XXXV Convegno annuale della Società Italiana di Glottologia: intervista con Domenico Silvestri

 

XXXV Convegno annuale della Società Italiana di Glottologia: intervista con Domenico Silvestri

Locandina del XXXV Convegno della Società Italiana di Glottologia

"All’essenzialità della lingua si arriva solo attraverso la complessità della lingua, non segmentando"

Professore Domenico Silvestri, che cos'è la linguistica?

"La linguistica per me è, intanto, un fatto profondamente autobiografico, in quanto sono attivo nella linguistica da praticamente mezzo secolo. Se per attività si intende un momento importante, lo è stato anche per me, quello della scrittura della tesi di laurea e della frequenza di maestri importanti presso l’università di Pisa. Quindi la linguistica è innanzitutto un fatto autobiografico, riguardo al quale insisto nel dire che i problemi sviluppati nell’ambito della mia ricerca li ho posti innanzitutto a me stesso: mi sono confrontato con le cose scritte e pensate dagli altri ma nella convinzione, tuttavia, che il fatto fondante fosse quello che io percepivo della lingua, degli infiniti problemi della lingua. Sulla base della mia esperienza posso dire che la linguistica non è soltanto una scienza, una scienza delle lingue e del linguaggio ma è anche, e soprattutto, un problema di coscienza linguistica, cioè di percezione di me stesso nel momento in cui indago me stesso riguardo alle mie percezioni della lingua. Il problema di coscienza linguistica si può anche definire, alla fine, un problema di autocoscienza linguistica. Credo che questa, in fondo, sia la condizione di tutti noi linguisti, anche quando crediamo di essere assolutamente oggettivi siamo sempre parte in causa perché siamo parlanti e scriventi; siamo, quindi, allo stesso tempo, soggetti che indagano ed oggetti di indagine."

L'etimologia "scienza del vero": che ne pensa?

"Penso che non sia un problema se non etimologico. Si tratta in questo caso di prendere consapevolezza che stiamo facendo l’etimologia della parola etimologia. La parola etimologia significa appunto “scienza del vero” ma non è un vero che ci si palesa con immediatezza: la parola greca ètymos a sua volta pone un problema di interpretazione semantica circa il suo valore originario. Più che di verità si dovrebbe parlare di stato di cose: questo è il valore forse più antico di ètymos. Con questo voglio dire che dietro questa parola difficile c’è il riferimento a 'stato', alla condizione essenziale della realtà. Quindi, che cosa fa la scienza etimologica degli antichi? Cerca di capire se c’è congruenza tra la parola e la cosa rappresentata, cioè quale sia il fondamento iniziale della parola. Questa congruenza dovrebbe essere il fatto di partenza. Detto in un altro modo: sono i fatti che sono rappresentati attraverso le parole ma non solo i fatti oggettivi; sono rappresentate anche quelle che Aristotele chiama le affezioni dell’animo. In buona sostanza, già la parola rappresenta la percezione che noi abbiamo della realtà e non la realtà stessa, perché sarebbe una pretesa eccessiva anche il solo pensarlo. Quindi siamo già calati di nuovo nella soggettività della percezione. Risalire le percezioni iniziali attraverso l’etimologia è un’autentica illusione. Noi possiamo risalire attraverso l’etimologia a certi momenti di sintesi percettiva, momenti che sono necessariamente secondari e condivisi. L’etimologia, in questo senso, non è mai la scoperta dell’origine di una parola, quand’anche questa fosse una parola inventata, ma è sempre il momento della scoperta della condivisione di questa parola da parte del parlante con altri parlanti, da parte di un autore con altri autori. È sempre un momento di arrivo, anche provvisorio, quello che noi vediamo con l’etimologia. Un momento di partenza è inimmaginabile perché non ha ancora la condizione del consenso sociale che è proprio e specifico del fatto linguistico."

Che cosa consiglia di leggere a un giovanissimo linguista?

