Lisbona: intervista a Paola D’Agostino, laureata all’Orientale
Lisbona: intervista a Paola D’Agostino, laureata all’Orientale
Docente all’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, scrittrice e traduttrice. Ci racconta della sua esperienza all’Orientale e del suo lavoro
Paola D'Agostino, come è arrivata da Sapri all'Orientale? Che cosa ricorda della sua esperienza universitaria nel nostro Ateneo?
“A Sapri c’erano molte persone che studiavano all’Orientale ed io ero affascinata da quello che raccontavano di quest’Università dove c’erano i movimenti punk, dove c’era uno scambio tra tante lingue diverse e tra tanti universi che convivevano. Questi racconti mi affascinavano moltissimo, e perciò provai a iscrivermi all’Orientale e devo dire che mi è andata bene. Ciò che ricordo di fatto è un contesto molto fertile, un luogo in cui anche il rapporto tra studenti e docenti era mediato dalla creatività. Questa è stata la mia esperienza, immagino sia stato un momento della mia vita che in qualche modo ha avuto un peso negli sviluppi futuri.”
In quale anno si è iscritta? A quale Facoltà e a quale corso di laurea?
“Mi sono iscritta nel 1993 alla Facoltà di Lingue e Letterature Straniere, corso di laurea in Lingue e Letterature Europee Moderne. All’inizio studiavo russo, poi sono passata al portoghese, l’indirizzo era quello storico-culturale.”
Come mai passò dal russo al portoghese?
“Perché l’anno in cui iniziai a studiare russo ci fu l’occupazione dell’Università. Io lavoravo al progetto di una associazione culturale, che poi sarebbe stata 33,3 periodico, e ad una rivista, quindi tra occupazione ed altre cose persi più di un mese di lezioni di russo e non capivo assolutamente nulla. Allora pensai: o perdo un anno, o faccio qualcos’altro, e poi a un certo punto ho capito che non avrei mai vissuto in Russia. Voglio dire: ho capito che l’idea di una lingua da studiare debba anche abbracciare un territorio, una cultura, e così passai al portoghese. Devo dire che la cosa che più mi colpì del portoghese fu che il suono della lingua era molto simile ai dialetti della mia zona. Io sono cilentana, e il portoghese somigliava alla lingua che avevo sentito parlare da bambina. La somiglianza mi colpì, insieme al fatto che questa lingua che sembrava foneticamente molto rozza aveva prodotto grandi opere della letteratura del Novecento come il Libro dell’Inquietudine, dal quale ero affascinata. Da qui l’idea di approfondire il rapporto con la lingua di Pessoa, che poi era ciò che più mi interessava.”
Su quale tema ha fatto la tesi? L'argomento le fu suggerito o fu una scelta personale sin da subito?
“Sul Libro dell’inquietudine di Pessoa, che era ed è un testo molto complesso e affascinante. Mi colpì l’idea di un testo che non esisteva in quanto testo. Pessoa aveva un rapporto compulsivo con la scrittura, aveva un milione di foglietti sparsi sulla scrivania del suo ufficio e nel suo famoso baule. Foglietti che non sarebbero mai diventati un vero diario o un libro se non dopo la sua morte. Il Libro dell’inquietudinenon era nulla di tutto ciò che si potesse catalogare, non era un diario e non era un libro di filosofia nonostante fosse considerato un grande testo sui rapporti tra l’uomo e la ricerca. Era però un grande testo aperto sul quale lavorare all’infinito: ancora oggi escono nuove riformulazioni del Libro dell’inquietudine. L’argomento della tesi fu una scelta personale che nacque da molti dialoghi con Francesco De Sio Lazzari, docente di Storia delle Religioni all’Orientale, che nonostante non fosse mai stato un mio docente fu per me un punto di riferimento importante. C’eravamo incontrati nel progetto di un laboratorio di scrittura e fu mio correlatore in questa tesi in lingua portoghese. Il fatto che io venissi da questo rapporto particolare con la lingua portoghese e con Pessoa fu per Francesco uno stimolo: la tesi fu frutto di un dialogo sulla spiritualità che si poteva trovare all’interno di questo percorso disperato di Bernardo Soares, che poi in fondo era l’uomo del Novecento dilacerato dalle eterne contraddizioni.”
