Pasolini, l’arrabbiato
Pasolini, l’arrabbiato
Intervista a Roberto Chiesi
Nel 1964, André S. Labarthe, critico dei Cahiers du cinéma e Janine Bazin, moglie del celebre André Bazin, co-fondatore degli stessi Cahiers, creano Cinéaste de notre temps. Si tratta di una serie di documentari da cui è tratto proprio Pasolini, l’enragé di Jean-André Fieschi – film proiettato all’Institut Français de Naples lo scorso 16 novembre in occasione delle Giornate Camus Pasolini – che volevano, per mezzo di altri giovani cineasti, ritrarre le linee e le vite di autori riconosciuti, viventi o morti e attraverso questi parlare di cinema e mezzi.
Per intenderci è di André Bazin l’espressione montaggio proibito. Fustigatore tanto del découpage classico quanto del montaggio connotativo, il critico giurò eterna fedeltà al piano sequenza, secondo lo stesso, capace di esprimere la continuità del reale in maniera efficace. Eppure l’arrabbiato PPP scrive nel 1967: “La morte compie un fulmineo montaggio della nostra vita. Solo grazie alla morte la nostra vita ci serve ad esprimerci. Il montaggio opera dunque sul materiale del film (che è costituito da frammenti, lunghissimi o infinitesimali, di tanti piani sequenza come possibili soggettive infinite) quello che la morte opera sulla vita”. Come direbbe Walter Murch, in un batter d’occhi.
Roberto Chiesi, critico cinematografico e curatore del Centro Studi – Archivio Pasolini della Cineteca di Bologna ci spiega cos’è il montaggio per Pasolini.
“C’è una bellissima considerazione di Pasolini sul montaggio che è quello che paragona quest’ultimo alla morte. Finché la vita di un individuo continua, scorre in modo piano, lineare e senza stacchi, evidentemente. Sempre per il parallelo che l’intellettuale fa tra il cinema e la vita, è come se fosse un film infinito dove le riprese avvengono indefinitamente e continuano in un piano sequenza ideale. Poi, interviene la morte; il personaggio muore e a quel punto, in quelli che rimangono, si opera una sorta di montaggio mentale. Questo sta a significare che nella memoria rimangono dei momenti che per un motivo o per un altro ricordano, a chi rimane, la persona che è morta. Si tratta di una considerazione ancora più poetica, più che teorica direi, quella secondo cui la morte era proprio come il montaggio, cioè operava una sorta di selezione in quello che era il flusso della vita, trascegliendo solo alcuni momenti che rimangono in questo modo nella memoria dei sopravvissuti”.
Nel documentario appena proiettato nella sala Alexandre Dumas dell’Institut Français de Naples, Pasolini, l’arrabbiato di Jean-André Fieschi, il regista definisce se stesso indefinibile. Sarebbe come voler definire l’infinito, dice. Quali le parole allora per parlare di Pasolini ?
“In realtà, di sé, Pasolini ha dato tante definizioni. E’ interessante quando dice, per esempio, che lui è uno specchio di quello che è l’esterno. In questo, in fondo, c’è un po’ della sua figura di poeta che attraversa la realtà, la interpreta anche, finendo poi per accoglierla dentro di sé. E quindi si vede come una entità che è piena di realtà. Ma, in effetti, nella poesia di Pasolini c’è sempre questo io. L’io è dominante,tutto è visto dall’io; la componente autobiografica è fondamentale, centrale. Però c’è continuamente anche una descrizione dei processi sociali, dei processi politici, degli incontri che questo io ha, vivendo. Questa è una delle attitudini a cui probabilmente l’artista alludeva, solo una delle descrizioni che lo stesso da di sé”.
Pasolini poeta, scrittore, giornalista, cineasta. Un giovane studente come dovrebbe approcciarsi all’uomo Pasolini? Attraverso cosa, quale sua produzione, conoscerlo prima? Si potrebbe, in qualche modo, delineare un percorso-guida attraverso cui percorrere, con l’artista, le tappe stesse della sua evoluzione. Che sono poi le trasformazioni della società italiana dal dopoguerra sino alla metà degli anni settanta.
