Mente, corpo, linguaggio

 

Mente, corpo, linguaggio

Gian Battista Vico, Scienza nuova (pag. 1725, risguardo)

Sabine Marienberg per la prima delle lezioni del Dottorato in Teoria delle Lingue e del Linguaggio

La prima lezione in programma quest'anno ha visto la partecipazione della dottoressa Sabine Marienberg, della Berlin Brandeburgische Akademie der Wisseschaften, i cui interessi di ricerca abbracciano la filosofia dei segni, le teorie sulle origini del linguaggio e l'antropologia, spaziando fino all’ambito musicale. Dopo aver conseguito nel 2003 un dottorato di ricerca alla Freie Universität con una tesi sul linguaggio di Gianbattista Vico e Johann Georg Hamann, la studiosa è stata collaboratrice indipendente nel progetto Multilingual-Brain-Projekt dell'Università di Basilea per un biennio e dal 2006 è collaboratrice scientifica nel gruppo di lavoro sulle funzioni della coscienza della BBAW.

Il titolo introduce subito nel vivo della questione: una riflessione sul legame tra mente, corpo e linguaggio e su quella che la dottoressa Marienberg definisce “la maledizione dei tre”, perché “se ne prendi uno solo, arrivano sempre anche gli altri due”.
La triade, infatti, evoca il “non essendo altro l'uomo propriamente, che mente, corpo e favella” vichiano.
Lo studioso rappresenta uno dei punti di partenza della riflessione per l'attenzione rivolta agli aspetti corporei del linguaggio ma, soprattutto, per la scoperta secondo cui “gli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono sublimi poeti”. Questa intuizione, infatti, consente di introdurre quello che sarà uno dei temi principali dell’ampio discorso: la forza poietica del linguaggio, la lingua come attività creatrice.
La dottoressa Marienberg, partendo dagli aspetti percettivi e cognitivi, si interroga sul valore della nostra relazione con il mondo. Che cos'è un'esperienza? Non è la sperimentazione di uno stato, bensì di un passaggio di stati differenti. Anche se il percepire in isolamento, identificando invarianti ed elementi discreti, è ovviamente un prerequisito, il momento essenziale e fondante dell'esperienza è costituito dalla percezione della relazione, ovvero dell'articolazione: il sentire non uno stato puntuale ma il cambiamento di uno stato di cose. Questa definizione richiama quella del sense of reaction di Charles Sanders Peirce, in base alla quale “This sense of acting and of being acted upon, which is our sense of the reality of things, – both of outward things and of ourselves [...] It does not reside in any one Feeling; it comes upon the breaking of one feeling by another feeling. It essentially involves two things acting upon one another.”
Senza dimenticare, quindi, che la parola e la scrittura sono oggetti concreti sperimentabili oltre che strumenti simbolici, si è passati dall’esperienza alla dimensione semiotica prendendo in esame le funzioni cognitive e comunicative del linguaggio.
È possibile definire il nome come strumento che permette di distinguere le entità e di conoscere il mondo, tuttavia, nell’attività classificatrice e separatrice del linguaggio, qualsiasi attribuzione di un predicato linguistico comporta la simultanea associazione ed eliminazione di possibili significazioni. Nel privilegiare una determinata attribuzione simbolica, infatti, si tracciano dei confini che possono essere immaginati come limitazioni linguistiche della ricchezza del contesto comunicativo.
Ed ecco che, se nel linguaggio può essere implicita una qualche forma di violenza rispetto alla complessità del reale, la funzione poetica ritorna nuovamente al centro del discorso come momento in cui è possibile evadere ludicamente dalla prigione linguistica proprio grazie alla dialettica tra autolimitazione e liberazione. L’immagine della “danza in catene” di Nietzsche contribuisce a rendere ancora più chiara questa descrizione del linguaggio, di quello poetico in particolare, in equilibrio tra tensioni differenti e a volte contrastanti.
Passando poi dalla dimensione simbolica a quella concreta e corporea dell'articolazione, la dottoressa Marienberg si è soffermata sull’importanza del ritmo e della voce nel linguaggio, sugli elementi sonori o se si preferisce musicali della nostra comunicazione. Se una delle funzioni del nome è di dividere il mondo in unità concettuali, il ritmo è ciò che rende sperimentabile il tempo, e non soltanto quello linguistico. Una periodizzazione che permette di coniugare la libertà e la regolarità, l’identità e l’alterità; quella che, adottando la definizione di Ludwig Klages, si potrebbe definire come una ripetizione dell'analogo nell'identico.
Infine, la riflessione è terminata – lasciando aperti numerosi orizzonti – con un ritorno alla citazione iniziale di Vico: “non essendo altro l'uomo propriamente, che mente, corpo e favella; e la favella essendo come posta in mezzo alla mente, ed al corpo”.
La voce – esempio concreto e sperimentabile della transitorietà del linguaggio – è stata descritta come punto di congiunzione rispetto alla triade linguaggio, mente, corpo. Manifestazione che si situa al confine tra l'interiorità della percezione e dell'elaborazione e l'esteriorità corporea dell’attività linguistica, come espressione concreta della continua dialettica tra natura e artificio, immobilità e mutamento, chiusura e apertura. La voce che è già assenza nella sua effimera presenza e che, per riprendere il pensiero di Roland Barthes, è soltanto per una negazione disperata che può esser definita viva.

Azzurra Mancini

© RIPRODUZIONE RISERVATA