All’Orientale ha lavorato per una piccola organizzazione culturale: 33,3 periodico, differente per taglio politico e per tipo di attività da Pangea, che in quegli anni era più nota. Che cosa può raccontare di 33,3 periodico, della sua storia e dei suoi protagonisti?
“Sì, esisteva questa divisione di lavoro tra Pangea e 33,3 periodico anche se credo che 33,3 periodico fosse leggermente precedente. Noi lavoravamo molto di più a palazzo Giusso mentre Pangea lavorava a palazzo Corigliano, ma per ovvie ragioni: tra noi credo ci fosse un solo orientalista, Gennaro Gervasio, il quale collaborava anche con Pangea. La nostra associazione non era tanto diversa per taglio politico da Pangea perché in quell’occupazione di cui le parlavo prima ci eravamo conosciuti tutti, sia noi che confluimmo in 33,3 periodico che i ragazzi di Pangea, con i quali ho ancora oggi rapporti profondi di amicizia. Nascemmo in quel momento di occupazione tutti insieme, come un gruppo di studenti che volevano in qualche modo partecipare, confrontarsi su quanto si stava apprendendo, sulla possibilità, in fondo, di cambiare il mondo attraverso quello che si stava studiando. La nostra associazione era a fini editoriali, l’idea era quella di intervenire in quel momento di occupazione e in quello di post-occupazione attraverso la parola scritta. Alcuni di noi avevano come obiettivo il giornalismo, insomma c’era questo rapporto privilegiato con la scrittura narrativa.”
L’associazione quando fu fondata?
“Nei primi mesi del ’95, nel periodo immediatamente successivo all’occupazione. Ricordo che nei primi mesi di occupazione ci conoscemmo tutti e c’erano alcune persone che stavano pensando di fondare una rivista. Mi dissero che avevano bisogno di qualcuno che si occupasse delle recensioni letterarie. Così nacque il gruppo e di lì a poco si andò dal notaio a fondare l’associazione. Tutto ebbe inizio con quel laboratorio che fu l’occupazione, dove ci confrontavamo su cose concrete; e da quell’esperienza nacque la rivista, che fu l’organo di comunicazione ufficiale dell’associazione con gli studenti e fu soprattutto il nostro modo di continuare l’occupazione con un progetto che riprendesse le rivendicazioni di quel momento. Ricordo i reportage sul problema dei lettori, perché all’Orientale c’è stato un momento in cui si faceva difficoltà a stabilire rapporti lavorativi con questi lettori, che poi erano fondamentali. Quindi noi riprendevamo le istanze della nostra piccola rivoluzione su quelle pagine in cui c’era ovviamente anche ciò che accadeva nello scenario mondiale. Ricordo gli articoli sulla strage di Tienanmen e sulla Cecenia, questo anche perché c’erano molti studenti di Scienze Politiche che lavoravano alla rivista. Di Lingue, in realtà, eravamo in pochi, tre o quattro al massimo.”
Ha conservato rapporti con docenti e laureati dell'Ateneo?
“Molti di noi vivono in Paesi diversi e hanno fatto esperienze di vita diverse. Ma quella che potrei definire la mia famiglia di amici, quegli amici che poi uno si porta dentro per tutta la vita, sono gli amici dell’Orientale, le persone con cui sono cresciuta come individuo, e li sento tutti. Sono in contatto anche con gli amici di Pangea, con i quali oggi, grazie a queste reti sociali, si riesce a mantenere rapporti, forse meno profondi, ma più costanti.”
Che cosa le ha lasciato l’Orientale? Che cosa si è portata dietro?
