Sergio Ventriglia: Il nucleare in Italia? Non siamo pronti

 

Sergio Ventriglia: Il nucleare in Italia? Non siamo pronti

Sergio Ventriglia - L'Orientale Web Magazine

“Ricordare ciò che diceva Rauter: l'informazione che si usa nella formazione degli uomini dipende dal tipo di uomo che si vuole creare”

Professore Ventriglia, lei è tra i relatori delle Giornate di studio dedicate dall'Orientale a “Comunicazione e Ambiente” che si svolgeranno dal 24 al 26 marzo 2011. Su che cosa verte il suo intervento?

“Il mio intervento verte innanzitutto sui rapporti che intercorrono tra la geografia e l'ambiente, prima ancora che sul modo di comunicare le questioni ambientali. Il mio interesse si concentra, nello specifico, sul modo in cui gli studi geografici affrontano tale problematica, in considerazione della sempre minore sintonia che c'è tra una parte della cosiddetta biodiversità – noi stessi, cioè, la nostra specie – e i quadri ambientali. Mi piacerebbe partire appunto da una bella e antica domanda che pose Italo Calvino anni fa, e cioè se potremo mai trovarci in pace con l'universo e, quindi, con noi stessi.”

Lei come risponderebbe?

“È difficile ridurre tutto ad una battuta, ma credo che possiamo cominciare col dire che l'ambiente è soprattutto una questione culturale: se non cresce una percezione di questo tipo nei confronti di ciò che abbiamo intorno, del nostro ambito vitale di riferimento, è difficile che ci si preoccupi e ci si occupi sul serio di questi problemi. Le cose si complicano, poi, se si pensa che quelli ambientali sono accadimenti a inerzia lenta, di cui si coglie veramente la gravità solo nel tempo, fatta eccezione per gli episodi catastrofici. Solo in questi casi siamo tutti immediatamente preoccupati: il disastro nucleare di Chernobyl nel 1986, oppure il più recente disastro petrolifero a largo delle coste della Louisiana, lo scorso anno, ad opera della British Petroleum, sono lì a dimostrarlo. Ecco che allora tutti prendiamo atto del problema.”

Come definirebbe il rapporto che esiste oggi tra uomo e ambiente?

“È un rapporto molto diversificato a seconda delle aree geografiche, dei contesti economici, del livello culturale, dell’impegno civile: è sicuramente positivo in alcune realtà come quelle dell'Europa settentrionale – regione scandinava, Danimarca, Germania – dove la questione ambientale ha ormai mezzo secolo abbondante di vita, e di esperienze relative. È in quei paesi che tale problematica attraversa realmente tutti gli ambiti dell'economia; in altri contesti siamo invece molto indietro.”

Come si inserisce la geografia in questo discorso?

“La geografia si inserisce da sempre in questo discorso, per la semplice ragione che tradizionalmente si tratta di una disciplina ponte tra quelle che sono le cosiddette scienze fisiche, della terra, e quelle che sono considerate le scienze sociali. Chi fa geografia non può che occuparsi dello spazio di riferimento: se pensiamo ad una disciplina veramente critica, cioè alla geografia come a un sistema di dubbi, di errori, ecco che allora riusciamo a fare passi in avanti rispetto alle problematiche studiate, e dunque anche nel dominio ambientale. Non dimentichiamoci del fatto che la geografia in primis si occupa di spazio, e a fondamento dello spazio c'è il concetto di distanza. Ma siamo in un'epoca in cui si parla in maniera banale dell’annullamento dei rapporti di distanza, il che ha una sua verità solo per alcuni contesti, come quelli dell'informazione globale o della finanza globale. Ogni politica e quindi soprattutto le politiche ambientali, hanno il loro quadro territoriale di riferimento: accadono qui piuttosto che lì, e laddove accadono si misurano con la concreta realtà dei territori.”

Come considera il rapporto tra la quantità e la qualità delle informazioni che circolano su comunicazione e ambiente?

