Renato Tretola, laurea all'Orientale, lavoro al Senato: vi racconto l'Orientale dei '90

 

Renato Tretola, laurea all'Orientale, lavoro al Senato: vi racconto l'Orientale dei '90

Renato Trentola

“Ci sentivamo parte di una comunità speciale rispetto ad altri studenti: più aperti, più critici. Un corpo docente di ottima qualità, studenti motivati, partecipi, vitali”

Renato Tretola, lei si è laureato in Lingue e Letterature Straniere nel 1997, con voti 110/110 e lode, e le lingue da lei studiate sono state arabo quadriennale, e turco e inglese biennale. Il suo interesse andava dunque al Medio Oriente. Come mai non ha scelto la Facoltà di Scienze Politiche e ha preferito la laurea in Lingue e Letterature?

“Perché al momento della scelta dell’Università, in un periodo in cui le idee su come questa sarebbe stata erano per me abbastanza confuse, più che di un interesse politico si trattava di un gusto per lo studio delle lingue e degli argomenti letterari ereditato dal Liceo, che si andò a fondere con l'interesse che nutrivo per il mondo arabo. Mi stupiva infatti che un mondo così vicino a noi fosse invece percepito mediamente come un mondo lontano, diverso e spesso ostile. Un mondo che poi avvertivo vicino non solo geograficamente: ero ingenuo e molto meno attrezzato di ora, ma sentivo che qualcosa non quadrava in questa percezione di distanza. Osservavo arabi parlare tra di loro e gesticolare e sentivo istintivamente di essere più simile a loro che, ad esempio, agli inglesi. Decisi dunque di volerne approfondire la conoscenza a partire dalla lingua e dalla tradizione storico-letteraria. In più, erano recentissime le notizie e le immagini della prima intifada palestinese contro l'occupazione israeliana (io mi iscrissi nel 1988, pur avendo poi iniziato a frequentare i corsi solo nel 1990), e il senso della palese ingiustizia che i Palestinesi stavano subendo mi spinse ancor più a scegliere l'arabo come prima lingua. Mi sembrò naturale dunque iscrivermi a Lingue e letterature, che consentiva di studiare approfonditamente entrambe le cose. Alla luce delle esperienze e degli interessi successivi, chissà, forse avrei fatto scelte diverse, ma allora andò così.”

Negli anni dei suoi studi universitari, quali docenti insegnavano arabo e turco? Ha avuto una buona esperienza dell’insegnamento delle lingue nel nostro Ateneo?

“Il mio insegnante di arabo, per tre annualità su quattro, è stato Bartolomeo Pirone; per un anno, il terzo, è stata invece Maria Teresa Petti Suma a tenere il corso. La cattedra di turco era tenuta dal compianto professor Aldo Gallotta. I corsi portanti erano naturalmente supportati dalle ore di lettorato con madrelingua e quello di arabo anche da un corso parallelo tenuto dal professore Fathi Makboul.
La mia esperienza personale sull’insegnamento ricevuto posso definirla a corrente alternata: molto stimolante per certi tratti, ma anche deludente e paludata per altri. Dovendo sintetizzare, ritengo che l’approccio alla lingua viva fosse quello che maggiormente mi mancava: a indiscussi grandi conoscitori della lingua e della sua struttura si sarebbe probabilmente dovuto affiancare un percorso di lingua parlata più incisivo, a maggior ragione per una lingua come l’arabo, che presenta una grande varietà di parlate locali. È vero che le lingue si apprendono davvero solo con lunghe permanenze nei Paesi in cui vengono parlate, ma comunque l’università dovrebbe offrirti il massimo e invece i corsi di lettorato, pur con le dovute differenze e limitando il discorso alle lingue che ho studiato io, sono stati deludenti, sia per lo scarso numero di ore, sia per la (sovente bassa) qualità degli stessi. Ricordo per inciso che il problema dei contratti ai lettori era particolarmente pesante e sentito all’Orientale, in quegli anni.”

Conosce qualche Paese arabo? Vi è andato con l’Erasmus o in altro modo?

“Solo in Turchia andai nel 1992 con il supporto di una borsa di studio del Ministero degli Affari Esteri; nei Paesi arabi invece ci sono sempre andato autonomamente e, ahimè, meno spesso di quanto sarebbe stato necessario per acquisire quella dovuta padronanza della lingua. La Siria è il Paese in cui ho soggiornato più a lungo e più volte: la prima volta nel 1993, per seguire un deludentissimo corso estivo di arabo all’Università di Aleppo della durata di due mesi, in seguito per la tesi di laurea.”