“Dell’Orientale mi sono portata tutto. Credo che l’Orientale sia un esperienza molto forte e non conosco nessuno che dopo la laurea abbia avuto una esperienza non influenzata dall’appartenenza a questa Università. Nel corso degli anni ho conosciuto diverse persone, in contesti differenti, che avevano frequentato l’Orientale e devo dire che si crea una sorta di clan, di affinità elettiva tra gli ex-studenti. L’Orientale è secondo me un luogo in cui molte delle convenzioni legate alla cultura accademica e ai rapporti accademici vengono meno in senso positivo. Vi si avverte un clima dove tutto il mondo è lì, ed è accessibile, dove si può andare a parlare con un lettore di swahili e chiedergli che cosa stia insegnando e andare a seguire le sue lezioni, dove si possono incontrare per le scale persone che studiano sanscrito, dove c’è questa passione per le lingue e per tutto il paesaggio culturale legato alle lingue. L’Orientale ti dà la percezione del mondo come un territorio infinito che tu puoi andare a scoprire e nel quale puoi sapere e soprattutto puoi voler sapere. Ciò che veramente l’Orientale mi ha insegnato, è stata la curiosità intellettuale, amplificata dalla possibilità di poter soddisfare questa curiosità.”
Quali ricordi ha della prima volta che è stata in Portogallo?
“La prima volta ci sono stata nel 1997 e ricordo quest’idea della distanza e della percezione della terra come mappatura. Quando atterri a Lisbona vedi immediatamente la foce del fiume, l’oceano che si apre, e avverti questa sensazione di essere in un punto estremo che in qualche modo ti apre verso milioni di possibilità. E questa è in qualche modo la storia del Portogallo. Ricordo poi di camminare per le strade, entrare nei bar, prima dell’Expo e del Nobel a Saramago che in qualche modo hanno proiettato il Portogallo in maniera molto più forte sulla scena europea e non solo, ed avere come la sensazione di stare vivendo dentro ai ricordi di persone che avevo conosciuto in altri tempi. Era come io avevo conosciuto l’Italia del dopoguerra, qualcosa che avevo sentito solo raccontare, nei modi, nel linguaggio, nella descrizione del silenzio. Sentivo di stare camminando dentro un tempo passato, ed era una sensazione molto strana. Immaginare che il mondo che i miei genitori avevano conosciuto quando avevano vent’anni doveva essere stato molto simile a quello che io stavo vivendo, questo mi colpì moltissimo. L’idea di un Paese in qualche modo fermo nel tempo, cosa che poi non è successa perché il Portogallo da quando è entrato nell’Unione Europea ha fatto passi da gigante verso la modernizzazione, ma in quel momento si avvertiva ancora il contrasto tra ciò che poteva essere e ciò che era stato. Era molto affascinante.”
Quando e perché ha deciso di trasferirsi a Lisbona?
“Ho deciso di trasferirmi nel 2000 dopo avervi passato un anno con la borsa dell’Orientale di ricerca post-laurea, durante la quale avevo studiato la percezione del corpo nella letteratura pre e post-salazarista. Questa ricerca, che tra l’altro verrà pubblicata prossimamente su una rivista che si chiama Submarino e che uscirà a Torino, si basava sull’idea dello specchio e del corpo come veicolo di resistenza o di reazione alla dittatura (in un certo senso, si sconfinava nella performance). Dopo quest’esperienza di un anno tornai per un breve periodo in Italia, ma l’esperienza portoghese mi aveva segnata moltissimo e fu così che presi la decisione di tornarmene in Portogallo ed entrare seriamente nel mondo del lavoro. Avevo rimandato fin troppo questo ingresso nel mondo degli adulti rifugiandomi nella letteratura e nello studio della letteratura. Quando finì l’età delle borse, capii che bisognava in qualche modo diventare adulti e pagare le bollette.”
Le competenze acquisite all’Orientale le sono state utili per le sue esperienze successive?
“Sì, tantissimo. Molte delle cose che ho imparato all’Orientale mi sono servite sia per la mia attività di traduttrice che per quella di insegnante di italiano, nella quale ho sempre a modello il tipo di rapporto tra docente e alunno che ho visto all’Orientale. Questo non formalizzare il rapporto didattico in una gerarchia ma considerarlo come un dialogo nel quale si cammina assieme e si impara assieme, questo è forse uno dei più grandi insegnamenti che mi porto dell’Orientale e che cerco sempre di riprodurre nel mio lavoro.”