“Sul versante della comunicazione non mi sento di poter dire chissà che, dal momento che certamente non è il mio campo di studio; nemmeno posso sottrarmici, però, visto che da molti anni sentiamo continuamente parlare di comunicazione e della sua centralità, tanto che è diventato quasi un refrain.
La comunicazione ambientale differisce molto a seconda dei luoghi in cui le cose accadono: c’è grande evidenza rispetto ad alcune circostanze, ma anche grande trascuratezza rispetto ad altre. Faccio solo un esempio: all'inizio dell'anno c'è stata un'alluvione, un fenomeno atmosferico molto consistente e preoccupante in Australia, nella regione del Queensland: se guardiamo alle cronache dei media italiani in quel periodo per almeno una settimana troviamo a stento un trafiletto. Quando poi si è verificata una situazione mediaticamente più interessante dal punto di vista delle immagini, intere regioni allagate e così via, abbiamo visto finalmente quella situazione. Nell'autunno scorso quando abbiamo avuto problemi analoghi in Veneto, la situazione è stata monitorata da vicino dai media nazionali. Mi sembra allora che questa comunicazione sia spesso una comunicazione di parte, nel senso di soffrire, paradossalmente, dei vincoli che la distanza fisica continua a imporre.”

Quella che lei definisce una comunicazione di parte, di cosa crede sia indicativa?

“Di cattiva volontà rispetto ai processi di formazione delle persone. Gli uomini, gli individui, si formano innanzitutto nel tempo dell'istruzione obbligatoria, ma la formazione non s'arresta e si fonda sempre più sull'informazione, lo strumento fondamentale è quello. Per comprendere meglio la natura dell'informazione bisognerebbe lavorare sull'effetto che quelle informazioni hanno sulla vita degli uomini; bisogna sapere insomma a quale scopo servono gli strumenti che si usano per informare. Come ricordava un importante scrittore tedesco del Novecento, scomparso qualche anno fa, (Ernst A. Rauter) l'informazione che si usa nella formazione degli uomini dipende dal tipo di uomo che si vuole creare: se una classe di Governo di un Paese ha a cuore una formazione culturale alta, approfondita e critica ecco che l’ambiente è da mettere al primo posto, accantonando modalità episodiche o un’educazione ambientale superficiale, scolasticamente circoscritta, e perseguendo invece un’idea di buona convivenza negli anni, un’attenta convivenza ambientale. Nell'insieme dell'esperienza che abbiamo fatto nel nostro Paese almeno a partire dal 1986, da quando esiste cioè un Ministero dell'Ambiente, quest'attenzione e questa voglia di informare criticamente e assiduamente i cittadini è stata veramente rara.”

Esiste una seria comunicazione ambientale di destra o di sinistra?

“Io credo francamente di no, anche se alcune esperienze che abbiamo avuto in Italia sono state nel segno dell’impegno e della competenza: penso, ad esempio, al periodo in cui c'è stato al Ministero per l’Ambiente Edo Ronchi, a cui dobbiamo quel decreto ancora oggi fondamentale per quanto riguarda il trattamento e la gestione integrata del ciclo dei rifiuti. Oppure, anni prima, quando al timone di quel dicastero c’è stato Giorgio Ruffolo. Potrei dire, comunque, che la questione riguarda molto le personali biografie, i singoli, piuttosto che i movimenti, come dimostra, purtroppo, il fallimento del Movimento Verde italiano: oggi non possiamo proprio dire che c'è stata continuità rispetto a qualche iniziale successo. Dal versante della destra mi sembra che l'accelerazione ambientalista, Matteoli prima, Prestigiacomo ora, ci sia solo per ciò che riguarda le soluzioni tecnologiche di certi problemi, come quello dell’abbattimento della soglia delle emissioni di CO2 nell'atmosfera: si lavora dunque sul sostegno alla tecnologia, ad esempio nel comparto automobilistico, piuttosto che cercare di ridurre la mobilità privata, che invece resta una causa primaria dell’inquinamento atmosferico urbano. Non si tiene conto, nel senso di non valorizzare, di un certo tipo di cultura civica, pur presente, che mira a ridurre i comportamenti dannosi: abbiamo dei livelli, nel rapporto tra popolazione e auto in Occidente, assolutamente spaventosi, e li stiamo trasferendo adesso nei contesti che una volta si dicevano in via di sviluppo, e che, forse anche a motivo di ciò, riconosciamo invece come economie emergenti.”

Quale sarebbe una politica giusta da intraprendere in questo senso?

“C’è naturalmente da continuare a lavorare sul versante tecnologico, però penso che bisognerebbe sostenere concretamente molto di più la mobilità comune, collettiva: penso ovviamente ai contesti urbani, che poi sono il non plus ultra della artificialità ma anche e sempre più il vero 'ambiente dell’uomo', dove i problemi ambientali si sentono maggiormente. Anche perché una città ammalata produce una società ammalata, e questo non in senso metaforico.”

