Socìetas Raffaello Sanzio: intervista a Chiara Guidi
Socìetas Raffaello Sanzio: intervista a Chiara Guidi
Ricominciare ogni giorno dal punto di origine delle cose
Iniziamo dalla compagnia, come mai questo nome?
“Questa è una domanda vecchia quanto la compagnia, degli anni Ottanta. Si rispondeva a questo interrogativo dicendo che la Raffaello Sanzio era una vecchia nave – oltre ad essere un pittore la cui poetica peraltro può essere anche vicina alla sensibilità originaria di questa compagnia, una sensibilità nascosta – comunque... è una vecchia nave affondata. Un vecchio transatlantico affondato... (Ride, NdR).”
Che cosa è il teatro per la vostra compagnia?
“Anche questa è una domanda a cui si potrebbero dedicare intere giornate per rispondere.
Credo che il teatro sia la messa in atto di una visione, una visione che tuttavia non è mai definitiva. E questo obbliga ad una continua ricerca ma, soprattutto, ad una continua ricerca della stessa cosa. Il teatro è il luogo dello sguardo per eccellenza ed è interessante vedere come questo sguardo possa essere qualcosa di tattile, di olfattivo, di uditivo, uno sguardo trasferito schizofrenicamente in altre parti del corpo, più vicino ad un'idea di play, di gioco infantile, quasi. E nel gioco rientra appunto la verifica di un altro mondo che è valido proprio perché vive accanto a quello vero.”
Della lunga serie di spettacoli proposti dalla compagnia sin dalla sua nascita nel 1981 a Cesena, qual è il più memorabile?
“Memorabile per quanto riguarda l'origine fu sicuramente Persia-Mondo 1-1, il primo fatto al Meta-Teatro di Roma, in una di quelle cantine di Pippo di Marca. E, sempre a Roma, un altro lavoro memorabile in passato è stato un spettacolo per bambini. Tuttavia con questa espressione, bambini, si pensa più che altro ad un'idea di infanzia, ad un concetto di infanzia proprio nel senso etimologico, di infante, perché è un teatro – e qui mi riallaccio alla seconda risposta – che non si rivolge alla ragione ma, come dicevo prima ai sensi, è qualcosa che esiste ancora prima di trasformarsi in linguaggio, che esiste aldilà di una logica appurata e che si consegna allo spettatore che completa con il suo sguardo ciò che avviene sul palcoscenico. Lo spettacolo era Hansel e Gretel, per il quale il teatro fu trasformato letteralmente negli ambienti della fiaba, un grande stomaco costruito con cantinelle e cartoni dove i due protagonisti bambini percorrevano questo tragitto guidando il pubblico di una cinquantina di persone. A questo proposito voglio ricordare i miei compagni di lavoro che fanno parte della direzione artistica, che sono Romeo Castellucci e Claudia Castellucci. Poi abbiamo spettacoli storici, Amleto, la veemente esteriorità della morte di un mollusco, e poi Gilgamesh, fino alle ultime imprese come può essere stata la tragedia Endogonidia – che in tre anni ha sputato fuori dieci, undici episodi e spettacoli, in tutta Europa – fino agli ultimi anni di assoluta ricerca dove ognuno di noi si è lanciato nella direzione che gli è propria: per Claudia il movimento e la danza; per quanto mi riguarda la coreografia della voce come suono, il ritmo e la partitura drammatica; e per quanto riguarda Romeo la visione spettacolare del teatro.”
Lo spettacolo che non rifareste?
“Non credo che esista qualcosa che non si rifaccia, nella misura in cui l'errore è fondamentale per un’auto-didattica del teatro, nessuno di noi ha fatto scuole di teatro. Ogni errore credo sia necessario, all'interno di ogni spettacolo, proprio perché il teatro fa i conti con un tempo identico a quello della realtà. Ha dei momenti che vorresti cambiare, ma questa è proprio la qualità, è la tecnica del teatro: non si può arrestare mentre si fa, per cambiare qualcosa. Credo che il teatro che abbiamo fatto sia stato tutto necessario, non rimpiango nulla.”