Crede che la formazione che l’Orientale dà sia competitiva a livello internazionale?
“Assolutamente. Io credo che l’Orientale dia un tipo di formazione che è più competitiva a livello internazionale. Questo perché ci ha già preparati al mondo globale, ci ha già preparati all’Europa Unita quando questo progetto non era ancora così concreto come oggi. L’idea di essere cittadini europei prima ancora di essere cittadini italiani era quel tipo di apertura che l’Orientale ci dava e che serviva per vincere le sfide non solo nazionali ma globali. Credo che non sia un caso se molti degli ex-studenti dell’Orientale oggi vivono all’estero.”
Quale opinione c’è dell’Orientale in Portogallo?
“In Portogallo vivono moltissimi studenti dell’Orientale. Credo che tutti gli ex-studenti di portoghese oggi vivono a Lisbona e quindi esiste una diffusa percezione di questa Università come una comunità ideale nella quale nasce l’istinto al viaggio, che spesso può essere fatale, perché l’istinto al viaggio può portarti alla distruzione, a lontananze forzate, e a recidere tutte le radici. Nella percezione di altri, però, esiste l’idea che l’Orientale ha prodotto tutta una serie di scambi, di transiti. Quando si parla di ex-studenti diventati ricercatori all’estero o di docenti italiani che lavorano costantemente con le università portoghesi devo dire che l’Orientale esiste ed è percepita come un modo di fare università in Italia.”
Più in generale che opinione c’è dell’Università italiana?
“Partiamo dal presupposto che attualmente non c’è una grande stima di tutto quanto viene dall’Italia. Io credo che l’università italiana ci abbia dato una formazione solida, così come la scuola, prima che una serie di tagli e operazioni folli andassero a deformare l’idea stessa della scuola in Italia. Nonostante tutto io credo che sia la scuola che le Università italiane abbiano la potenzialità di dare una formazione matura agli studenti. Infatti quando un progetto viene da una Università italiana, da un professore o da un ricercatore, c’è il desiderio di ascoltare le eventuali potenzialità di questo progetto. Credo che si possa e si debba fare molto per proteggere questo valore aggiunto che l’Università italiana ha. Bisogna difendere fortemente l’idea che l’Università debba poter investire sulla propria creatività, perché gli italiani, e chi studia nell’Università italiana, debbano poter continuare a godere di quel valore aggiunto che gli dava il fatto di provenire da un contesto italiano di elaborazione culturale. È un obbligo che il mondo della cultura deve rispettare, e anche la politica. Il problema più grave è che si pensa che il progetto europeo sia di livellare i gradi e le competenze secondo una spendibilità concreta sul mercato del lavoro, ma sul mercato del lavoro non contano tanto i numeri o la disponibilità dei soggetti a fare determinate cose: è la genialità quella che premia, la specializzazione di ciascuno di noi in un settore specifico, in una competenza che sia anche progetto individuale. Questo è ciò che va consigliato a chiunque intraprenda il cammino dell’Università: cercarsi sempre un area di specializzazione e potenziarla, perché alla fine ciò che conta è il fatto che sia tu e soltanto tu a poter fare quel lavoro perché è tuo, l’hai interiorizzato e puoi dare qualcosa perché l’avevi già in mente, forse anche prima che quel lavoro esistesse. Invece questa banalizzazione quotidiana della formazione, dell’istruzione, questo contabilizzare tutto in termini di crediti formativi, è come mettere le monetine in un salvadanaio che non necessariamente si aprirà.”
Nel 2006 lei ha pubblicato il suo primo romanzo intitolato: Largo delle Necessità. Come è nata l’idea di questo libro?