Ci fa un esempio, a suo avviso, molto efficace di comunicazione ambientale?

“Un esempio sta nella continuità della comunicazione e dell'informazione e non nell'episodicità, nel seguire delle situazioni che accadono in un dato momento piuttosto che in un altro, ma che comunque proseguono nel tempo: continuità su questa informazione, e attenzione nei riguardi dei territori reali che vengono coinvolti in certe operazioni. Abbiamo avuto negli ultimi tempi esempi allucinanti di come non si dovrebbe affrontare una, chiamiamola così, emergenza ambientale – quella dei rifiuti, certo: e cioè l'idea di individuare terreni di sversamento nelle aree protette, come nel caso del Parco Nazionale del Vesuvio. Tutto questo, ripeto, è allucinante, tanto più se si pensa che abbiamo un contesto regionale molto ampio che autorizzerebbe invece a gestire quel tipo di problematica a questa scala: la provincia di Napoli ha un’altissima densità di popolazione, ma abbiamo altre quattro realtà provinciali dove il rapporto spazio/popolazione è molto più leggero, c’è una assai minore pressione demografica sul territorio. È alla scala regionale quindi che dovrebbe essere gestito il problema anziché insistere, come è stato fatto con l'ultimo decreto, sulla provincializzazione della gestione del ciclo dei rifiuti. Ci sono delle province, non solo quella napoletana, dove questo problema, non essendo stato affrontato correttamente per tempo anche dal punto di vista tecnico e ingegneristico, porta a vivere in una situazione di perenne emergenza.”

Esauribilità delle risorse, nuove forme di gestione delle risorse: a che punto si è?

“Bisognerebbe credere davvero che un'economia ambientale, la cosiddetta Green economy che la nuova amministrazione statunitense con il presidente Obama sta provando a portare avanti, sia una scelta importante. Un uso maggiore e diffuso delle energie e delle risorse di tipo rinnovabile è però una scelta non ancora realmente condivisa, né sul piano culturale né sul piano politico nel nostro Paese. Per dire, nemmeno ci si è lanciati un po' di più sull'eolico ed ecco che sono venute fuori tante situazioni strane, bizzarre, di sapore malavitoso, relative al profitto derivante dall'utilizzo di queste risorse; non si sa ancora quanto poi tutto questo sia vero e quanto invece si potrà rivelare strumentale per continuare nell’impiego di un altro genere di risorse, quelle non rinnovabili, di tipo fossile. È corretto però ricordare che comunque le risorse energetiche di tipo fossile ancora esistono e resistono: agli inizi degli anni Settanta i ricercatori del MIT indicavano, nel Rapporto sui limiti dello sviluppo, pubblicato nel ’72, (The limits to growth) come abbastanza vicina la loro esauribilità… e poi invece non è stato così! Quello stesso studio, aggiornato vent'anni dopo (Beyond the limits), attestava che l'esaurimento del petrolio non era alle porte… insomma, finché ci saranno queste risorse disponibili rispetto alle quali c'è una tecnologia, un'ingegneristica, un mercato ormai consolidati sarà difficile che, da un punto di vista economico, si decida di liberarsene così, in maniera repentina.”

Sarà un processo lungo quello che ci condurrà all'energia alternativa?

“Un processo lungo nella misura in cui le scelte di politica ambientale-territoriale vengono fatte dando priorità all'esistente piuttosto che a quello che potrebbe accadere. Un'altra cosa ovvia, per esempio, è che nel mondo Mediterraneo si fatichi a lavorare seriamente sulle rinnovabili, e sul solare in particolare: di fatto sono passati già alcuni decenni da quando questa 'ovvietà' è stata dichiarata per la prima volta, e ancora non ci siamo mossi sul serio in quella direzione. Insomma quelle ambientali non sembrano mai le principali preoccupazioni politiche, se non in caso, appunto, di catastrofe.”

Nucleare: sì o no?