"Consiglio di leggere i testi, soprattutto i testi, innanzitutto i testi. Perché un linguista che si vuole dedicare a questo genere di studi deve prendere coscienza che la lingua si realizza pienamente nella testualità. Leggiamo per esempio I promessi sposi di Alessandro Manzoni o un poema antico come l’Iliade e leggiamoli a lungo perché non riusciamo mai, ad una prima lettura, a prendere coscienza di quanto sia grossa la posta in gioco.
Un linguista giovane deve innanzitutto misurarsi con i fatti linguistici. I fatti linguistici si chiamano testi; poi può anche accostarsi ad una teoria specifica, però deve avere un atteggiamento estremamente relativista, da una parte, ed estremamente preciso e puntuale, dall’altra. Da un lato, deve essere consapevole che ogni teoria linguistica è soltanto una possibilità di accostamento alla lingua, non è l’unica, non è l’ultima e, soprattutto, non è la migliore. Al di là di questi aggettivi, non è mai la definitiva.
In secondo luogo, deve essere consapevole che se sceglie un accostamento teorico deve essere estremamente coerente con esso, cioè non deve dire niente di più di quello che l’accostamento teorico gli consente di dire, non deve uscire da quella dimensione che noi chiamiamo della pertinenza metalinguistica; quindi, deve porre un limite preciso dentro la teoria. Questo significa che sarà almeno esatto nelle sue conclusioni, però non significa che sarà esauriente nel suo accostamento.
Perché non è esauriente? Perché se gli atteggiamenti devono essere teoreticamente fondati e pertinentemente realizzati, esiste poi il problema di essere adeguati all’oggetto di studio. Si pone, quindi, il problema dell’adeguatezza: un problema che non si può chiudere dentro un settore specifico della ricerca linguistica, ma un problema aperto sull’indefinita complessità del fatto linguistico. L’adeguatezza è data dalla totalità dell’accostamento alla lingua e quindi da una totalità che è da intendersi come opera aperta che non può essere mai conclusa; deve essere concepita come un obiettivo irraggiungibile ma verso il quale bisogna muoversi.
Ad un giovane linguista direi di essere umile e ambizioso allo stesso tempo: umile perché il progetto di studio è estremamente complesso e ambizioso perché l’umiltà non significa rinuncia, bensì consapevolezza dei propri limiti. Questo non significa porre un limite alla conoscenza."

Che spazio ha la linguistica nella sua Università?

"Lo spazio che si affida alla linguistica nella mia università è ampio e anche complesso proprio nei limiti e, nello stesso tempo, negli obiettivi irrinunciabili a cui facevo riferimento prima.
La mia è una università il cui fondamento epistemologico non può non essere lo studio delle lingue, inteso anche come una reale capacità di avere la percezione della pluralità e della complessità delle culture. La linguistica in questa università, da quando io ho cominciato ad occuparmene alla fine degli anni Sessanta ad oggi, ha avuto uno spazio crescente: uno spazio di crescita non soltanto dal punto di vista dell’obbligo dello studio ma soprattutto della pluralità degli studi linguistici possibili. Non solo quelli che vanno sotto l’etichetta della Linguistica generale e di tutte le discipline connesse

– e sono tanti gli insegnamenti che si propongono in questo senso – ma anche in direzione delle linguistiche particolari, non solo quelle che riguardino lingue europee ma anche, e soprattutto, lingue extraeuropee. L’Orientale, quindi, se si ricorda di questa sua sorta di dna linguistico può essere ancora di più un luogo di eccellenza, nel senso che palesa una sua peculiarità che altri atenei non possono o non vogliono avere. Se, invece, si allontana dalla pluralità delle lingue, rischia di essere un ateneo che ha obiettivi generici, generalistici e di massima, quando propone i vari accostamenti possibili: storici, antropologici, geografici, politologici, filosofici, sociologici, letterari e quant’altro. Se non si ritorna all’assoluta peculiarità dei testi e all’assoluta peculiarità della loro espressione linguistica, non si fa niente che sia veramente nel dna dell’Orientale."

In che direzione sta andando la ricerca in ambito linguistico?