“È nata esattamente nel momento in cui decisi di vivere a Lisbona. Quando mi trasferii a Lisbona con l’idea di rimanerci, mi trovavo in una strana situazione. Avevo tagliato in qualche modo le radici con l’Italia, per lo meno momentaneamente, e mi trovavo con una serie di potenzialità aperte. Di qui l’idea del largo: questo spazio che si apre con un istinto fortissimo di potenziare il passaggio, il transito di esperienze in uno spazio che per me era lo spazio della scrittura, ma sapevo che era anche lo spazio nel quale avevo deciso di costruire la mia casa, e infatti Largo delle Necessitàè il racconto di una casa in costruzione, che poi è una casa che non esiste. L’esperienza della dissoluzione delle radici nella dimensione di vita all’estero, in un posto non tuo, lontano da casa. Quest’idea della casa che esiste nonostante sia scomparsa per varie ragioni era in qualche modo la ricerca della mia permanenza in Portogallo, e della costruzione della mia identità, per me determinante in quel momento. Il libro rimase chiuso nel cassetto per molto tempo finché l’idea di Orientexpress non mi spinse in qualche modo a scommettere sul testo, grazie ancora una volta alla determinazione che il fondatore aveva messo nell’idea di raccogliere in qualche modo l’eredità spirituale dell’Orientale attraverso una casa editrice di ex-studenti.”
Lei ha scritto questo libro in italiano. Ha mai pensato di scrivere in portoghese?
“No, non si era proprio posta la questione perché quando ho scritto quel libro il mio rapporto con la lingua portoghese non era ancora così forte da farmi pensare di poter fare poesia in portoghese, e poi perché credo che lo stesso punto di origine del libro dentro di me fosse italiano: capire il mio rapporto con l’Italia in quel periodo e con lo stesso fatto di aver lasciato l’Italia. Poteva quindi solo essere scritto in italiano. Quando l’ho visto tradotto, devo dire che nella traduzione in portoghese era un'altra cosa, doveva essere un’altra cosa. Attualmente però sto facendo una mini esperienza di scrittura in portoghese, anche se una volta ho già pubblicato un racconto in portoghese per un supplemento letterario di una rivista che usciva a Natale del 2007 e che raccoglieva racconti sul Natale di autori portoghesi contemporanei. Il direttore della rivista mi chiese di raccontare come sarebbe stato un Natale possibile a Napoli e io raccontai la storia di un curdo che era Babbo Natale, ma era Babbo Natale semplicemente perché nel centro di accoglienza temporanea gli avevano dato una tuta da ginnastica rossa e il soprannome di Babbo Natale. Questa storia si chiamava Babbo Natale e altri viaggiatori ed era quindi la storia di questo immigrato che costruendo presepi a San Gregorio Armeno si ricordava delle montagne del Kurdistan. Dunque avevo già scritto in portoghese, ma in questo periodo sto investendo molto, in termini di energia personale, nel movimento del Poetry Slam: un movimento internazionale che nasce negli anni Ottanta e che si basa sulla parola detta, la parola recitata, e che a Lisbona ha un certo seguito. Da quando ho iniziato a frequentare queste notti di Slam, queste notti di poesia, ho cominciato a scrivere in portoghese, perché il pubblico è portoghese e perché riesco a comunicare meglio con loro in portoghese, anche se ogni tanto faccio qualche slam in italiano. Questi Slam sono diventati un mio modo di tenere un diario perché tutto ciò che in qualche modo mi colpisce nelle mie giornate, nelle mie deambulazioni per la città, diventa uno Slam in portoghese.”
Le performance di Poetry Slam vengono lette o recitate?
“Funziona così: scrivo il testo man mano che viene, a volte mentre cammino per la città. Mi viene in mente un testo, prendo il quaderno, ho una serie di quaderni che compro per funzioni specifiche, prendo il quaderno dello slam e scrivo. Poi funziona molto meglio se non lo leggi, c’è questa preparazione che consiste nell’imparare a memoria i testi, e lì mi sento un po’ come i bambini che a scuola dovevano imparare la poesia, ma in questo caso è la tua poesia, e cominci a possederla quando la impari. Il rapporto che stabilisci con il tuo testo diventa molto più fisico, perché in qualche modo lo acquisisci e poi devi soltanto metterlo fuori. È un po’ come cantare.”
