Pasolini e il Vantone di Plauto

 

Pasolini e il Vantone di Plauto

Pier Paolo Pasolini

Napoli, 23 aprile 2010 – Si è concluso il seminario Trickster e tiranni. Poteri e linguaggi simbolici della realtà, una quattro giorni di conferenze ed interventi a cura di Michele Bernardini e Camilla Miglio

In programma per la giornata di ieri, a palazzo Du Mesnil, la presentazione di Carlo Vecce su Pasolini e il Vantone di Plauto. Ė comunicazione e sua rottura lo scenario di chiusura tra dominante e subalterno – di richiamo gramsciano – che genera in quest’ultimo forme, più o meno silenti, di dissenso, sofferenza, e che non lascia al basso, pur di non implodere, che organizzarsi in rivoluzione. Ma rivoluzione del linguaggio; atto simbolico di per sé, rappresenta nel caso specifico una specialissima forma di comunicazione, individuale a tendenza unificatrice.
La richiesta di una traduzione (ricorretta all’anagrafe, per il risultato ottenuto, col nome di traslazione) dell’opera plautina, rientra nella serie di episodi ordinati da Vittorio Gassman al fine di rifare (ristrutturando e reinterpretando attualizzando) il teatro classico. Pasolini modernamente traslerà dal greco al dialetto romanesco, per intenderci, non quello di borgata. Ė piuttosto la lingua del Belli, un romanesco letterario insomma; si rifà, entro certi canoni, alla popolarità d’avanspettacolo di Petrolini.
Da linguista, Pasolini preferisce optare per un neologismo con cui adattare il Miles Glorious: il Vantone, ovvero “il soldato spaccone”, in segno di quel militarismo vuoto, tutto pacchia e vita borghese, affrontato quasi con gentile arroganza, mai affondando il colpo. Gli varrà la critica di gran parte della sinistra, una su tutte quella dell’Unità. Ė il 1963: sono mesi temibili questi, di rivalità scongiurate tra blocco occidentale e blocco orientale; si chiede agli intellettuali impegnati di parlare contro la guerra, il militarismo, l’imperialismo. Diversamente, questa traslazione – nata casualmente su ordinazione in sole tre settimane – viene considerata un’occasione mancata.
In una lettera, in risposta alle critiche mosse dal giornale, Pasolini denuncia: "Non bisogna snaturare il testo antico per una improbabile attualizzazione marxista; il pubblico esce dal mio spettacolo con un’idea farsesca, comica (esaltata dagli a parte), ma esatta di quello che fu una società funebremente deformata dallo schiavismo: la società di Roma antica. Diamo una lettura della commedia di Plauto quale era in realtà al suo tempo e non come è stata poi deformata dalla tradizione comica occidentale, dal rinascimento fino ad oggi". Capire la condizione di schiavi, donne e prostitute è oggi capire il perché dei loro linguaggi dell’inganno/della libertà nei confronti del potere del tiranno delle classi dominanti.
Sono ruoli sociali irrigiditi e non comunicanti tra loro; in termini rivoluzionari, al subalterno non resta che l’inganno (sul piano della comunicazione) per adulazione e seduzione ad opera di schiavi e donne (i due piani della subordinazione).
L’unico sforzo che pare non ricada su Pasolini lo si deve alla già innata attualità del testo plautino; ancora più facile poi per il regista italiano rappresentare un tipo che fino a poco prima aveva in casa con lui: il Vantone era (anche) il padre. Un colonnello attaccabottoni (così come lo aveva definito Carlo Emilio Gadda, esausto dalle richieste di raccomandazione del padre per il figlio), fastidioso, invadente, millantatore di sola vanagloria.
E allora: padre, militarismo, guerra; il tutto spettacolarizzato da belle divise impreziosite da medaglie dell’orrore, onorate da spille del domino e della violenza.
Pasolini sfugge ad una facile satira anti-militaristica, puntando sull’immediatezza dell’ideologia piccolo-borghese nella sua concezione principale: il generale.
Il Vantone resta tuttora un testo di notevole fortuna teatrale. Nell’ultima rappresentazione del 2009, Roberto Valerio azzarda (forse per eredità pasoliniana) la rinuncia ai costumi da antichi romani, da centurioni; protagonista corale della scena è il sottoproletariato di borgata, quello da zuppa di fagioli in pentola e canotte bianche.
Fatto sta che il regista de La rabbia non rinuncia mai alla provocazione, tanto meno alla sua maschera di vittima predestinata: che sia Pasolini il vero trickster?

Claudia Cacace

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