"Nel mondo linguistico la ricerca sta andando, secondo me, sempre più verso una direzione di una linguistica applicata a vari problemi urgenti e inderogabili. Oggi noi abbiamo bisogno di una linguistica che sia in grado di rispondere, in modo adeguato, alla complessità della documentazione. Una linguistica che si avvalga, per accelerare i suoi processi di valutazione dei fatti linguistici, di adeguati supporti informatici – questo è un aspetto che già si sta approfondendo con l’uso di corpora informatizzati – e dei risultati che da queste applicazioni si possono trarre. L’altro importante aspetto applicativo riguarda la possibilità di far coesistere competenze plurilinguistiche nei parlanti: se è difficile oggi immaginare un monolinguismo assoluto perché ci sono dei principi di mobilità molto forti nel mondo attuale – si tratta di mobilità legate soprattutto al mondo del lavoro – ne consegue che il plurilinguismo e l’apprendimento delle lingue non sono più un problema di acquisire una competenza in aula o in laboratorio ma di valutare quanti e quali problemi sono coinvolti da questa fondamentale esigenza. Si tratta, cioè, anche di mettere in rapporto il fatto linguistico con il fatto sociale, con il fatto politico, con il fatto antropologico e, in questo senso, non è più pura teoresi linguistica ma è un guardare in direzione di momenti applicati.
C’è un altro problema, forse, che è ugualmente importante: quello della nostra incapacità espressiva. Siccome la nostra capacità espressiva passa per tanti linguaggi possibili – che sono anche linguaggi che non si basano sul fatto fonatorio, sulla fonazione – qui il linguista non può apportare contributi importanti. A livello fonatorio, invece, il problema della capacità espressiva – cioè la capacità di avere una lingua ricca, efficace, potente, non soltanto legata al problema dell’arricchimento reciproco perché il parlare è necessariamente dialogico – è legata soprattutto ad una maggiore e migliore definizione della personalità di chi parla e di chi scrive: non ci si può accontentare di una espressione linguistica limitata, sintetica, di pura sopravvivenza.
In questo senso, tutta la grande dimensione della lingua come fatto estetico, culturale e letterario, va riproposta continuamente, anche da parte dei linguisti. Noi siamo quello che riusciamo ad esprimere e quello che riusciamo ad esprimere è, in larghissima misura, espressione linguistica.
Un ulteriore orizzonte è quello della neuroscienza. Siccome l’indagine sul cervello riguarda tante funzioni cerebrali, tra le quali quella linguistica occupa un posto di assoluta importanza, conoscere meglio che cosa sia una lingua significa, nel tempo, conoscere meglio che cosa sia il nostro cervello. Conoscere meglio il nostro cervello darà la possibilità alle generazioni di linguisti futuri di capire meglio che cosa sia una lingua. Oggi andiamo dalla lingua verso il cervello, perché disponiamo della lingua ma non dell’adeguata conoscenza del cervello ma quando avremo una adeguata conoscenza del cervello sarà possibile anche il percorso inverso, andare dal cervello alle lingue."

Come si inquadra lo studio etimologico negli studi linguistici, quali i legami con le altre branche?