Tornando al suo libro, Largo delle Necessità, la traduzione in portoghese è stata curata da lei?
“La traduzione l’ha fatta un signor traduttore che si chiama Miguel Serras Pereira, ed è stata pubblicata con la casa editrice Fenda. È una traduzione fantastica sulla quale io sono intervenuta solo sul testo finale in portoghese, perché credevo che un testo sul Portogallo pubblicato in Italia avesse bisogno di una serie di descrizioni e di punti di riferimento concreti che agli italiani mancano sul Portogallo ma che in una edizione portoghese non avrebbero avuto più senso, come ad esempio l’episodio sulla morte di Salazar. Raccontare la morte di Salazar in Portogallo non aveva molto senso perché ovviamente i portoghesi ne sapevano molto più di me su questa vicenda. L’intervento quindi ha riguardato alcune parti del testo che nell’edizione portoghese sono state tagliate e, per quanto riguarda la musicalità del testo, ho modificato alcune cose che a prescindere dalla traduzione corretta preferivo dire in un altro modo per ottenere un effetto più musicale, che poi era quello che avevo cercato in italiano. Più che dire quella cosa specifica mi interessava andare verso il suono delle parole. Un’altra esperienza fantastica è stata l’anno scorso quando ho ricevuto un’edizione tedesca di un antologia dedicata al Portogallo in cui c’erano testi di tutti gli autori portoghesi e, tra gli italiani, c’eravamo solo Tabucchi ed io. Devo dire che è stata una sensazione molto bella, l’idea che la scrittura possa viaggiare indipendentemente da noi nel momento in cui viene messa fuori, che è un po’ quello che succede alle nostre vite quando, indipendentemente dalle nostre scelte, ci troviamo a circolare per il mondo.”
Nello stesso anno in cui è stato pubblicato il suo libro, ha curato la traduzione dell’opera di Eduardo Lourenço Mitologia della saudade. Ci parli di questa esperienza e del suo rapporto con l’autore.
“Si tratta di una raccolta di saggi dettati dalla saudade di questo grandissimo filosofo che è considerato uno dei grandi pensatori europei. Io l’ho conosciuto a Napoli alla presentazione della traduzione italiana, ai tempi in cui ci fu il congresso intitolato Portogallo e Mediterraneo. Avevamo avuto uno scambio epistolare durante il periodo della traduzione, ma non avevamo mai passato del tempo assieme perché lui vive in Francia ed essendo una persona già anziana ha ridotto, per ovvie ragioni, i suoi contatti con il mondo. Però è una persona molto simpatica con una profonda ironia e che conosce bene la cultura italiana perché è stato per parecchi anni addetto culturale portoghese a Roma.”
Come è nata l’idea di questa traduzione?
“L’idea è nata perché l’editore di Orientexpress mi chiese, per una sua ricerca personale, di spiegargli che cosa fosse la saudade, questo concetto intraducibile che caratterizza la cultura portoghese, ed io mi resi conto che per spiegare davvero a un italiano che cosa fosse la saudade all’interno della tradizione culturale portoghese, avendo tutti i riferimenti storici e culturali, l’unico modo era leggere questo saggio di Eduardo Lourenço. Quindi cominciai a tradurlo a fine divulgativo, cioè per farlo leggere a qualcuno. Così tradussi il testo che è poi diventato un testo molto apprezzato, anche se quando uscì, Eduardo Lourenço non era molto noto in Italia. Di questo grande pensatore ci sono solo due libri tradotti, ma è una figura molto importante perché in determinati contesti Eduardo Lourenço è considerato veramente come uno dei più grandi pensatori della contemporaneità.”
Che rapporto ha lei con la saudade?
