Napoli vista dagli occhi di un giapponese: l’incontro tra due mondi
Napoli vista dagli occhi di un giapponese: l’incontro tra due mondi
Il Web Magazine ha incontrato Kosuke Kunishi, giovane ricercatore originario di Yokohama ora a Napoli, per farci raccontare la sua personale esperienza di vita della città
Luogo natale della pizza, culla dello stereotipo italiano del mangiare, cantare, amore, passaggio obbligato per la celebre Ao no dokutsu o Grotta Azzurra di Capri, città gemellata con Kagoshima: sono tanti i motivi per i quali Napoli esercita un fascino particolare sui giapponesi.
Nelle omnicomprensive guide giapponesi sull’Italia le bellezze partenopee occupano sempre un posto di rilievo. Né mancano trafiletti dedicati alla descrizione della giovialità della gente o agli ammonimenti relativi ai problemi esplicitamente legati a sporcizia e criminalità.
La maggior parte dei turisti giapponesi, però, nei brevissimi (spesso limitati a qualche ora) soggiorni ha solo il tempo di farsi un’idea parziale della città, poco aderente al reale.
Per sapere meglio come appaia Napoli agli occhi di un giapponese che turista non è, il Web Magazine dell'Orientale ha incontrato Kosuke Kunishi, giovane ricercatore originario di Yokohama, che ci parlerà della sua personale esperienza di vita della città.
Dottor Kunishi, di che cosa si occupa e quando è arrivato a Napoli?
“Innanzitutto voglio salutare i lettori del Web Magazine dell'Orientale, sono felice di questa intervista. Attualmente sono iscritto al terzo anno del dottorato di ricerca in italianistica dell’Università di Kyoto dove sto lavorando sulle opere di critica letteraria di Benedetto Croce. In particolare mi occupo del progresso delle sue opinioni nei confronti di D’Annunzio dagli inizi della carriera estetica fino alla fine.
Interessandomi di Croce, il quale ha passato gran parte della vita a Napoli, mi sembrava dunque indispensabile trascorrere del tempo nella città per raccogliere materiale, consultare degli esperti in materia e approfondire la conoscenza della lingua italiana. Così sono arrivato qui lo scorso Ottobre e ripartirò alla metà di Luglio, ma non escludo di tornare ancora, vista la ricchezza di stimoli scientifici, umani e sociali che la città offre”.
In quali istituzioni sta svolgendo le sue ricerche? Che esperienza ha avuto del sistema universitario italiano?
“Trovandomi a Napoli, ho cercato di approfittare della sua antica e rinomata tradizione culturale seguendo quante più lezioni presso Atenei e istituti di ricerca.
Ufficialmente sono iscritto all’Istituto Italiano per gli Studi Storici, ma essendo questa una società dedicata a ricercatori già affermati, dal post-dottorato in su per intenderci, non offre molti corsi per chi, come me, vorrebbe aumentare le sue conoscenze. Così mi reco a volte all’Università Suor Orsola Benincasa, dove una docente segue l’avanzamento del mio lavoro. Inoltre, grazie a conoscenze maturate in Giappone, due docenti della Federico II mi hanno permesso di frequentare le loro lezioni: un corso riguarda Dante e l’altro Foscolo, Manzoni e Verga. In ultimo, ma non per importanza, trovo molto utili anche i cicli di lezioni di filosofia aperti a tutti presso l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici.
Questo percorso a zig zag tra le varie istituzioni, tuttavia, mi ha permesso di fare poca esperienza diretta del sistema universitario italiano e della sua organizzazione.
Ammetto inoltre che forse il mio rapporto con i docenti è stato una sorta di relazione privilegiata: presentandomi come ricercatore estero e domandando loro appuntamento attraverso precedenti conoscenze, tutti i professori si sono dimostrati sempre ben disposti e gentili nel darmi consigli. Tuttavia sono certo che la realtà media degli universitari italiani non sia sempre così idilliaca”.
Questa è la sua prima esperienza in Italia?
“No. Quando avevo 16 anni, grazie al programma di scambio Intercultura, ho passato un anno scolastico in un liceo di Trento, ospite di una famiglia locale.
Quando arrivai ricordo che ero spaventatissimo perché non parlavo nemmeno una parola d’italiano. Tutti però mi sono stati molto vicini, insegnandomi con pazienza a partire dalle cose più semplici.
Senza dubbio è stata un’esperienza che mi ha maturato molto, spingendomi in seguito a non abbandonare lo studio della lingua e della cultura italiana”.
Che impressione ha avuto di Napoli?
