Intervista a Tullio Telmon
Intervista a Tullio Telmon
In occasione del XLV Convegno Internazionale della Società di Linguistica Italiana (SLI), a cui partecipano anche relatori de L'Orientale, il Web Magazine ha intervistato il Presidente uscente Tullio Telmon
Professor Telmon, lei è linguista, dialettologo nonché Presidente della SLI che ha organizzato questo importante Convegno. Durante l'apertura dei lavori ha parlato di un'Italia dalle 6000 lingue anche se, purtroppo, sono davvero poche le varietà considerate lingue dall'attuale Legge 482. Cosa pensa a riguardo?
“La Legge 482 del 1999 è una legge di cui si aspettava l'esistenza da cinquant'anni come applicazione alla Costituzione. Il dialettologo, però, non ne può essere soddisfatto, naturalmente: non soltanto perché per il dialettologo sono lingue a tutti gli effetti tutte le varietà, le parlate, i dialetti locali – chiamiamoli pure come vogliamo – come quelli di Gubbio, di Cocconato, di Trebaseleghe e così via; ma anche perché in una concezione razionale del concetto di 'minoranza linguistica' – perché a questo si riferisce la legge – 'minoranza' è tutto ciò che non è maggioranza, vale a dire tutto ciò che in qualche modo diverge rispetto alla lingua considerata dall'articolo n. 1 della stessa legge come lingua dell'Italia, cioè l'italiano.
Conseguenza è che, come sappiamo – e non lo sa soltanto il dialettologo ma anche lo storico della lingua – il dialetto di Trebaseleghe non è un italiano parlato a Trebaseleghe – semmai sarebbe un 'italiano regionale' parlato a Trebaseleghe – ma è la lingua latina così come si è sviluppata a Trebaseleghe e, di conseguenza, ha non soltanto dal punto di vista genetico uno stesso tipo di sviluppo dell'italiano ma anche una sua totale autonomia.
Questa è la ragione per cui parlo di Paese delle 6000 lingue... che probabilmente sono anche di più!”
I festeggiamenti per i 150 anni dell'unità d'Italia sono stati occasione per un Convegno SLI sulle coesistenze linguistiche nell'Italia pre- e post-unitaria. Ancora introducendo i lavori, il primo giorno, ha parlato di un apporto della Società di Linguistica Italiana all'assestamento linguistico dell'italiano. In che misura la SLI ha svolto un ruolo in questo processo? Potrebbe approfondire il concetto?
“Alla Società di Linguistica Italiana aderiscono praticamente tutti coloro che professano un insegnamento di Linguistica Generale o di Storia della Lingua o di Dialettologia, insomma che lavorano all'interno dell'università. Ma, come si sa, la SLI non è una Società esclusivamente universitaria e possono iscriversi, ed accedono effettivamente in misura enorme, anche altri addetti ai lavori di vario tipo: principalmente insegnanti, ma non necessariamente. Già in questa specie di affluenza complessiva e di riconoscimento in una associazione che in fondo, come ogni associazione, è portatrice di una idea della lingua, beh, già questo può essere un tipo di apporto in quanto si contribuisce a far maturare la consapevolezza metalinguistica degli italiani.
Poi, credo – e spero ancora – che ci sia una funzione nel docente universitario che, come la maggior parte di quelli che si iscrivono alla Società di Linguistica Italiana, svolge anche una funzione di educazione e contributo alla crescita. Inoltre, nella particolare circostanza della Legge 482 di cui parlavamo prima, la Società di Linguistica Italiana così come la Società Italiana di Glottologia (SIG) erano state consultate debitamente, anche se non sempre molto ascoltate, e questa forse è una delle ragioni per cui questa stessa legge è da considerare come parzialmente perfetta – ma molto parzialmente – e invece parzialmente imperfetta.”
Come mai la scelta di Aosta, Bard e Torino come sedi per i lavori del Convegno?