"Lo studio etimologico negli studi linguistici, secondo un’impostazione tradizionale del problema, si potrebbe inquadrare con la constatazione che l’etimologia ci permette di fare la storia delle parole e farci vedere, quindi, la ricchezza umana complessiva delle parole. Le cose non sono soltanto limitabili a questa considerazione, che è comunque fondamentale e importantissima. Io credo che lo studio etimologico ci faccia capire meglio la natura delle parole e conseguentemente ci metta meglio in contatto con le altre prospettive di studio linguistico.
Possiamo dire che una dimensione puramente fonetica o puramente sintattica sono due elementi irrinunciabili dell’attività linguistica. La fonazione è deputata alla costruzione di quegli elementi che hanno costruzione semantica, che sono le parole, e le parole, a loro volta, con la loro storia, ci fanno capire meglio come sono state organizzate foneticamente nel tempo; allo stesso modo, quella dimensione irrinunciabile che è la competenza sintattica ci permette di fare frasi corrette. Non può prescindere dalle parole che impieghiamo, perché sono le parole che in qualche modo guidano il costituirsi di quegli elementi primari dell’organizzazione sintattica che sono i cosiddetti principi sintagmatici cioè il sintagma nominale, il sintagma verbale, il sintagma aggettivale, e via discorrendo.
Le parole sono luoghi di generazione sintattica. La parola scelta non è indifferente alla struttura sintattica che realizziamo: è la parola che noi scegliamo che diventa fondamento dell’organizzazione sintattica e le parole vengono conosciute attraverso l’etimologia. Etimologia non tanto nel senso della scoperta e dell’improbabile evento iniziale poiché nella lingua non ci sono eventi iniziali ma sempre punti di arrivo: i punti di arrivo sono quelli che chiamiamo arrivi provvisori per ripartite immediate e, conoscendo questi elementi, possiamo arrivare a saperne di più sulla fonazione e sull’organizzazione sintattica nelle varie epoche della lunghissima storia dell’uomo.
Se togliessimo le parole e la loro profondità temporale – questo è il problema dell’etimologia – non ci resterebbe altro che una serie di strutture astratte, sospese nel vuoto, che non riuscirebbero nemmeno a motivarsi. Quindi è importantissimo lo studio delle parole, oggi più che mai, perché ho l’impressione che abbiamo un progressivo impoverimento lessicale. Nel nostro comportamento linguistico odierno abbiamo bisogno di poche parole per la sopravvivenza quotidiana e di alcune città circondate da mura che sono i cosiddetti linguaggi specialistici. In quelle città ci si entra solo se si è addetti ai lavori e lì le parole si moltiplicano, ma solo in una direzione specifica; fuori di queste città c’è una situazione abbastanza desertificata: poche parole per la sopravvivenza quotidiana, poche, pochissime parole per l’espressione della nostra personalità e quindi dei nostri sentimenti, dei nostri stati d’animo, delle nostre sensazioni dolorose o piacevoli.
E di fatto, poi, anche nella realtà naturale che ci circonda, nella sua complessità, quanti nomi di alberi conosciamo? Quanti nomi di animali – e delle rispettive specie – conosciamo? E se non li conosciamo è perché non ci interessano? Se fosse così perderemmo moltissimo attraverso la rinuncia alla ricchezza lessicale perché è solo con le parole che si evocano le cose. Le parole e le cose stanno insieme: da Aristotele in poi è così. Se non ci sono le parole, io ho il sospetto che non ci siano nemmeno le cose o quantomeno una percezione generica delle cose: quello è un albero, quello è un pesce e quello è un uomo. Come se questo bastasse. Bisogna conoscere molte parole per conoscere molte cose."

Che spazio trova la linguistica in Italia?

"Trova uno spazio che, a mio parere, non è tutto quello che potrebbe essere.
C’è stato un momento nella storia della linguistica, un momento importante che va sotto il nome complessivo di Strutturalismo, in cui la linguistica è diventata anche un modello epistemologico per varie scienze umane. Finito quel momento le attenzioni dei linguisti si sono spostate sull’attività linguistica in senso stretto, la dimensione pragmatica della lingua, o sulla competenza del parlante, cioè l’attitudine al linguaggio che è poi l’accostamento generativista. Il modello generativista non può prescindere da una dimensione più ampia che è quella dei problemi generali della conoscenza – e in questo senso riesce ancora ad essere, nei problemi generali della conoscenza, attraverso la figura di Chomsky, un momento di riferimento importante – l’altro atteggiamento, quello pragmatico, che invece si occupa del nostro comportamento linguistico, tutto sommato dentro una dimensione che lo sovrasta ampiamente che è quella socio-antropologica, non è necessariamente una disciplina di riferimento ma piuttosto è una disciplina che ha bisogno di riferimenti nella sociologia e nell’antropologia che hanno strumenti molto forti in questo senso.
Quindi lo spazio della linguistica, quello dell’epoca dello Strutturalismo, si è ridotto. La linguistica potrà occupare uno spazio, non dico di assoluta eccellenza, ma di primissima posizione, quando si saprà di più del funzionamento del cervello e quando necessariamente, sapendo di più, ci si accorgerà che il nostro cervello ha una attività linguistica estremamente importante per la definizione di tanti e tanti aspetti cognitivi. Si ricomincerà probabilmente da una neurolinguistica avanzata, una neurolinguistica del futuro, adesso siamo alle prime avvisaglie.
Secondo me, la linguistica oggi non ha l’importanza che ha avuto nel passato, è sicuramente meno importante ma questa è semplicemente una parentesi. Tornerà ad essere importante nel futuro."