“La mia prima volta a Napoli risale al Giugno 2010, quando ho trascorso due settimane nella città in modo da capire come organizzarmi nei mesi successivi.
Nella mente, per anni, la mia immagine dell’Italia ha corrisposto con le esperienze del soggiorno a Trento, ma appena arrivato a Napoli, mi sono accorto di essere in tutto un altro mondo, nel bene e nel male.
Attraversando luoghi come Via San Biagio dei Librai, Piazza del Gesù ma anche Via Roma o Piazza del Plebiscito, la mia primissima impressione è stata quella di trovarmi immerso in un film surrealista di Pasolini: ogni persona sui marciapiedi, affacciata alla finestra, ma anche i cani liberi in strada, sembravano recitare una parte, tanto i loro vivaci atteggiamenti erano per me così nuovi.
Ammetto di essermi piacevolmente divertito a passare in mezzo a quella spensierata e colorita confusione da dimenticare per un attimo tutti gli impegni.
Come si trova a vivere a Napoli?
“Come nei film di Pasolini, dove ci si diverte ma le vicende hanno sempre un fondo di amarezza, vivere a Napoli per un periodo abbastanza lungo rivela anche delle difficoltà ed esige spirito di adattamento.
Ho ben presto notato un certa ‘violenza’ nel traffico: le auto che suonano, i motorini che si infilano dappertutto, i pedoni che attraversano senza una regola. Per quanto riguarda la sicurezza e i piccoli crimini però, fortunatamente o perché ci sto molto attento, non mi è mai successo nulla.
Come dicevo, inoltre, quanto presumevo di sapere sui costumi italiani non sembra avere qui tanto valore.
Per esempio la mia famiglia di Trento, ci tenne ad insegnarmi dall’inizio le formule di saluto fondamentali, pregandomi di utilizzarle ogni volta che si incontrava qualcuno o si entrava in luoghi pubblici (in Giappone invece non è abitudine per i clienti di salutare i commessi, per esempio).
Avevo quindi una forte convinzione dell’importanza europea dei saluti come una forma di rispetto e socializzazione. A Napoli, invece, prima del classico «buongiorno» o «salve», è comune si crei tutta un’altra comunicazione fatta di sguardi e gesti in cui la prima parola è sempre «ué» oppure «che vvoi?».
Curioso è anche il trattamento ricevuto nei negozi. Anche se il mio aspetto rivela chiaramente come io non sia italiano, si può stare certi che il venditore si rivolgerà a me senza fare distinzione dagli altri clienti napoletani: ovvero salutandomi sbrigativamente (in Giappone i negozianti devono invece salutare in maniera estremamente gentile), usando termini dialettali o marcando l’accento partenopeo.
Nei primi mesi, quest’atteggiamento mi spaventava e quasi mi offendeva, ma ora lo apprezzo perché mi fa sentire integrato al resto della popolazione. Se non capisco le parole, i negozianti sono poi ben disposti a ripetermi i termini napoletani: per risolvere del tutto i miei dubbi linguistici, dovrebbero però ricordarsi anche di indicare sempre il significato in italiano!”
E con la burocrazia, come si è trovato?
“Della burocrazia all’Università conosco poco, non essendoci iscritto. Posso esprimermi invece sulle procedure che riguardano la mia regolarizzazione e quello che concerne l’ottenimento del Permesso di Soggiorno.
Di stranezze ne ho incontrate diverse anche se non so fare paragoni con quanto succeda ai residenti esteri nel mio Paese, non essendo mai stato straniero in Giappone. Per esempio, mi è rimasto impresso che per prenotarsi in Questura bisognasse andare prima alla Posta, fare la fila ad uno sportello speciale, per poi accorgersi che tutti gli sportelli possono compiere quell’operazione in realtà.
Mi ha stupito come ci siano cose che sembra che tutti siano tenuti a sapere ma che non si sa dove siano scritte, oppure il modo con il quale alla legge venga trovata una deroga.
Mi spiego meglio: quando sono andato a fare il Visto in Giappone mi era stato spiegato che avrei dovuto fare richiesta del Permesso di Soggiorno entro otto giorni dal mio arrivo. Solo che i moduli appositi (il cosiddetto ‘kit’) alla Posta erano ogni volta terminati o non ancora arrivati, così ho dovuto per forza espletare queste formalità dopo il termine stabilito dalla legge”.
Che cosa le piace di Napoli?
“Mi piace l’atteggiamento spontaneo ed estroverso della gente che non si spaventa o si imbarazza quasi di fronte a nulla.
