Maurizio Braucci, Per sé e per gli altri
Maurizio Braucci, Per sé e per gli altri
Lo scrittore napoletano presenta il suo ultimo libro all’Orientale
Napoli, 18 Maggio 2010 – "Ospite della professoressa Carotenuto" si legge sulle locandine affisse ai muri di Palazzo Giusso. Sono locandine grandi, di quelle per pubblicizzare gli eventi per cui si pensa valga la pena prendere posto e ascoltare, almeno per un po’. E' solo alla fine dell’incontro, però, che si capisce il senso.
La plurivocazionalità artistica di Braucci si lega in un certo senso alla figura di un Mediterraneo stratificato ma infinitamente accogliente, ospitale, e la cui messa in dubbio, per avere giustificazioni, fa appello ad una storicità più politica (la tendenza all’espansione che sostiene lo sfruttamento) che creativa.
Per sé e per gli altri viene considerato un punto d’arrivo tra gli scritti dell’autore e allo stesso modo – neanche troppo paradossalmente – rappresenta un punto di partenza per chi legge: dove andare, a partire da questo libro.
Braucci attinge a vari generi trovando – nella loro giusta fusione – una semplice, scorrevolissima alchimia. Per definizione, è letteratura di viaggi, capace d’alternare un po’ di genere mafia a spruzzi di ricerca biografica. In soggettiva, è il racconto di un uomo a cui tocca il rompicapo di giudicare il padre (e la madre) smitizzandone – alla morte – gesta e parole, prima di uno poi dell’altro. Il padre è l’emigrante che ce la fa, che conquista in terra straniera il rispetto e la vita che in patria, la camorra e il malaffare (in questa storia a lui imputabili) gli avevano succhiato via. Antonio Saporito è il sarto, in Messico come a Napoli, che lì nella sierra si è dato la possibilità di ricominciare, con una nuova moglie e un nuovo figlio. D’altra parte, come dice Braucci, da sempre l’uomo viaggia per finire col fare poi la stessa cosa che faceva da dove è partito.
Diversamente, la madre – con in seno la vita e la morte di cui nutre i figli – decide di rinunciare alla rinascita dopo l’abbandono del marito, ma forse era già morta prima che la malattia l’assecondasse. Tutto emerge ripercorrendo le terre violente e vilmente corrotte di Città del Messico; una volta porta verso l’Europa, città da cui partivano i metalli preziosi e gli schiavi mentre arrivavano arance, educazione cattolica e malattie, ora (in questo spaccato, l’autore tiene a precisarlo) terra di Mara Salvatrucha, di donne rapite, stuprate e ammazzate – merce di un mercato pornografico e festini del potere anestetizzati dai fumi di droghe d’ogni tipo. Ma soprattutto, luogo della tomba del padre.
A differenza di altra letteratura d’eredità classica, la ricerca dell’identità (ammesso che esista), del padre, di quello slancio che il protagonista ha da ricercare nel futuro del suo ritorno, qui non vengono raggiunti. Il postponimento (come definito dalla Carotenuto) sta tutto nella rivelazione del sarto, e forse anche nello svecchiamento della sua figura di cattivo. Il dubbio è anche nella probabile risoluzione etica (accetterà i soldi che servono a pulire la coscienza del falso Kraus?), ma il punto, o almeno il mistero principale, non è questo. Piuttosto, il linguaggio del libro, le parole di un uomo che si avvicina al pensiero femminile proprio negando di poter capire la violenza se da sempre addestrato alla cultura [maschile] del potere dominante del suo sesso (razzismo storico): questa è l’isola a cui attraccare.
Il viaggio di Braucci, oggi – in quest’aula – come allora (da solo, dunque più mimetico nei luoghi e nelle persone che incontra) inizia proprio dalle parole di Elena Poniatowska, un’intellettuale borghese impegnata che, binomio strano a dirsi, un giorno gli parlò di cucina ed immigrazione. La cucina messicana che sta conquistando gli Stati Uniti d’America, si rivelò però proprio quell’allargamento del concetto di cultura che trova nel nutrimento (e conseguente incontro/scontro) l’ospitalità giusta, quotidiana da ricercare. La problematicità del secondo fenomeno (paragonato, perché ne soffrono insieme le contraddizioni, al comunismo di 20 anni prima) vuole fortemente navigare a sostegno d’uno sforzo dinamico di tolleranza per cui non v’è rifiuto ma inevitabilità del confronto.
Braucci la somministra, liofilizzata in pillole, alla schizofrenia dei popoli subalterni (leggi: quelli dei Sud del mondo), oscillante tra megalomania e nichilismo passivo (deriva autolesionista per cui avere sfiducia nelle istituzioni significa non avere fiducia in sé stessi). La prescrive contro la retorica governativa – naturale conseguenza della rivoluzione del 1910 – i luoghi del potere dove vengono ritrovati i corpi di donne straziate (a Ciudad Juárez, Chihuahua); contro il Messico dei trasportatori e produttori di droghe sintetiche, della corruzione statale, del narco-satanismo, del maschilismo delle società patriarcali, delle frontiere che spingono fino alla morte aldilà di linee immaginarie.
La storia del protagonista (siamo costretti a ripeterlo, non ha nome) è la storia di un naufrago [della storia] a confronto col suo attuale smarrimento, ove il senso di morte si equipara, si sovrappone oggi, al senso di vita, e la cui compresenza tra vivi e morti – culto questo ispanico per eccellenza – sceglie il Messico, così come la Napoli dell’infanzia che si porta dietro, per dimostrare che più che come conseguenza di una decantata onnipotenza tecnologica, il delirio dell’uomo è – come sempre – generato dai concetti di vita/morte/malattia a cui ancora non trova risposte.
Per sé e per gli altri è l’ultimo, estremo appello al rilancio di un istinto di vita: saper badare à sé stessi e tenere agli altri, ricominciare a saper campare.
Più che nozioni, sono immagini di un viaggiare necessario al bisogno di andare e capire l’alterità.
Claudia Cacace