La sua tesi ha per titolo: Ghassan Kanafani [1936-1972] e la sua attività giornalistica in Al-Hadaf, relatore il prof. Bartolomeo Pirone. Vuole accennare al contenuto del suo lavoro?

“Ho conosciuto questo autore proprio nei corsi di lingua e letteratura araba tenuti dal professore Pirone e di ciò gli sono ancora grato. Ghassan Kanafani è infatti uno dei migliori e più significativi autori della letteratura araba contemporanea, nonché uno dei più noti. La sua opera, ma anche la sua biografia, si identificano quasi totalmente con la causa palestinese. Fu il primo a parlare di ‘letteratura della resistenza’, in riferimento a una produzione letteraria che, grazie a lui e ad altri autori, cominciò negli anni Sessanta del secolo scorso a porre la questione palestinese come argomento di letteratura, con un linguaggio diretto e comprensibile a tutti, funzionale alla presa di coscienza politica del popolo palestinese. Fu quindi portavoce del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, nonché, appunto, fondatore e direttore del suo organo di informazione (il settimanale Al-Hadaf); e per la causa palestinese morì, insieme a una nipote adolescente, vittima di un ordigno piazzato nella sua auto dai servizi segreti israeliani. Il mio lavoro intendeva rintracciare, tradurre e analizzare gli articoli che Kanafani scrisse sulla suddetta rivista, nel tentativo di scoprire se, e in quale misura, l’analisi della sua attività giornalistica fosse utile a mettere meglio a fuoco la complessa personalità dell’autore e in quale misura potesse gettare nuova luce sulla sua attività letteraria, e viceversa.”

Dove ha condotto le ricerche per la tesi? Soltanto in Italia?

“No, anzi in maniera preponderante in Siria. Al di là di saggi e articoli su Kanafani scritti in diverse lingue europee, rintracciabili presso le biblioteche dell’Orientale e in poche altre in Italia, il nocciolo della tesi consisteva negli articoli da lui pubblicati su Al-Hadaf negli anni dal 1969 al 1972, e questi riuscii a rintracciarli solo a Damasco, grazie all’aiuto fornitomi dalla redazione locale della rivista. Il compito, per inciso, non fu facile neanche per loro, dato che l’archivio storico della rivista, che si trovava a Beirut, era risultato distrutto dalla guerra civile in Libano, e pertanto i numeri di quegli anni fu possibile rintracciarli solo presso l’abitazione di George Habash, il leader del Fronte. Rintracciai invece all’Università di Damasco altri testi consultati in lingua araba.“

Secondo lei, l'Orientale offre un ambiente culturale stimolante?

“Dell’ambiente culturale che offre l’Orientale oggi non saprei dire, non avendo più occasione da diversi anni di respirarne il clima ed essendo cambiate non poco l’Università e la società da allora (e credo non in meglio). Posso però senza dubbio affermare che negli anni Novanta l’ambiente culturale era davvero ancora molto stimolante e forse costituiva il principale motivo per cui quell’istituto fosse degno di essere frequentato, nonostante cominciassero a manifestarsi gli effetti nefasti dello smantellamento dell’Università pubblica, a partire dall’autonomia finanziaria degli Atenei. Su questo processo non mi dilungo, ma limitandomi a quel periodo, la metà degli anni Novanta, e alla percezione che ne avevamo noi studenti, era un fatto che, a un aumento delle tasse di iscrizione, non corrispondesse alcun miglioramento dei servizi ricevuti, né tantomeno dell’offerta didattica né, ancor meno, delle prospettive future una volta laureati. Ciononostante, l’Orientale era ancora sostenuto da un corpo docente di ottima qualità e da uno stuolo di studenti motivati, partecipi e vitali, che erano spinti da una grande passione a studiare le lingue e le culture più disparate, riconoscendo forse, in quella varietà di interessi e stimoli, il tratto unificante che portava chi frequentava l’Orientale a considerarsi, spesso a ragione, parte di una comunità speciale rispetto agli altri studenti napoletani, più aperti, più critici e meno passivi, e che mi faceva sentire in quegli spazi come a casa mia. Mi auguro che questo valga ancora per gli studenti di oggi.”

C’è qualche scrittore di lingua araba che lei ama particolarmente? Qualcuno nel quale ha sentito di potersi particolarmente riconoscere?