“In realtà, tutte le forme espressive che Pasolini ha sperimentato si riconducono tutte ad un unico nucleo, che è quello della poesia. Lui è sempre poeta, quando fa cinema, quando fa narrativa, spesso anche quando scrive saggistica: Pasolini rimane poeta. Io credo che uno studente, da autodidatta, forse dovrebbe cominciare dagli Scritti Corsari, che risultano molto più attuali oggi di quanto non sembrassero all’epoca in cui sono stati scritti. Forse dovrebbe cominciare da quello e dal cinema, dai primi film in particolare per arrivare poi solo alla fine a Salò. Tra le opere che potrebbe leggere per prime ci sono indubbiamente Lettere luterane, gli scritti di Vie Nuove e Descrizioni di descrizioni, sicuramente. Si tratta di una raccolta di recensioni che credo possa costituire un viatico per l’opera di Pasolini. Poi, i romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. I film, da Accattone a Mamma Roma e La ricotta. Mentre credo che solo in un secondo tempo gli converrebbe leggere la poesia e in ultimo misurarsi con il teatro e con alcune delle opere più difficili, quelle che necessitano già di una conoscenza approfondita dell’autore, come appunto Salò (complesso, al di là della violenza) e Petrolio. Quest’ultima, opera fondamentale ma sulla quale grava il peso dell’incompiutezza. E’ come entrare nell’officina di Pasolini, nel suo laboratorio, sorprendendo le invenzioni che non sono ancora state definite dall’autore; questo è il fascino e al tempo stesso il doloroso limite di Petrolio, romanzo pensato per 2000 pagine ma che in definitiva ne conta quattrocento-cinquecento e neanche compiute”.
E invece, un aspirante giornalista cosa dovrebbe apprendere dalla lezione - Pasolini? Ammesso che sopravviva alla ridicolaggine cui il regista lo sottopone per mano di Orson Welles, ne La ricotta...
“C’è da dire che Pasolini non è mai stato un giornalista vero e proprio. Diciamo che scriveva degli articoli il cui taglio giornalistico si riduceva soltanto all’osservazione di certi fenomeni della cronaca, della vita culturale a lui contemporanea, ma poi in realtà andavano ben oltre. Ricordo un bellissimo reportage sul Sud Italia (La lunga strada di sabbia) che scrisse proprio per un settimanale. Però c’è sempre una dimensione altra rispetto a quello che è il mero giornalismo”.
Difficile definirlo, difficile identificarlo in una e una sola professione, univocamente categorizzata.
“Perché è tutto imbricato! Nella poesia ci sono elementi visionari, ma ci sono anche dei brani narrativi. Nel cinema c’è la poesia, vedi Porcile che per metà è un film in versi. Nel teatro c’è di nuovo la poesia: il teatro è in versi! Però nel cinema c’è anche il teatro, vedi Salò”.
E si può dire che in questo Pasolini è estremamente post-moderno?
“Si, è vero. Infatti è un indizio della modernità, la sua ossessione centrale che aveva bisogno di cambiare continuamente forma attraverso cui manifestarsi. Per questo, via via sperimentava il teatro, la narrativa, perfino la pittura degli anni giovanili, ma mai più ripresa. C’è una forte componete sperimentale in tutto ciò, il desiderio di misurarsi con varie forme espressive sottomettendo poi alla propria estetica. Il cinema di Pasolini è in una forma che non assomiglia al cinema di nessun altro; la narrativa stessa, non si può dire che sia di tipo tradizionale ma piuttosto fatta di frammenti/episodi.
Pasolini non si rifà mai a dei codici, rispettandoli in modo pedissequo. Non è mai un artigiano, ma sempre uno sperimentatore col tic del trasgredire e della non-corrispondenza, tra generi come nel doppiaggio”.
Pasolini per tutta la vita ha guardato alla realtà con gli occhi del sotto-proletariato, al lettore come qualcuno da scandalizzare, attentamente. Destabilizzare per l’atto di resuscitare quella cultura popolare uccisa dall’omologazione piccolo-borghese perbenista e dal moralismo conformista. Le sue sono storie visivo-acusticamente semplici, di borgata. Accattone, primo film diretto dal poeta friulano, mostra il non-fare di un magnaccio romano, Vittorio (ma, come direbbe lui, de Vittorio ce ne sono tanti, d’Accattone ce stò solo io!) muoversi sulle note di Bach nello squallido torpore di strade polverose e morti di fame. Ossimori, contrasti, contraddizioni a gioco del sublime, in contropiede all’ordine delle cose.
Claudia Cacace
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