Che applicazione potrebbe trovare la linguistica e che cosa non si fa per favorirne la migliore conoscenza possibile?

"La linguistica dovrebbe avere soprattutto un’applicazione nell’educazione linguistica e, nell’educazione linguistica, dovrebbe essere un’educazione alla pluralità e alla complessità espressiva. Oggi, invece, non si fa a sufficienza per dare questi strumenti di abilità linguistica: mi riferisco a chi parla una lingua nativa che, attraverso la scuola, dovrebbe arricchire sempre di più la sua capacità espressiva. La linguistica potrebbe aiutare gli educatori nella loro opera nel caso del cosiddetto parlante normale mentre il campo molto vasto delle patologie dell’espressione – che sono soprattutto patologie linguistiche, varie forme di afasia, varie difficoltà espressive – non lo vedo ancora sufficientemente percorso da linguisti e da psicologi o da operatori in generale che procedono in modo effettivamente sinergico: è come se la linguistica restasse a fianco e non si intrecciasse con queste attività. Quello delle patologie del linguaggio, però, è un aspetto molto importante che bisognerebbe rivisitare, perché ci permette di capire tante cose del linguaggio normale. Per capire meglio il linguaggio e studiarne i meccanismi, la competenza sintattica è indagata a sufficienza, anche negli aspetti applicativi. Il tasto su cui io insisto sempre è quello della competenza lessicale che è, invece, piuttosto circoscritta oggi. Anzi, circoscritta da una parte e specializzata dall’altra. Non esiste tutto un campo intermedio della persona, non in quanto operatore in uno specialismo, ma in quanto ricchezza umana ed è di questo tipo di specialismo linguistico che io avverto, acutamente, la mancanza nelle generazioni attuali. La linguistica, quindi, dovrebbe ricondurre sempre, attraverso una adeguata frequentazione dei testi, alla competenza lessicale. Se conosco tante parole è come se avessi tante finestre da cui guardare."

Cosa è cambiato nello studio della linguistica da quando lei ha cominciato a fare ricerca?

"È cambiato moltissimo l’atteggiamento complessivo dei linguisti perché siamo passati da una visione soprattutto diacronica nei fatti di lingua che metteva lo studente di fronte al passato di una lingua, anche al suo passato remoto, fino a quel passato remotissimo della lingua stessa che si chiama ricostruzione di una lingua attraverso gli sviluppi successivi. Questo è cambiato perché oggi l’atteggiamento non è in direzione della profondità storica delle lingue ma è in direzione dei vari momenti sincronici di impiego della lingua. A determinare questo cambiamento è stata l’idea che una prospettiva di generalizzazione forte ed universalistica dello studio potesse dare risultati importanti.
Quando io ho cominciato a studiare, i docenti mi invitavano a tenere la massima cura del particolare, cioè la peculiarità specifica di una parola, di una struttura sintattica di un testo; il particolare era un valore che bisognava riconoscere, per riconoscere poi, attraverso di esso, la peculiarità di un autore oppure la sua appartenenza ad una varietà linguistica speciale.
Quello che oggi ha cambiato molto l’atteggiamento è l’idea che si possano creare dei modelli forti di lingua e poi andare a vedere quanta conformità ci sia nell’agire linguistico di ciascuno di noi, rispetto a questi modelli, il che non ci fa conoscere il particolare come una peculiarità fondamentale della lingua. L’importanza del particolare risiede tutta nel fatto che qualunque fenomeno di lingua è, allo stesso tempo, universale – perché rappresenta una facoltà che abbiamo tutti quanti in quanto esseri umani – storico – in quanto si verifica in un determinato periodo dentro una determinata cultura – ma è anche un fatto individuale – non si può immaginare una lingua collettivamente parlata da una pluralità polifonica di persone; si parla sempre agli altri ma si parla sempre in quanto singoli individui.
La dimensione individuale e quella particolare sono molto importanti ed oggi sono quelle meno chiare e meno note. Secondo me, tutto questo è cambiato per la volontà di avere un atteggiamento scientifico esatto e l’esattezza non è l’unica condizione della scienza. L’esattezza è una condizione irrinunciabile, alla quale si affianca la completezza, che è altrettanto irrinunciabile. Oggi, nella linguistica, siamo esatti ma molto parcellizzati, assolutamente incompleti."