“Ovviamente il primo nome che mi viene in mente è quello di Ghassan Kanafani, che scelsi come oggetto della tesi di laurea proprio perché era il mio preferito. È stato un profondo innovatore della prosa araba e in lui è avvenuta una felice sintesi di diverse influenze letterarie, europee e arabe. Amo in lui l’universalità del linguaggio, asciutto e diretto, soprattutto nella seconda fase della sua produzione (successiva alla ‘guerra dei sei giorni’ del giugno 1967), quella in cui, messi da parte sconforto e pessimismo, i suoi racconti diventano racconti di lotta, il dramma palestinese si pone in primo piano nella sua dura realtà e non più attraverso simboli e significati nascosti e lo stile più vicino al linguaggio della gente comune, senza perdere un briciolo di profondità. Di autori che amo ce ne sono naturalmente altri ancora, classici e contemporanei, ma in questa sede mi piace ricordarne almeno uno ancora, a cui penso quasi in automatico quando penso a Kanafani: il poeta Mahmud Darwish [1941-2008], anch’egli palestinese, che è stato contemporaneamente grande cantore, se non il maggiore, della propria terra, grande innovatore del linguaggio e dello stile e grande intellettuale del suo tempo.”

So che lei è stato molto attivo nella ideazione e nella fondazione di Pangea, che negli anni Novanta funzionava assai bene, ed era un centro di attrazione a Palazzo Corigliano. Credo che Lei se ne sia allontanato col conseguimento della laurea.
Vuol dirci qualcosa della ’prima’ Pangea? Credo che possa interessare molto gli studenti dell’Ateneo.

“Qui entriamo in una delle pagine più belle della mia vita universitaria e non solo, che ricordo con grande piacere. L’idea nacque nel pieno di un periodo di grande mobilitazione studentesca (fine 1994), sull’onda della quale la voglia di essere protagonisti della vita dell’Università, ma anche della città e della società tutta, spingeva tanti studenti, me tra questi, a proporsi, a mettersi in gioco, a dare il proprio contributo in numerose iniziative. Un’associazione culturale universitaria certo non era una nuova idea in sé. Ciò che rendeva Pangea diversa e quindi, a mio parere, maggiormente attraente per tanti studenti, erano però alcune sue specificità che noi primi fondatori avevamo già immaginato in nuce. A partire dall’esigenza, comune a tutto il movimento studentesco, di una riappropriazione fisica e funzionale degli spazi universitari, ci proponevamo di utilizzare gli strumenti di cui l’Orientale disponeva per approfondire lo studio degli argomenti che già molti di noi studiavano, ma a partire da un’ottica del tutto autonoma, che fosse in grado di proporre percorsi di studio non imposti dai docenti, ma scelti da noi, in modo da incontrare maggiormente i nostri interessi.
Non a caso l’attenzione, fin dai primi incontri a quattro, cinque, poi sei persone e così via, e fin dalle prime iniziative intraprese pubblicamente, era volta allo studio di quello che allora chiamavamo ancora ‘terzo mondo’, alla critica al cosiddetto ‘Nuovo ordine mondiale’, e più in generale alla critica a un approccio ‘occidentalistico’ alle materie di studio a cui ci avvicinavamo. Non era un terreno di studio della sola associazione Pangea, naturalmente, ma era molto innovativa l’intenzione di volerlo fare da studenti e all’interno della struttura universitaria, conservando un punto di vista autonomo. Pensavamo, a ragione, che l’Orientale non riuscisse del tutto a utilizzare le tante risorse disponibili, umane e materiali, per metterle a disposizione degli studenti e dei loro interessi. Ci rendevamo conto che spesso ci veniva fornito un insegnamento troppo settoriale o specialistico e che ci mancavano gli strumenti per poter cogliere i meccanismi che sottendono alle relazioni tra gli argomenti studiati, e soprattutto tra le culture, i popoli, le lingue che individualmente ciascuno di noi studiava in maniera anche molto approfondita. Volevamo insomma che Pangea diventasse un centro di dibattito, di incontro e di confronto su questi argomenti, per quegli stessi studenti che conoscevamo nei corsi e agli esami, per sfruttare al meglio le potenzialità della nostra Università. Per fare questo era però necessaria una presenza tangibile, visibile e stabile all’interno dell’Università ed è per questo che lottammo strenuamente per ottenere una sede fisica dentro l’Orientale, dotata dei mezzi tecnici necessari a farla funzionare degnamente. Era una cosa senza precedenti allora, almeno per quanto ne fossimo a conoscenza, e infatti non fu facile ottenerla. Fu una conquista, ma allo stesso tempo una grande assunzione di responsabilità, perché per utilizzare quello spazio firmammo una convenzione con l’Orientale che ce lo affidava rendendocene legalmente responsabili.
Da allora, almeno per i primi anni di vita, la sede funzionò esattamente come l’avevamo immaginata e l’associazione vide l’iscrizione di centinaia di studenti (non solo dell’Orientale) e un fiorire di iniziative molto diverse tra di loro, ma che conservavano quell’anima che avevamo voluto darle sin dall’inizio e divenne proprio quel centro di aggregazione costruttiva, di confronto e di promozione di idee e di iniziative che ci auguravamo diventasse, riuscendo nel contempo a essere un riferimento importante anche sul territorio, quindi all’esterno dell’Università. Per molti di noi, le iniziative promosse da Pangea funsero inoltre da trampolino per tuffarsi in studi nuovi o iniziative autonome da continuare anche al di fuori dell’Orientale. Fu a partire da quella esperienza che molti di noi si sono poi interessati, ad esempio, di immigrazione o cooperazione, di intercultura, di viaggi, o anche di cinema, di teatro o di danza.
Io me ne sono poi allontanato, anche se non immediatamente, dopo il conseguimento della laurea, è vero, ma fu un fatto assolutamente naturale che avevamo voluto prevedere fin dalla fondazione: nel primo statuto, infatti, era appositamente previsto che chi si laureava non potesse più essere socio ordinario, vale a dire che poteva continuare a partecipare alla vita dell’associazione, ma non ad assumerne le cariche. In questo modo volevamo garantirne l’autonomia, evitando che nel tempo finisse per diventare un’associazione di ex studenti, perdendo la sua caratteristica fondamentale.”