Veniamo a lei, chi è chiara Guidi?
“Non lo so... (Ride, NdR). È difficile. Lavoro. Sono una che lavora, come qualsiasi altra persona che lavora per guadagnarsi il proprio pane. Faccio questo lavoro perché mi è capitato, perché ho una certa predisposizione, perché mi sono trovata... Forse potrei anche farne un altro, se questo dovesse fallire sono pronta a chiudere in qualsiasi momento, anche perché è un lavoro che esige una rapida consapevolezza del momento della chiusura per non andare avanti con uno stile sfilacciato.
Il mio lavoro si concentra, come dicevo prima, sull'aspetto musicale, sulla recitazione, sull'andamento drammatico, sulla drammaturgia. Ho avuto dei collaboratori fondamentali in questi anni, come musicisti ma anche come fonici, Edwards tra i primi, ma anche Teardo, Blixa, il fonico di Blixa con cui ho lavorato, Boris, Marco Canali, Marco Olivieri. Tante persone che hanno permesso di mettere in atto quella musica interna della voce che sentivo e che volevo toccare con mano – perché non era sufficiente solo sentirla – per vedere come questo suono poteva essere afferrato.”
Con chi si è formata?
“Da sola, facendo gli errori appunto... Io ho fatto Lettere Moderne a Bologna, i miei compagni di lavoro hanno fatto l'Accademia di Belle Arti, quindi un corso di studi pressoché normale. E poi ci siamo ritrovati a fare teatro insieme e a fondare questa compagnia.”
In parte ha già risposto a questa domanda. Rifarebbe tutto ciò che ha fatto?
“Sì, anche perché non mi appartiene questo destino, direi che questa è la risposta. Mi capita di fare queste cose, posso solo aderire o non aderire; nel fatto di aver aderito c'è una responsabilità diretta, in quello che ho scelto di fare e anche di non fare.”
La voce nel suo percorso ha un ruolo centrale, ci parli brevemente di questo.
“La voce per me è centrale nella sua relazione con l'infanzia in quanto hanno un'origine in comune. La voce è quella parte che non si vede e, tuttavia, vive aldilà del significato. Il tentativo mio è quello di sospendere sempre il significato delle parole – soprattutto dei testi con i quali ho a che fare – per mettere soprattutto in atto una visione della voce, avere un'idea ancora prima di un significato delle parole che vengono usate. La voce è una materia, plasmabile e modellabile, ma va conosciuta; vanno conosciute non tanto le capacità della voce, quanto i suoi limiti. Questa voce la vedo molto simile a un pensiero di teatro, di infanzia del teatro – dando alla parola infanzia il significato che ho dato prima: qualcosa che unisce immediatamente l'immaginare e il pensare. Il fatto che la voce, nel momento in cui la metto in campo, non si appoggi sul significato delle parole ma sul suono che emette, sui limiti del proprio suono, la fa apparire molto simile ad un bambino che immediatamente non ragiona ma immagina e ragiona, e c'è una differenza sostanziale rispetto al modo della percezione in un età adulta. Questo potrebbe essere anche un invito attraverso la voce, il suono, a ridurre la fisicità mentale della percezione per abbandonarsi ad una percezione individuale seppur guidata dal peso della tradizione.
Credo – con la sperimentazione che metto in atto sia sulla voce sia sull'infanzia – di ritrovarmi nel solco della tradizione. Non posso abbandonare questo solco. Diventerebbe spontaneismo, diventerebbe qualcosa di troppo aperto e troppo facile anche da mettere in atto: “quello che sento è la verità”. No, non è questo; c'è un grande studio ed un grande lavoro nella costruzione sia della voce sia del modo di stare con i bambini praticamente chiusi in un ambito teatrale. Il mio lavoro nell'infanzia è molto complesso e in questi ultimi anni ho dedicato tanto tempo alla voce quanto ne ho dedicato ad un lavoro pratico con i bambini attraverso spettacoli e soprattutto allestimenti, non solo in Italia ma un po' in tutto il mondo.”