A suo avviso la linguistica andrebbe insegnata nelle scuole superiori?

"Andrebbe insegnata nelle scuole elementari ed anche alle scuole materne per far vedere come è ricca e complessa una lingua. Indurre il bambino ad arricchire la propria lingua e a divertirsi con le parole, con le frasi e con i testi sarebbe profondamente educativo. Con gli strumenti della linguistica bisognerebbe cominciare a rendere consapevoli di che cosa è una lingua, sin dalla più tenera età. Del resto è come se ci ricordassimo in questo modo che noi abbiamo imparato una lingua scoprendo le parole di volta in volta, imparando ad usarle e correggendoci continuamente nell’uso che ne facevamo.
Nelle scuole, prima dell’università, la linguistica dovrebbe essere insegnata perché è una forma prioritaria e imprescindibile della comunicazione. Si può comunicare in tanti modi, se poi dobbiamo descrivere questi modi abbiamo bisogno dello strumento linguistico che è uno strumento potente di socializzazione e di consapevolezza delle conoscenza che abbiamo acquisito. Questa consapevolezza di come sono fatte le parole si dovrebbe dare per tempo insieme con quel senso della profondità storica. In fin dei conti, dire che l’italiano è una forma di neo-latino è dire solo una minima parte, poiché l’italiano è anche pieno di parole greche, arabe, germaniche, oggi di parole inglesi. Far vedere come sono le varie epoche della lingua e perché ci sono certe parole in certe epoche, sarebbe molto importante già nell’esperienza scolastica. E poi, soprattutto, bisognerebbe insegnare a leggere e a capire un testo: non è vero che tutto è scontato."

Trova adeguato al quadro internazionale il livello di studio della linguistica in Italia?

"Direi di sì, anche se adesso l’adeguatezza al quadro internazionale si misura, di volta in volta, come si usa fare oggi, con riferimenti di citazione che uno ha o che fa.
Con una certa punta di ironia, io dico che i linguisti italiani sono capaci di citare moltissimo i linguisti non italiani ma che i linguisti italiano siano (siamo) molto impegnati nel citare i linguisti italiani, non è altrettanto vero. C’è un forte squilibrio tra l’attenzione che noi linguisti abbiamo per la dimensione internazionale della linguistica e il ritorno di questa dimensione internazione come attenzione alla linguistica italiana.
Quando si guarda più attentamente ci si comincia ad accorgere progressivamente che i linguisti francesi, i linguisti spagnoli, quelli tedeschi non sono molto più privilegiati dei linguisti italiani in questa prassi di citazioni e allora, alla fine, ci si rende conto che i linguisti conoscono una sola lingua cioè l’inglese, sennò non si riesce a capire perché i linguisti che non scrivano in inglese non siano citati.
È importante scrivere in inglese ma sarebbe ancora più importante che i linguisti conoscessero anche altre lingue oltre all’inglese, altrimenti mi sembra che stiano facendo un’operazione di progressiva omologazione non solo nell’uso della scelta della lingua inglese ma anche nella scelta degli argomenti, dei temi e degli obiettivi. Questo è un aspetto che non sottovaluterei: i linguisti non conoscono le lingue, è un paradosso. Anzi una la conoscono: l’inglese, le altre… si spera."

In quale contesto internazionale lo studio della linguistica è particolarmente vivace?