I rapporti avuti poi con i docenti nei vari Atenei ed istituti della città sono stati una cosa meravigliosa: non sono autoritari come in Giappone e questo mi ha permesso di discutere liberamente, esprimendo anche i miei dubbi più ingenui.
Sebbene Napoli sia una metropoli, inoltre, apprezzo la presenza di artigiani e piccole botteghe, tenute in grande considerazione dalla gente.
In ultimo, un aspetto che è sia positivo che negativo, è il rapporto tra i napoletani e l’arte. La città è ricchissima di palazzi nobiliari, chiese barocche, statue rinascimentali, raffinate edicole votive e trovo piacevole vedere come la popolazione viva integrandosi e svolgendo le proprie attività all’interno di questo museo a cielo aperto.
Mi spiego meglio: dei bambini che giocano a calcio nel cortile di un palazzo antico o un graffito su un muro, da una parte rovinano certamente il monumento, ma dall'altra sono da interpretarsi come testimonianze della vita dentro questa bellezza. Tutto ciò è molto diverso dalle altre città come ad esempio Firenze in cui i monumenti sono rimasti ben conservati ma non dimostrano nessuna traccia della vita fiorentina.
Dimenticavo una cosa che amo tantissimo: il caffè napoletano! Non sono un gourmet e non mi sento in grado di giudicare la pizza o i dolci (anche perché non li mangio ogni giorno) ma l’aroma, la consistenza ed il sapore del caffè mi hanno completamente conquistato”.
Ci dice invece qualcosa che non le è piaciuto della città?
“Soffro per la mancanza di grandi spazi aperti: passeggiare per gli stretti vicoli del Centro Storico, circondato da alti edifici che nascondono la luce del Sole mi fa sentire un po’ soffocato. Anche nelle vie più importanti, la situazione non cambia molto: spesso gremite di persone e automezzi, si è costretti a farsi strada scansando pedoni, venditori ambulanti o motorini. Non voglio dire che in Giappone non ci sia mai folla in giro per strada o nei locali, ma la circolazione è certamente più ordinata.
La spazzatura sui marciapiedi, poi, non è certo un piacevole scenario e, mentre prima attendevo la risoluzione definitiva del problema da una settimana all’altra, oggi ho capito che la quantità di monnezza nelle strade è governata da una specie di ciclicità di aumenti e diminuzioni”.
Dov’era quando è successo il terremoto dello scorso 11 Marzo?
“Ero appena tornato dall’Italia e mi trovavo nella mia casa a Yokohama. Erano le due e mezza. I miei genitori avevano finito di pranzare e mia madre si è messa a riscaldare gli avanzi per me. Poi mi sono seduto a tavola e ho cominciato a mangiare ed è in questo momento che la terra ha iniziato a tremare per dei lunghissimi minuti.
Cercando di ripararmi, ho subito capito che si trattava di un evento eccezionale.
La sera non abbiamo avuto luce e gas ma, fatto salvo di questo, come i tre quarti della popolazione giapponese, ho assistito alle scene di devastazione soltanto attraverso la televisione o internet, seguendo le informazioni dai vari media e dal Governo.
I giorni seguenti sono stati all’insegna del rispetto delle regole, dell’altruismo, o più precisamente, dell’anti-egoismo assoluto e penso che questo comportamento abbia evitato che ci fosse un disastro molto più grande di quello ch’è realmente accaduto.
Alcuni miei amici stranieri mi hanno scritto dicendo che la reazione dei giapponesi in questa occasione è stata esemplare. Sono d’accordo: sono fiero di essere giapponese.
Eppure la catastrofe ha modificato profondamente le menti, facendo anche nascere atteggiamenti di fanatismo e nazionalismo. ‘Tutti per il Giappone’: ecco una parola chiave di quei giorni. Tantissimi giapponesi hanno fatto una donazione cospicua per la ricostruzione ma ci sono state critiche a quelli che non l’hanno fatta, a chi lasciava le zone attorno a Fukushima o a chi comprava scorte di cibo o acqua. Oppure, in forum su internet, ho visto gente che voleva organizzare ronde contro ‘non-giapponesi’, soprattutto cinesi o coreani, accusati di andare a fare sciacallaggio nelle zone abbandonate.
Solo il tempo potrà dire come si metteranno le cose e chi avrà ragione nel susseguirsi delle notizie. Per ora nel mio cuore, e in quello di tutti i giapponesi, i veri eroi rimangono quei pochi uomini senza nome che hanno lavorato nelle centrali di Fukushima per evitare l’aggravarsi della crisi”.
Fabiana Andreani
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