La Yokohama Shashin, cinquant'anni di fotografie

 

La Yokohama Shashin, cinquant'anni di fotografie

Kitagawa Utamaro - KusaKabe Kimbei

Con la conferenza “La Scuola di Yokohama” inizia il ciclo dedicato al Giappone organizzato dall'Università degli Studi di Napoli L'Orientale

A Villa Pignatelli, il direttore del Museo delle Culture di Lugano, Francesco Paolo Campione, ha raccontato storia e tecniche di quella che fu la principale scuola fotografica giapponese: la Scuola di Yokohama, o Yokohama Shashin.
Le fotografie scattate nella seconda metà dell'Ottocento erano realizzate con apparecchiature abbastanza semplici: erano delle scatole con un obiettivo, una camera oscura ed una superficie di registrazione in legno in cui veniva inserita una lastra. Queste macchine erano occidentali, soprattutto tedesche e americane.
Quello che permise la tecnica delle fotografie colorate a mano fu la stampa all'albumina. Ricavata dall'albume, è una sostanza molto fissativa e soprattutto resistente nel tempo. Al contrario del colore che ha poca resistenza. La tecnica della colorazione fotografica fu un'invenzione occidentale e molto probabilmente fu il fotografo italiano Felice Beato ad introdurre questa pratica in Giappone.
Con la modernizzazione dell'epoca Meiji (1868-1912), migliaia di artisti specializzati, pittori e coloritori che si dedicavano alle arti tradizionali, persero il loro lavoro e vennero reimpiegati nelle botteghe fotografiche. La qualità del lavoro era discontinua: c'era chi lavorava per quasi dieci ore con precisione ed estrema pazienza e chi si dedicava meno ai particolari. In genere, le tinte più utilizzate erano quelle classiche giapponesi, come il famoso murasaki, il viola giapponese, ed i colori naturali.
Le fotografie, di formato classico 20x25 dato che le apparecchiature erano standard – esclusi alcuni casi specifici come le piccole carte da visita usate da attori e geishe come pubblicità – erano raccolte in album con copertine in legno lavorate con l'arte della lacca (maki-e) e intarsiate seguendo temi tipicamente giapponesi; anche la quarta di copertina era intarsiata, ma aveva decori più semplici.
Questi album erano legati alla logica del viaggio e del ricordo. Forte è il senso di nostalgia che si percepisce dalle foto: da una parte c'erano gli Occidentali quasi ossessionati dall'idea di perdere i tratti tradizionali del Giappone che molto velocemente stava cambiando e dai quali erano profondamente attratti; dall'altra parte, grazie alle fotografie della scuola, i giapponesi conservavano il loro stesso passato, che stavano lasciando in nome della modernità. Più la foto era nostalgica e più si vendeva; ed erano soprattutto i turisti a portare via gli album come souvenir.
Nell'interazione tra Occidente e Giappone, le tecniche e le ideologie si mescolavano creando lavori unici. Le tematiche riprodotte dalle foto spesso richiamavano quelle tradizionali dell'ukiyo-e, con l'aggiunta di dettagli che rendevano le opere ancora più accattivanti per gli acquirenti stranieri. Le fotografie si alternavano tra temi sacri, con immagini più vivaci e piene di contrasto cromatico, e temi profani, di vita quotidiana, con atmosfere più pacate e cromature più semplici. I soggetti raffigurati erano quelli del Giappone classico, dai panorami esotici alla natura, dagli “eroi dell'ultraesotico” – samurai, lottatori, arcieri, corrieri, pompieri, suonatrici cieche, preti ecc... – alla donna, rappresentata come bellezza sublime, nella vita quotidiana e nelle case di piacere.
La Yokohama Shashin durò dal 1860 al 1910, fino a che l'evoluzione tecnologica e il cambio dei registri visivi dell'arte giapponese fecero estinguere quest'arte fotografica.

Francesca Ferrara

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