Lei ha fondato una Scuola Sperimentale di Teatro Infantile, ci parli brevemente di questo progetto.
“È una Scuola che ormai ha quindici anni e che probabilmente ha gettato i semi di quelle che sono ancora le origini di questo lavoro. Mi riconnetto sempre ad un punto di origine. Parlo spesso di origini perché credo che il mio lavoro non abbia una prospettiva, un fine.
Anche rispetto alla domanda precedente. Chi sono? Sono una che ogni giorno parte da capo, ricomincia. Ricomincia a lavorare intorno alle stesse cose ma, soprattutto, ogni giorno si pone gli stessi problemi: cioè di stare nell'origine del proprio pensiero, stare su quella soglia che permette ad Orfeo di guardarsi indietro e di perdere l'oggetto la propria materia – che appunto è Euridice – ma non il fatto di essere all'origine del proprio desiderio.”
Un libro di teatro che consiglierebbe di leggere a qualcuno che le sta a cuore, magari ad uno dei suoi allievi più grandi.
“Per quanto riguarda il ritmo drammatico, il suono, la drammaturgia musicale degli spettacoli, mi sono spesso riferita alla letteratura. Per me è stata fondamentale la letteratura di Urlo e furore di Faulkner ad esempio. Un libro fondamentale per avere delle idee e per aprire l'orizzonte su un modo di concepire il ritmo drammatico.”
Lei va teatro? Cosa ha visto recentemente di buono?
“Ci vado pochissimo... E proprio per questo non saprei cosa rispondere.”
Lo spettacolo della sua vita, fatto da un'altra compagnia.
“Questa cosa è in atto con Buchettino. Uno spettacolo nato nel '94, questa favola raccontata in una stanza acustica con cinquanta letti in cui i bambini vanno a dormire. Questa scenografia è stata realizzata in Cina, in Cile, in Giappone, in America, in tutta Europa. Ci sono compagnie, che non sono la mia, che continuano a replicare questo spettacolo. Proprio in questo momento, nell'estate cilena, stanno replicando questa favola per i bambini; la stessa cosa in Cina e in Giappone.”
Lo spettacolo della sua vita, realizzato dalla vostra compagnia.
“Un grande montaggio che è fatto dai momenti diversi. Il suono più originario, il suono del risveglio del mattino, quello della fatica della sera, questo ritmo biologico che va assolutamente rispettato.
Nel nostro lavoro si ha solamente la fortuna di poter vedere, probabilmente, quello che si insegue, qualcosa che sicuramente si insegue. Io sto inseguendo un'immagine sonora, una voce. Sono spinta da queste cose qui. Magari prendo appunti e non so neppure perché li prendo; e dopo qualche tempo mi accorgo che queste cose rientrano perfettamente nel disegno di qualcosa che sto realizzando.”
Qual è la situazione del teatro sperimentale in Italia oggi?
“Questa grande fatica di cui tutti ci stiamo preoccupando – economica sostanzialmente – che impedisce alle compagnie molto giovani di avere una voce quando invece andrebbero scardinati i vecchi vizi, i vecchi sistemi e i vecchi metodi. È anche vero che il pubblico è stato deluso da tanta sperimentazione, ma è il gusto in Italia il problema sostanziale. L'abbassamento del livello estetico che va di pari passo con l'etica. E ne è testimonianza lo squallore del livello informativo che fa sì che gli stessi giovani non riescano più da orientare i propri giudizi, sono fiammate di curiosità che si spengono nella assoluta indifferenza.”
Il nome di quello che lei considera un maestro vivente nel teatro mondiale.
“Non saprei. Anche perché ogni lavoro racchiude una perla di esperienze, di tecnica, che in un particolare momento può parlarti oppure lo escludi perché non rientra in quella corsa sfrenata verso l'origine che ti spinge a fare. La mia non è una valutazione di questo tipo, non sono una spettatrice obiettiva.”