"Un po’ in tutto il mondo occidentale c’è una situazione grossomodo paragonabile a quella italiana. Piuttosto ci sarebbe da chiedersi che linguistica si faccia nei vari paesi. Che si faccia linguistica è fuori di dubbio, poi però ci sono delle linguistiche che sono quasi sparite negli studi e anche nei ranghi universitari. Una di queste linguistiche, che è in fase fortemente regressiva, è la linguistica storica, una linguistica di nicchia.
La linguistica è presente dappertutto ma non è una disciplina guida tra le scienze umane. Non manca certo la specializzazione: ci sono specialisti di basco, che è una lingua ormai quasi estinta nella Penisola Iberica, ci sono specialisti di lingue africane, di lingue caucasiche, di lingue indigene dell’Australia, però non vedo un pluralismo delle competenze linguistiche, per cui si passa dalla lingua di un gruppo alla lingua di un altro gruppo. Tutto questo può anche essere la conseguenza dell’avanzamento degli studi e della massa enorme di lavori di linguistica che si producono nel mondo. Vedo due atteggiamenti soprattutto: l’altissima specializzazione da una parte e una tendenza alla massima generalizzazione dall’altra. È come se ci fossero due tipi di linguisti: quelli che studiano una lingua sola e quelli che studiano la lingua, senza dire quale. Lo studio incrociato delle lingue tra queste due tipologie è l’approccio meno presente e, al tempo stesso, quello più importante perché riesce a farci capire sia il generale, sia il particolare, simultaneamente."

Quale Università, in Italia, brilla particolarmente per gli studi in campo linguistico?

"Se dicessi il nome di una sede universitaria dove si studia meglio o di più la linguistica, rischierei di farmi rimproverare da troppe persone. Forse non mi basterebbe la gratitudine di quelli che sono stati rammentati per compensare i rimproveri.
Oggi è anche un po’ difficile parlare di scuole di linguistica riferendosi a varie università italiane. Non vedo figure di forte riferimento, di studiosi di forte riferimento, come è stato fino a venti o trenta anni fa, quando si identificava un linguista con la sua scuola. C’era la scuola di Firenze e si faceva il nome di Giacomo Devoto, la scuola di Pisa e si faceva il nome di Tristano Bolelli, oppure la scuola di Roma con Antonino Pagliaro.
Quindi, si studia bene in tutte le università italiane la linguistica, sempre sotto questo segno o come problema generale o come iperspecialistica, iperspecifica, iperfocalizzata."

Può dirci il nome di almeno un linguista italiano per il quale ha o ha avuto particolare considerazione?

"A livello internazionale, il linguista che mi ha fatto capire meglio come funziona la lingua è Edward Sapir. Per me è un linguista che ha un senso della complessità della lingua che gli permette poi di arrivare a ciò che è veramente essenziale, anche nella lingua. Ma all’essenzialità della lingua si arriva solo attraverso la complessità della lingua e non segmentando.
Un linguista italiano che per me è un riferimento importante è Giacomo Devoto, un linguista di altri tempi, dell’università di Firenze. Di Devoto apprezzo molto l’eleganza e lo stile delle percezioni linguistiche.
Posso leggere questi linguisti nella convinzione che hanno messo la lingua davanti a tutto il resto, altri invece sono ottimi linguisti però mettono prima la filosofia, la letteratura, l’antropologia e poi vedono quanta ne possono trovare nei fatti di lingua. Invece, questi due, hanno messo la lingua davanti a tutto e, attraverso la lingua, sono arrivati a migliori conoscenze complessive dell’uomo: questo è essere linguisti in senso stretto, per questo mi piacciono."

Se la sente di fare il nome di uno studioso che potremmo considerare "giovane" rispetto ai nomi già diffusamente affermati e che a suo avviso mostra di avere spessore?