Ha conservato rapporti con docenti e laureati dell'Orientale?

“Con i docenti quasi per niente, se escludiamo miei colleghi di studio ora divenuti docenti. Con altri ex studenti e laureati ho conservato invece ottimi rapporti, anche se non legati più all'Orientale, ma al fatto che negli anni di Università si erano creati legami profondi di amicizia o anche di collaborazione in altri ambiti. Due rapidi esempi: 1. Con alcuni soci di Pangea, e a partire proprio da un comune interesse nato nell'ambito delle tante iniziative di Pangea, quello per il turismo responsabile e il tema del viaggio inteso come momento di incontro con la diversità, abbiamo dato vita ad un'altra associazione, tuttora esistente, che si chiama ‘il Vagabondo’, che si occupa di cultura di viaggio, turismo responsabile ed economia solidale. 2 . A partire dalla mia partecipazione al movimento studentesco del 1994-95, è nato un impegno politico che per alcuni anni è stato portato avanti con grande passione proprio insieme a compagni di viaggio del periodo universitario, e in particolare studenti dell'Orientale.”

Qual è esattamente il suo lavoro, adesso? Le è stato utile poter inserire nel suo curriculum la laurea in Lingue all’Orientale?

“Da sei anni sono coadiutore parlamentare, al Senato e, dopo aver lavorato quattro anni presso la sua biblioteca, da due anni lavoro presso l’ufficio di segreteria della Commissione industria, commercio e turismo. Sono entrato in Senato attraverso un concorso pubblico per diplomati. La laurea non solo non è dunque servita come titolo d’accesso, ma nemmeno mi è stata riconosciuta, almeno finora, ai fini di eventuali avanzamenti in carriera o previdenziali. L'attività che attualmente svolgo, d’altronde, non ha per niente a che fare con i temi che ho studiato all'Università. Ciò premesso, la laurea in Lingue mi è stata sicuramente utile per alcuni dei tanti lavori fatti prima di entrare in Senato, dalle traduzioni alle lezioni private, dalla educazione e mediazione culturale con immigrati e rom alle sporadiche docenze in corsi di formazione, dal breve contratto con una televisione araba all’attività di accompagnatore turistico.
L’evidente differenza tra la precarietà degli impieghi appena citati e la stabilità del lavoro che svolgo adesso è lampante, ma sentirei di mentire se dicessi che la laurea non mi sia servita o non mi serva anche in questo lavoro attuale. Penso infatti che, magari non il pezzo di carta in sé, ma l’aver frequentato un ambiente come quello dell’Orientale, con la vita che lì ho vissuto e con le esperienze che vi ho maturato, abbia contribuito non poco a fare di me la persona che sono oggi, magari con qualche rimpianto, ma comunque in grado di sapermi relazionare con una certa disinvoltura con le situazioni, le persone e gli ambienti più disparati, anche se, come spesso mi capita, lontanissimi dalla mia sensibilità personale.”

Francesco Messapi

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