La questione Pomigliano all'Orientale
La questione Pomigliano all'Orientale
Il professor Pietro Masina, docente del corso di Economia Politica Internazionale, ha aperto l'incontro con gli operai della Fiat di Pomigliano d'Arco: un'iniziativa insolita in ambito universitario e anche per questo carica di significato
Napoli, 26 Maggio 2010 - Dopo un breve cappello sulle trasformazioni che negli ultimi trent'anni hanno toccato l'Occidente ed hanno portato ad un capovolgimento dei rapporti tra produzione e finanza, secondo cui la prima è stata completamente asservita alla seconda con l'obiettivo di compiacere i mercati, il professor Masina parla di un lavoro oggi sempre più precario e sottopagato, e termina il suo intervento passando la parola ad Andrea Amendola, segretario della Fiom a Pomigliano d'Arco.
Il primo spunto riguarda le condizioni dei lavoratori dello stabilimento di Pomigliano: è questo il fulcro di quella che viene definita la “trattativa” con Fiat.
Amendola fa riferimento, in particolare, a quello che è il cuore pulsante della fabbrica stessa, la catena di montaggio, descrivendo una realtà che è sicuramente dura e che risulta essere addirittura peggiore in determinate postazioni considerate ancora più disagiate. Ma non si tratta solo di questo: molti sono i punti su cui ci sarebbe da discutere e tra questi c'è la diminuzione delle pause da 40 a 30 minuti, lo spostamento della mensa a fine turno lavorativo, il disdettamento di alcuni accordi fondamentali per gli operai.
Fiat però non sembra essere aperta al dialogo in questo senso e inchioda i lavoratori con una serie di condizioni in linea con un “prendere o lasciare” che con la parola “trattativa” ha veramente ben poco a che vedere: un esempio indicativo riguarda la produzione della Panda a Pomigliano intesa come base su cui fare pressione per arrivare velocemente all'accordo.
Ad alternarsi al microfono sono poi gli operai stessi di Pomigliano e il filo rosso che lega tutti gli interventi è senza dubbio il desiderio di una maggiore democrazia: il primo è Ciro, un ragazzo sulla trentina che spiega come il WCM (World Class Manifacturing), nato con l'obiettivo di elevare lo standard produttivo a uno standard mondiale riconosciuto, sia in realtà un mezzo per incrementare il lavoro degli operai ed aumentare quindi i profitti dell'azienda, affinché questa possa entrare in competizione con altri paesi “più forti” sotto questo punto di vista.
Tale progetto, presentato come una possibilità di riscatto per Pomigliano, è coinciso dunque con una rieducazione, tramite corsi di formazione della durata di due mesi, dei lavoratori dello stabilimento: facilmente prevedibile l'aumento dei vigilantes e delle contestazioni che, se da un lato ha condotto una grande fetta di operai alla paura e all'allineamento, dall'altro ha portato un gruppo sicuramente minoritario, in cui si annovera Ciro, all'incattivimento. Tra le cose che hanno spinto taluni verso una simile e non cercata condizione c'è sì la volontà dell'azienda di moltiplicare la produttività “sulle spalle dei lavoratori” ma quello che stizzisce in maniera particolare è la pretesa di condividere con i lavoratori stessi i propri obiettivi: agli operai viene richiesto di sentirsi parte di una squadra, di partecipare attivamente con l'impresa affinché si possa raggiungere il traguardo. Insieme.
La scelta del linguaggio sportivo non è casuale ma anzi si concretizza nelle immagini del film di Oliver Stone “Ogni maledetta domenica”, mandate in loop anche 5 volte al giorno: nella scena che si ripete l'allenatore (Al Pacino) parla alla sua squadra di centimetri da guadagnare per arrivare alla vittoria, di un “risorgere come collettivo” per non essere “annientati individualmente”. Che si tratti di una squadra di football americano o di un gruppo di operai poco importa, ciò che conta è il fine: galvanizzare, mandare in delirio, far sentire le persone parte integrante di un qualcosa di più grande affinché queste possano dedicarsi anima e corpo ad un progetto che, a mano a mano viene sposato e fatto proprio.
Ciro lascia poi la parola ad Antonio che, imbarazzato, comincia col presentarsi: è un uomo sulla quarantina, ha tre figli e proviene da una famiglia di artigiani. Quando da ragazzo viene assunto in Fiat, ci dice, gli è sembrato tutto un sogno ma dopo 15 anni di catena di montaggio il sogno è sfumato e Antonio è entrato a far parte di una particolare categoria di lavoratori, quella degli RCL (Ridotte Capacità Lavorative): il lavoro lo ha usurato al punto di soffrire di ben 7 discopatie. Gli RCL, ci spiega, vengono spesso allontanati dal ciclo produttivo e relegati in reparti “ghetto”, gli stessi che vengono utilizzati per gli operai più sindacalizzati e per tutti quegli elementi che possono essere considerati “scomodi” per l'azienda, in qualsiasi senso.
Le stesse questioni vengono sollevate da Massimo che non è operaio, ma al contrario è progettista all'Elasis, il centro di ricerca FIAT del Mezzogiorno. A tale proposito intervengono Michela Cerimele e Francesco Pirone, entrambi in veste di precari della ricerca, l'una dell'Università di Napoli “L'Orientale”, l'altro dell'Università di Salerno, cercando proprio di dimostrare quanto sia impossibile in un periodo come questo, caratterizzato da una crisi generale, ragionare per compartimenti stagni: la fabbrica non è che uno specchio di ciò che accade in tutto il nostro Paese, le preoccupazioni sono quindi le stesse dentro e fuori, a prescindere poi dal settore in cui si lavora.
L'università si è posta dunque al servizio dei lavoratori per dar voce ad una serie di problematiche concrete che gravano sulla nostra società e sebbene il messaggio passato non faccia prospettare nulla di buono, soprattutto alle nuove generazioni, la speranza è che un impegno collettivo possa portare presto al confronto e al cambiamento.
Francesca De Rosa
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