“Il nucleare civile non è una scelta possibile se non c'è una fiducia sociale nei confronti delle competenze tecniche e della capacità politica di gestire questa base energetica. La Francia, che è il Paese nuclearista per eccellenza, ha fatto questa scelta ormai da svariati decenni, ed è un Paese che consente ad alcune realtà, come ad esempio il Portogallo, di gestire meglio la propria base energetica grazie appunto all'import nucleare. In Italia credo che non ci siano assolutamente queste condizioni: che si dica, poi, che il nucleare è una scelta da fare perché 'economica' è un discorso molto relativo e tutto da dimostrare, perché si tratta di un ciclo contabile che va fino ai residui e agli scarti. Senza contare che nessuno dichiarerebbe con serenità, secondo me, che non c'è più il problema dello stoccaggio delle scorie. In sintesi no, io non sono a favore del nucleare, e questo come mia posizione personale; dal punto di vista degli studi in questo settore, comunque, non conosco esempi riconosciuti da parte della comunità scientifica a favore di questa scelta.”

Politiche ambientali, finanza, economia. Sponsorizzazioni, preorientamento della percezione positiva del marchio. Ingenti investimenti di tipo comunicazionale spingono a consumare risorse primarie, oltre quelle effimere. Un esempio che caratterizza l’Italia: le acque minerali. Cosa dice a questo proposito?

“Che va benissimo una scelta a favore del ritorno all'utilizzo, per esempio, dell'acqua potabile domestica, quella degli acquedotti cittadini, a patto che questa opzione non sia una specie di cavallo di Troia per poi trovarci di fronte ad una privatizzazione dell'acqua pubblica che ci costringerà a pagare l'acqua del rubinetto più o meno come oggi paghiamo l'acqua minerale! È vero che ci sono state campagne pubblicitarie anche importanti negli ultimi mesi, con posizioni diverse e contrastanti che spingono, ad esempio, all’utilizzo delle acque minerali che sono più vicine, nel segno dei cosiddetti consumi a 'chilometro zero'. Però, detto questo, esiste anche un mercato della distribuzione che è molto efficace nel nostro Paese, per cui c'è sempre un’economia reale con cui bisogna fare i conti. Io su questa questione non sarei affatto manicheo: l'Italia è un Paese che ha ancora molte risorse minerali ottime, perché non usarle? Si può lavorare di più sul contenimento dei consumi e dei costi e miscelare entrambi gli utilizzi, pubblico e privato; ma se poi, come dicevo prima, dovessimo ritrovarci a scegliere l'acqua del rubinetto e a pagarla più cara dell'acqua minerale, di qui a un anno, ci si sentirebbe presi in giro.
Per quanto riguarda la questione della potabilità delle acque del rubinetto, poi, è fondamentale una buona gestione degli acquedotti, con un’attenzione agli impianti idrici, alle pareti delle condutture e così via; cosa che, nel caso dell'acquedotto napoletano, resta insufficiente.
Riassumendo, tutto ciò che ha a che fare con l'ambiente, purtroppo o per fortuna, ha a che fare con tutti: non a caso si dice che le politiche ambientali sono transettoriali e cioè dovrebbero attraversare tutti i settori dell'economia e tutti gli strati della società. È un principio che è passato sul piano scientifico e sul piano politico, le indicazioni dell’Unione Europea vanno da decenni in questa direzione; spesso però il riscontro empirico si rivela negativo.”

Un’azione massmediale per salvare il Pianeta?

“Credo che una buona azione possa essere quella di recuperare una storia della questione ambientale e divulgarla con un certo appeal, in una maniera interessante cioè, affinché possiamo periodizzare la questione ambientale in senso storico-cronologico e dunque riconoscerne la 'maturità'; bisognerebbe, insomma, renderla più nota attraverso dei palinsesti che non devono essere necessariamente soltanto televisivi, perché i media sono ormai molteplici: se è vero che la narrazione, lo storytelling funziona tanto di questi tempi, può funzionare bene anche per quanto riguarda l'ambiente. Io però faccio sempre un po' spallucce quando sento dire 'salvare il pianeta', perché penso che ci sono da salvare tante parti del pianeta piuttosto che il pianeta stesso: ci sono molte aree geografiche che subiscono la pressione di emergenze importanti e che purtroppo sono lontane dal salvarsi. Io penserei piuttosto a salvare i territori reali e penserei, a proposito di comunicazione massmediale, a diversificare le azioni di salvataggio, ad accrescere dunque la consapevolezza del problema. Sul piano politico, della politica ufficiale. La Terra ce ne ha ancora di suo per salvarsi, in quanto sistema ecologico; è piuttosto il sistema sociale a essere in sofferenza, credo.”

Francesca De Rosa

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