“Innanzitutto per tradizione l'università del Presidente della Società in uno dei quattro anni di durata del suo mandato organizza un convegno presso le sue sedi, e la mia università è quella di Torino. In realtà la volontà della Società, e la mia in particolare – prescindendo anche dal fatto contingente che si trattasse della mia università – è stata, da un lato, quella di vedere Torino nel suo ruolo di prima capitale dell'Italia unita e, dunque, farle giocare un ruolo simbolico in questo senso. Dall'altro, la scelta di Aosta è significativa perché Aosta, a sua volta, ha un ruolo simbolico in questo simboleggiare ciò che è italiano ma non necessariamente 'in lingua italiana', ovvero anche in altre lingue.
Dunque anche questa compresenza di altre lingue, come si è detto 6000, 7000, 8000 lingue in Italia, è simboleggiato dalla scelta di Aosta.”
Cosa pensa delle contaminazioni odierne: non solo quelle di varietà prestigiose e globalizzanti, come nel caso dell'anglicizzazione, ma anche di quelle di minoranze di immigrati, come nordafricani, slavi, eccetera?
“Bella domanda! Perché colpisce in pieno una delle imperfezioni di quella legge di cui parlavamo prima. Quelle che noi chiamiamo tecnicamente 'le nuove minoranze', cioè le minoranze formate da immigrati, non soltanto sono totalmente trascurate dalle legge ma, di fatto, nella prassi, nella mentalità della gente e nell'opinione corrente tendono ad essere emarginate. La conseguenza è spesso, purtroppo, l'emarginazione degli stessi parlanti che comincia spesso dall'emarginazione di queste 'espressioni' diverse dall'italiano. Di queste, invece, bisognerebbe occuparsi se non per legge – e comunque meglio se per legge – almeno in un processo di rieducazione del popolo italiano.
Un popolo che non è mai stato razzista, un popolo che ha subito sulla propria pelle l'immigrazione, e che dunque può aver subito molto spesso il razzismo degli altri, che si possa trasformare in razzista quando a sua volta accoglie finalmente qualcuno da fuori è veramente una cosa che fa venire i brividi! E, probabilmente, occorre che – come già diceva Ascoli un secolo e mezzo fa a proposito dell'apprendimento dell'italiano – ci sia un salto culturale, un processo, un miglioramento culturale che investa proprio l'intera popolazione e di questa, in particolare, la scuola da un lato e le famiglie dall'altro.
Innanzitutto la scuola – come è avvenuto per il passato e come purtroppo avviene molto meno adesso – può contribuire debitamente attraverso i programmi; e con questa le famiglie, a patto che non subiscano eccessivamente il peso dei mezzi di comunicazione di massa che spesso vanno in senso contrario. Infatti, basta leggere su un quotidiano qualcosa tipo 'anziana scippata da un marocchino': questa espressione già di per sé implica qualcosa dal momento che l'anziana potrebbe essere scippata da chiunque – mia moglie è stata scippata da un italianissimo – e dunque questa sottolineatura è un artificio comunicativo che ha sicuramente un suo effetto, pessimo.”
Abbiamo fatto l'Italia, e forse anche gli italiani. Si può dire che abbiamo finalmente fatto anche l'italiano? E cosa ci riserva il futuro?
“Direi di sì: l'italiano è fatto, e gli interventi in questi giorni di Convegno lo stanno dimostrando. Si tratta semmai di discutere sul come chiamarlo, e qui ci possono essere opinioni diverse: abbiamo sentito che c'è chi lo chiama 'neo-standard', chi lo chiama 'italiano dell'uso medio', chi lo chiama 'italiano tendenziale', ma in sostanza è quello. Non è più l'italiano esclusivamente scritto che ha caratterizzato la storia della lingua italiana da Bembo a Manzoni, non è un italiano tutto sommato artificioso e astorico come quello che Manzoni proponeva ma è qualche cosa che si è costruito in modo naturale, con un'accelerata data dai mezzi di comunicazione di massa.
Dunque direi che non c'è da preoccuparsi: l'italiano c'è.”
Si parla sempre più di frequente, però, di una sorta di 'deriva iperonimica' dell'italiano, soprattutto di quello parlato dai giovani. In che misura i dialetti potrebbero intervenire, secondo il suo parere, in questo processo?
