Laboratorio L’altro: ospite o nemico: il secondo incontro
Laboratorio L’altro: ospite o nemico: il secondo incontro
Migrazioni da e verso la terra dei cedri
Solo posti all’in piedi nell’aula 3.4 di Palazzo Giusso per il secondo dei dodici incontri previsti dal laboratorio internazionale e intermediterraneo L’Altro: ospite o nemico?, ciclo di lezioni d’ambizione interculturale nato per volontà della professoressa Maria Donzelli – docente di Storia della filosofia de L’Orientale.
È la professoressa Rosita di Peri (Università di Torino), cartina al proiettore, a parlare di Libano: migrazioni transnazionali, problemi e prospettive. Il Libano è un paese piccolo, non si direbbe a guardarlo – in termini superficiali – del crocevia di comunità e culture quale invece è.
Geograficamente, è un territorio che non si fa mancare nulla: catene montuose, coste, litorali, la famosa Valle della Beqā’ (con le sue meno famose coltivazioni illegali). Il Libano risulta così ambito per le notevoli risorse di cui dispone e che, come l’acqua, dettano politiche di diritto e di conflitto alla stesso tempo.
Delle tre, l’ultima invasione israeliana (la guerra dei 33 giorni, 2006) ha attentato nuovamente al già giovane e precario equilibrio d’un paese in via di ri-costruzione. Restano poche e poco certe le fonti attraverso cui stabilire, esattamente ed in percentuale, la presenza in numero – tra gli altri – di sciiti, drusi, sunniti, e cristiani maroniti distribuiti su tutto il territorio libanese. Risale addirittura al 1932 infatti l’ultimo censimento.
Sono diciotto, di cui solo dodici cristiane, le comunità riconosciute dal sistema legislativo libanese. Questo vuol dire che sono tutte regolamentate, che non si tratta solo di una questione confessionale e che il ruolo politico, come inevitabile che sia, sconfina prendendo ben altre forme da quello di solo referente/latore normativo. Stiamo parlando di una Repubblica monocamerale, ove i seggi vengono ripartiti in proporzioni tra tutte le comunità riconosciute. Ora, se da una parte questa politica di tutela delle minoranze gioca alla conservazione di tutte, una linea di radicalizzazione può, da un punto di vista politologico, renderlo a tutti gli effetti un sistema “bloccato”.
Databile al ’26 la militanza dell’articolo 95 che, tra gli interessi particolaristici d’un sistema sì frammentato, nel dichiarare tutti gli incarichi da ripartire tra le comunità, ha visto confermata – dal Patto Nazionale (1943) agli Accordi di Taef (1989) – la Presidenza della Repubblica ai maroniti, ma di fatto legittimando la comunità sunnita nel momento in cui si è elevata la Presidenza del Consiglio a prima carica della 2ª Repubblica.
Eppure questa ripartizione confessionale, unita all’interdizione di matrimoni misti e alla totale assenza di una politica delle migrazioni, pare ricordare più quegl'ismi di multiculturalismo/comunitarismo che una vera didattica interculturale, d’integrazione.
Afflato panarabista a parte, i profughi palestinesi sono gli unici rifugiati riconosciuti dallo stato libanese. Tant’è che, dagli accordi del Cairo del ’69, si è spesso parlato di Stato nello Stato nell’atto di raffigurare la situazione degli attuali dodici campi profughi. Di fatto, non regolamentati, interdetti a certe professioni e diritti, non sono sostenuti che da organizzazioni non governative che, per quanto possono, fanno da bilancino ad una politica delle porte aperte a (differenziale) convenienza.
Assunzione previa accurata selezione per la massiccia manodopera proveniente dal Sud-est asiatico, fenomeno che risponde all’altissima domanda di lavori d’assistenza, sempre più à la mode tra l’alta borghesia libanese. Una deportazione legale ma d’eco schiavista, che coinvolge i centomila iracheni come i 1.6 milioni di immigrati siriani, favoriti, se illegali, dagli imprenditori libanesi e dal loro stesso governo, alleggerito in questo modo dal fantasma di possibili malcontenti.
Non si mescolano: arrivano, lavorano stagionalmente, ripartono. Non sono tutelati ma disgraziatamente tollerati, per ovvie ragioni di profitto. I media non se ne occupano, la politica – seduta sul ricordo della questione palestinese – ne rifiuta il trasferimento.
Sono 2.600 invece gli emigrati libanesi in tutto il mondo. C’è da dirlo, tutti ben inseriti nel tessuto sociale del paese ospitante, dalla Russia all’America latina, anche grazie all’alto tasso di alfabetizzazione e di laureati. Ma comunque non votanti. Si è consci del fatto che questo altererebbe pericolosamente l’intero quadro confessionale del Libano, quando sono infatti le comunità religiose a scegliere i politici.
A questo punto appare chiaro che anche solo prendere in considerazione un processo risolutorio d’integrazione – di spessore culturale però – basterebbe, al di là d’ogni stereotipo e/o categorizzazione concettuale, in questo quadro schizofrenico tra conservatorismo e richiamo occidentale.
Claudia Cacace
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