“Io sono molto saudosista, come si suol dire. Cerco di combattere questo istinto che in fondo è un istinto di paralisi perché uno si ferma a sentire la nostalgia, in qualche modo si crogiola nel dolore. La cosa bella è che nel concetto filosofico la saudade non è soltanto nostalgia ma è una nostalgia anticipata: il soffrire per la felicità che si dovrà avere e che poi si perderà, ed è una specie di inquietudine, un angustia molto complessa perché coinvolge la dimensione temporale, che poi è una dimensione molto presente anche nella filosofia di Eduardo Lourenço. Questo tempo che ci traghetta verso gli approdi possibili che poi dovremo abbandonare per procedere oltre o eventualmente tornare indietro. Questa dimensione del tempo e dello spazio dentro la paura della perdita credo sia la dimensione nella quale tutti viviamo. Io, in particolare, vivendo in Portogallo, avverto molto la lacerazione interna del conoscere due universi: quello mio di nascita e quello in cui ho vissuto e vivo. È una distanza che suppone necessariamente un dolore, il dolore della non ubiquità. C’è un testo molto bello di Amin Maalouf che s’intitola Le Identità tradite in cui si dice che chi emigra vive un doppio tradimento: da un lato il tradimento alla terra che hai lasciato e dall’altro il tradimento alla terra che ti ospita perché non sei completamente dentro, non abbracci mai completamente quella cultura, quel territorio, perché ti porti dentro un'altra appartenenza. Proprio questo sentimento dell’appartenenza è la mia dimensione della saudade.”
Lei ha curato anche un volume di racconti di studenti per l’associazione 33,3 periodico.
“Sì, Dall’asilo dell’invisibile, che ricordo! Dall’asilo dell’invisibile è nato nel 1998 credo ed era frutto del lavoro dell’associazione 33,3 periodico, dove all’interno di ogni rivista c’era uno spazio dedicato ai racconti degli studenti dell’Orientale. Organizzammo anche un laboratorio di scrittura all’interno del quale invitammo Erri De Luca. Ricordo quest’esperienza di andare a prendere Erri De Luca alla stazione: ero giovanissima ed ero terrorizzata da questo personaggio complesso che mi trasmetteva un terrore sacro. Erri De Luca venne a parlare con noi, con gli studenti, della sua esperienza politica e letteraria. Da questo laboratorio di scrittura nacque quest’antologia che raccoglieva i testi degli studenti dell’Orientale divisi per quattro linee di lettura. Fu un esperienza molto bella di condivisione dello spazio della scrittura.”
Chi teneva questi laboratori di scrittura?
“Io. La mia era una passione molto intuitiva, sentivo l’esigenza di scrivere e avevo lavorato alla rivista come editore, che poi è stato un lavoro che ho fatto anche qui in Portogallo per un certo periodo. Mi piaceva l’idea di colui che riesce a dare spazio e visibilità a tutto ciò che di sommerso avviene nel mondo della produzione. Tra gli studenti cercavo gli scrittori all’interno di palazzo Giusso e li convincevo a farmi leggere i loro lavori. A volte erano gli studenti stessi a portarmi i loro scritti, e così nacque l’idea di questo laboratorio che non era un corso di scrittura ma, in quanto laboratorio, chi partecipava non si aspettava una lezione ma un coordinamento tra le varie istanze che sorgevano. Noi lavoravamo, riflettevamo sulla scrittura. E poi c’era il giornale che era già di per sé un laboratorio di scrittura.”
Dove veniva stampata la rivista 33’3 periodico?
“Veniva stampata presso il centro stampa Desktop dell’Orientale, dal signor Umberto Cinque, che ci diede una sede e le attrezzature per stampare questo giornale. Dopo aver stampato tornavamo a casa con questi fogli e passavamo pomeriggi interi ad assemblare e impaginare la rivista, che poi veniva distribuita all’interno di palazzo Giusso. Ognuno di noi faceva lo strillone andando in giro a vendere il giornale. In realtà, non si trattava proprio di vendere perché chiedevamo agli studenti un contributo per le spese dell’associazione e ne approfittavamo per rafforzare il rapporto col nostro pubblico. In qualche modo raccoglievamo le rivendicazioni degli studenti, le loro esigenze, e le portavamo in questo laboratorio che era la rivista. Perciò dicevo che era un modo per continuare lo spirito dell’occupazione.”
Come ha avuto inizio il suo rapporto con la scrittura?
