande attenzione.
Io direi che considerato il rischio e la responsabilità che ci si assume una volta che si percorre eventualmente la strada degli studi umanistici, soprattutto se specialistici e quindi ancor meno spendibili sul mondo del lavoro, la cosa migliore è esserne assolutamente persuasi e convinti di volerlo fare. Se c’è un minimo dubbio, invece, credo sia meglio derogare a quest’impegno perché, alla fine, uno pagherebbe duramente restando infelice e non gratificato dal suo percorso, che è forse la cosa peggiore che possa accadere nella propria vita.”
Pensa che oggi sia possibile arrivare ad essere un linguista completo così da avere ad una visione d’insieme senza perdere di vista la profondità dei singoli fenomeni?
“Bisognerebbe, però per lo più non è così ed è colpa nostra, colpa di chi insegna, non certo colpa di chi apprende.
Secondo me, oggi come oggi, la visione che Eugenio Coseriu chiamava la ‘linguistica integrale’ mi pare ormai sparita dall’orizzonte. Questo è male, nel senso che un linguista in senso pieno dovrebbe avere piena competenza di quelle che sono tutte quante le prospettive, e sono pressoché infinite me ne rendo conto, che il prisma linguistico, sfruttando una vecchia metafora di Humboldt, può dare.
Però non è così e lo specialismo prevale, anche perché progressivamente vanno sparendo maestri che possono comunque convincere a percorrere questa strada.”
Gli sviluppi tecnologici degli ultimi decenni hanno condizionato gli studi linguistici consentendo l'esplorazione di nuovi settori grazie a nuove e sempre più sofisticate strumentazioni, ampliando i confini della ricerca e della diffusione del sapere. D'altro canto, l'ampliarsi dei confini di studio è andato di pari passo con una sempre maggiore specializzazione e concentrazione dell'indagine su fenomeni linguistici puntuali e circoscritti. Cosa deve fare un giovane linguista per non rischiare di restare ancorato al dato particolare?
“Siccome la mia preparazione è quella di un linguista storico, per definizione parto dal particolare.
Quello che posso dire è che ritengo che solo una volta studiati bene tanti singoli particolari, che in realtà servono a capire molti paradigmi generali, allora, e solo allora, si può estendere il proprio interesse e focalizzare anche il generale.
Secondo me, prima, occorrerebbe partire da molti particolari, nel caso di questa disciplina molti particolari testuali, approfondirli, comprenderli e legarli in un contesto generale.
L’esperienza conseguita nel particolare, e nel generale visto attraverso il particolare, dovrebbe poi consentire di focalizzare il solo generale. Ma il processo inverso non è possibile.”
Quanto conta una solida formazione in linguistica storica nel profilo del linguista contemporaneo?
“Secondo me, non dico sia l’unico fattore condizionante una buona preparazione, però uno dei fattori decisivi, sì.
Teniamo presente però una cosa: quando si parla di linguistica storica bisogna mettersi d’accordo pure su questo. Nel senso che c’è un modo generalistico di studiare la linguistica storica e c’è invece un modo storicistico di studiarla.
Io consiglierei vivamente il secondo poiché permette un contatto diretto con i testi, con le singole filologie e con le storie che accompagnano queste filologie e ne fanno da sfondo. Percepire la profondità della Storia e percepire la profondità dell’evento linguistico collocato nella Storia, secondo me sono dati ineliminabile per una corretta comprensione dei fatti linguistici.”
Cosa significa fare il rettore oggi?
“Io faccio il rettore da dodici anni, quindi sono ormai ben maturato in questo ruolo: posso dire che le cose sono molto cambiate da quando sono per la prima volta sono diventato rettore nel 1999.
Mi sento di affermare che oggi è un mestiere praticamente impossibile, al quale si arriva per una crudele selezione naturale anche su quelle che sono le proprie forze psicologiche di resistenza a questo tipo di responsabilità. Purtroppo oggi è un momento pessimo per il mondo universitario e di conseguenza è un pessimo momento anche per chi esercita il mestiere del rettore.”
Un’ultima domanda, ci può dire qualcosa a proposito dei rapporti tra lei e i due atenei che organizzano l’evento?
“Con l’Orientale di Napoli ho un rapporto privilegiato che dura da molti anni perché, innanzitutto, questo è stato l’Ateneo del mio maestro, Walter Belardi anche se io l’ho conosciuto quando già era a Roma.
Lui ha lasciato comunque molte tracce nell’Ateneo napoletano ad iniziare da diversi colleghi che vi insegnano, o hanno insegnato, glottologia. Io, seguendo queste tracce, ho avuto rapporti molto stretti con L’Orientale in specie, e questo lo voglio dire, con i glottologi e con gli orientalisti, in particolar modo semitisti e soprattutto iranisti.
Con la Federico II i rapporti sono stati più larghi però, per esempio, gli esperti di linguistica romanza, e quindi Alberto Varvaro per capirci, sono stati molto importanti per i miei studi e la mia formazione.”
Fabiana Andreani, Valentina Russo