Chi eccelle nella ricerca nel teatro contemporaneo?
“Tutti coloro che fanno un'attività di ricerca sono validi di per sé. Diceva Rilke nella Lettera a un giovane poeta: che bisogno hai di una valutazione esterna del lavoro che stai facendo, se questa cosa per te è fondamentale? Purché però questa cosa sia fondamentale. E fondamentale significa che se non puoi farla sfiori la morte. Ecco, non esasperiamo queste terminologie. Di fatto, però, c'è una radicalità che dovrebbe svenarci in questo lavoro, come in qualsiasi altro lavoro: qualcosa di fondante, fondamentale appunto, nella propria esistenza. Per questo è difficile fare valutazioni. È un momento della propria esistenza, come mangiare, dormire.”
Quali sono le difficoltà che può incontrare in Italia un aspirante teatrante?
“Innnanzitutto le difficoltà che hanno non solo i giovani aspiranti, ma che ha anche compagnie come la nostra: il giro. Noi non giriamo in Italia, non ci sono le economie, non ci sono gli spazi, gli interessi. Ci sono dei giochi politici che pensano di costruire i cartelloni in altra manier e siamo sempre relegati in un ambito di sperimentazione. E non si capisce perché questa sperimentazione debba essere tenuta separata da un teatro di tradizione che è pressoché vuoto di giovani, vuoto di senso. Perché essere così reazionari? Perché avere una cultura così, della restaurazione? Sono tutti interrogativi aperti che, ripeto, vanno di pari passo con l'idea di estetica di cui parlavo prima e che si avvicina all'etica e alla morale del momento in cui stiamo vivendo.”
Il rapporto con le istituzioni.
“Non c'è totale disinteresse, prendiamo soldi dallo Stato come tutte le compagnie che fanno domanda al Ministero. In Italia ci sono delle situazioni di attenzione particolare, come Napoli. Il fatto che io possa lavorare in questo teatro, un teatro classico significa che ci sono delle situazioni di teatro alternativo. Forse è bello e anche interessante il fatto che esistano così tanti teatri, ma la cosa grave è che sono teatri nicchia. Ci conosciamo tutti, quando andiamo a teatro; è difficile sorprendersi di un pubblico che non si conosce in certi spettacoli.”
Il teatro e la televisione.
“Il teatro in televisione può andare ma con il pensiero del fatto che ti trovi in televisione: ogni tecnica ha il suo ambito. Se ad esempio fai un video in teatro, non puoi prescindere che sia un video. Come quando fai un'opera teatrale, non so, un classico: non puoi fare i conti con la letteratura devi fare i conti con il teatro, con gli attori. L'importante è prendere consapevolezza della tecnica che si sta utilizzando.”
Lo spettacolo in scena in questi giorni, Flatlandia, tratto dal celebre racconto di Edwin Abbott Abbott. Ce ne parla?
“Flatlandia è un racconto sulla geometria. Il problema non è tanto nel significato delle parole ma nel modo in cui voce poteva suonare queste parole a prescindere dal significato delle parole stesse. Quindi il problema di come la voce possa assumere su di sé il problema della geometria: la voce che dà un piano, due piani, due dimensioni, la lunghezza, la larghezza, tutte queste forme... Come può diventare suono, sostanzialmente: come suonare la voce su queste parole perché possa avvicinarsi e allontanarsi. Credo che l'idea sostanziale di questo lavoro sia affidare il teatro alle corde non del teatro, ma vocali. Il teatro si concentra tutto lì: la scrivania, la bocca, i denti, la lingua, la saliva, il palato, l'utilizzo di microfoni che possano cogliere questo e la capacità di creare questi doppi e tripli piani, echi, ritorni, richiami, fantasmi, sdoppiamenti del personaggio. Costruire le parole con il suono della voce, fabbricare una parola che nella scrittura ha delle linee. Non leggere la parola, ma prima di tutto vedere delle linee e dimenticarsi quasi, con uno sguardo infantile, la convenzione.”
Azzurra Mancini
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