“Ho iniziato a scrivere da adolescente perché avevo una amica che abitava a circa 200km da Sapri e decidemmo assieme di scrivere un libro a quattro mani, il che era impossibile all’epoca perché non c’era internet e non c’era Skype. Quindi la sera, quando i genitori andavano a dormire, ci attaccavamo al telefono e ci dettavamo le parti che ognuna aveva scritto finché non arrivarono le bollette e si capì che c’era qualcuno in casa che stava commettendo una irregolarità. Però restava l’esigenza di comunicare attraverso la scrittura. Da lì capii che mi interessava scrivere, cercare cose dentro di me e riportarle in forma scritta. Successivamente pubblicai racconti nell’antologia Dall’asilo dell’invisibile, e devo dire che la scrittura è stata sempre per me uno spazio ludico da un lato, e dall’altro lo spazio di una ricerca dentro me stessa, di costruzione della mia identità, di recupero di quei pensieri e di quelle distanze che in qualche modo componevano la mia personalità. Sono nata in una casa accanto alla stazione ferroviaria e dalla mia finestra vedevo i treni passare la notte. Già dalla prima adolescenza, quindi, provai questa inquietudine a sapere che c’era un mondo oltre quella finestra che veniva visitato costantemente da coloro che passavano dentro quei treni, e questa cosa mi ha sempre spinto a cercare con l’immaginazione un altro spazio.”
Dal 2002 insegna all’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona. Come è iniziata questa collaborazione?
“La collaborazione è iniziata in quel fatidico anno di cui le ho parlato in cui decisi di venire a vivere a Lisbona e di cercare un lavoro. Lasciai il curriculum e fui chiamata per un colloquio in una fase in cui stavano cambiando il corpo docenti, così cominciai ad insegnare all’Istituto di Lingua e Cultura Italiana. Oggi tengo anche un laboratorio di scrittura in italiano, ed è una cosa bellissima perché c’è il confronto con la scrittura in un'altra lingua. Quindi, oltre a sviluppare questo rapporto personale con la scrittura, gli studenti sviluppano anche le strutture dell’italiano. Quando incominciai con i corsi di lingua c’era questa sfida interessante di essere mediatore culturale tra la cultura portoghese e quella italiana, di avere in mano un patrimonio non soltanto linguistico e di doverlo trasmettere in maniera profonda a persone che volevano entrare in questo universo, che poi era quello che avevo vissuto io all’Orientale con il portoghese. Era un po’ come restituire quell’energia acquisita nel mio percorso individuale.”
L’istituto ha molti iscritti? Com’è considerata la lingua italiana al giorno d’oggi in Portogallo?
“Sì, sono molte le persone che studiano la lingua e la cultura italiana per varie ragioni: professionali, sentimentali, e ci sono iscritti di diverse età, ad esempio ho un alunno di 88 anni e uno di 12 anni. La lingua italiana ha un alone di fascino che la circonda, è considerata una lingua importante nella sua dimensione di veicolo culturale, è la lingua dell’architettura, della lirica, della poesia, ed è considerata la lingua della musica, una lingua dalle potenzialità musicali infinite. Questa cosa è molto bella, oggi che è l’inglese ad essere considerata la lingua più importante.”
Si reiscriverebbe all’Orientale?
“Certo, immediatamente. Prima o poi lo farò. Per una seconda laurea.”
Le è capitato di leggere il Web Magazine?
“Sì, l’ho guardato e lo trovo un’iniziativa geniale perché io sono una che ha fatto il magazine su carta, quello analogico, voi invece siete il digitale. Lo trovo uno specchio dello spirito dell'Orientale, attento alle culture, alla polifonia, apre a molti viaggi possibili, alla presenza nel mondo e dunque ad una cittadinanza attiva. Tutto questo è tipico della città Orientalenella quale ho vissuto gli anni della mia formazione, e nella quale io (come ogni ex-studente) continuo a vivere, non solo nella memoria e nel senso di appartenenza... Bravi!”
Davide Aliberti - Editing: Francesco Messapi