“Non credo che i dialetti possano intervenire, né positivamente né negativamente. O meglio, sicuramente continua ad esserci un loro intervento – all'incirca come ci è stato nel passato ma in misura sempre minore perché i dialetti sono sempre meno parlati – nella misura in cui possono apportare singole parole come 'pizza' e così via. Non credo, tuttavia, che possano dare un grosso apporto: lavorano un po' come altri canali comunicativi diversi da quello della lingua italiana, con funzioni diverse, con usi specialistici, magari, ma con non molte comunicazioni con la lingua italiana. Non credo, assolutamente, che i dialetti possano porre un freno o migliorare tendenze iperonimiche nel linguaggio dei giovani. Credo che il linguaggio dei giovani, in realtà, in tutte le sue sfumature – tutte quelle che noi crediamo possano essere carenze o 'errori' – sia sempre esistito; magari con caratteristiche diverse, però da sempre i giovani tendono a crearsi un loro proprio gergo e lo usano fintanto che raggiungono l'età matura ed abbandonano alcuni di questi aspetti. Non ci vedo nulla di particolarmente preoccupante.”
Cosa pensa, invece, dei progetti di insegnamento dei dialetti nelle scuole?
“I dialetti nelle scuole... Io sono totalmente contrario a tutte le azioni che trattano la lingua – il fenomeno lingua inteso come strumento per comunicare – in modo artificiale. Voglio dire che l'imparare a parlare è qualche cosa che è dato a tutti gli individui e che avviene in modo naturale, principalmente – non a caso si parla di 'lingua materna' – attraverso l'insegnamento informale dei genitori prima, poi magari del gruppo familiare che sta intorno, poi ancora, con l'allargamento della rete sociale, con gli altri bambini e con il gruppo dei pari. Questo è il modo naturale per insegnare.
Constatiamo che, attraverso questo modo naturale di insegnare una lingua, in Italia oggi la quasi totalità insegna l'italiano, e non il dialetto. Ora, io mi chiedo: parliamo di una lingua che i genitori per primi decidono di abbandonare, di non trasmettere più ai figli; ci sarà allora qualche ragione perché questo avviene? E, soprattutto: come si può pensare di sopperire, di complementare, di supplementare quello che i genitori non vogliono fare e che è nei loro compiti istituzionali – vale a dire di insegnare la lingua X – attraverso la scuola? Trovo che questo sia attribuire a Stato e scuola – sia essa pubblica o privata non importa – un compito che non compete loro. Se si tratta di insegnare l'esistenza di questa lingua – parlo di un dialetto qualsiasi e lo chiamo 'lingua' – la sua storia, il fatto che è stata utile in una certa comunità fino a un certo momento, che poi da quel certo momento in poi la comunità stessa ha deciso di abbandonarla, in parte o in tutto, per certe ragioni che saranno rispettabilissime, beh a questo punto non vedo perché lo Stato debba sopperire in modo artificiale – e spesso artificioso – attraverso, poi, strumenti che gli mancano, come ad esempio gli insegnanti. Chi sono gli insegnanti, non so, del 'torinese' in una classe di Torino in cui ci sono dieci bambini su venti che arrivano dalle Filippine, dal Perù, dal Giappone, dalla Cina, eccetera, eccetera, mentre gli altri arrivano da tutte le altre parti d'Italia e, magari, ce ne sono solo due che sono davvero torinesi ma che, proprio perché veramente torinesi, hanno abbandonato l'italiano già da tre generazioni? Mi chiedo: che significato ha insegnare il torinese? E mi rispondo: non ne ha nessuno!... se non sono le famiglie a prendere delle decisioni in questo senso. In fondo, io sono molto keynesiano.”
Un augurio all'Italia che compie 150 anni.
“Per quel che riguarda i prossimi 150 anni di lingua italiana, mi auguro che questa possa svilupparsi senza eccessive preoccupazioni e soprattutto senza eccessivi interventi da parte dei linguisti. Perché, si è visto, gli interventi dei linguisti sono spesso deleteri – come gli interventi di tipo puristico per esempio – ma in fondo, poi, non così preoccupanti: si sa che una lingua si sviluppa indipendentemente dai loro desideri e la storia del 'garage', che noi chiamiamo così e non 'autorimessa' come avrebbero voluto i linguisti durante il fascismo, la dice lunga!”
Valentina Russo