"Questa è una domanda molto cattiva. Quelli vecchi si possono risentire e quelli giovani si possono disperare se non vengono rammentati. Ci tengo a precisare che la disperazione non è augurabile per nessuno. È veramente difficile indicare un giovane come riferimento. E poi quanto giovane dovrebbe essere? Giovane è un quarantenne? Oggi i quarantenni hanno appena finito il dottorato e sono agli inizi della loro carriera, non si possono assumere come garanzia già affermata. Poi si diventa, subito dopo, cinquantenni e di cinquantenni bravi ce ne sono tanti. Per fortuna non ce ne è uno che sia il più bravo di tutti, questo lo si potrà dire solo dopo.
Sapir fuori dai confini italiani e Devoto in Italia, mi sembrano autori che posso rileggere in ogni momento senza avere la sensazione che siano superati. Se un giovane avesse questa stessa condizione sarebbe un autentico prodigio. Però ce ne sono di persone che meritano un’attenzione particolare e sono quelli, chi vuol capire capisca, che hanno una complessità di accostamento rispetto al fatto linguistico, però non posso dire chi sono, sennò poi si montano la testa."

È la prima volta che un convegno annuale della SIG, un evento di primaria importanza per il campo della Glottologia e la Linguistica, si svolge a Napoli, nelle sedi dell’Orientale?

"In quanto annuale sì, non abbiamo fatto in passato convegni a Napoli. Però agli inizi di questa Società, quando si facevano convegni semestrali, c’è stato un convegno a Napoli, sempre ospitato nelle sedi dell’Orientale.
Quel convegno napoletano fu dedicato alle lingue e ai contatti tra le lingue nel mondo antico. Io allora ero ancora agli inizi della mia attività scientifica, ero quasi un esordiente, però ebbi un riconoscimento da parte di queste persone così importanti che sono stati i miei formatori, di poter proporre questo argomento, poiché gli argomenti li propongono le sedi ospitanti d’intesa con la Società. Quel convegno ebbe gli atti stampati con l’obiettivo di far vedere quanto fosse plurale il panorama delle lingue nel mondo.
Per quest’anno io ho proposto l’etimologia senza aggettivi aggiunti: l’etimologia come pluralità di problemi storico-linguistici. Questa pluralità si è poi palesata nel momento organizzativo, sempre d’intesa con la Società, perché abbiamo uno specialista di etimologia araba nella Spagna, il professore Corriente, gli specialisti di etimologia latina e greca, i professori Poli e Consani, uno specialista dell’etimologia dell’egiziano antico come il professore Crevatin, uno specialista dell’etimologia dell’Iran antico, il professore Mancini, uno specialista di etimologia cinese come il professore Banfi e, a conclusione, il professore Pfister che è il curatore, il deus ex machina del lessico etimologico italiano. Quello dell'etimologia è un argomento, può sembrare strano, che non è mai stato trattato nei convegni della Società Italiana di Glottologia, anche perché ha i suoi pericoli visto che l’etimologia è un’arte del possibile. È un’arte, innanzitutto; cioè devi avere una straordinaria sensibilità per poter proporre la possibilità che la storia di quella parola sia quella che tu stai ricostruendo. Si fanno delle cose anche perché piacciono e, a me, l’etimologia piace."

Si è largamente occupato lei stesso di etimologia. A quali questioni in particolare ha dedicato la sua ricerca?

"Mi sono dedicato a questioni di grande impatto come nel caso di un mio lavoro, a cui tengo molto, dell’etimologia della parola greca ànthropos cioè il nome generale dell’uomo per i Greci. Un’altra etimologia che ho fatto è quella del nome dell’Italia, proponendo un’interpretazione completamente diversa da quella tradizionale. Secondo me, l’etimologia dell’Italia è importante per un fatto: il nome del nostro paese, all’origine, rappresenta soltanto la punta estrema della Calabria, come documentato dagli storici Greci e poi, senza che ci sia stato in quella zona un re importantissimo, un potere enorme che ha conquistato il resto del paese – mentre Roma ha conquistato il nostro Paese – il nome Italia ha conquistato anche Roma ed è arrivato fino alle Alpi. Non è andato oltre perché è rimasto all’interno di un principio di armonizzazione delle diversità che non poteva superare un certo limite perché oltre la catena alpina c’erano delle differenze che non erano più armonizzabili con il resto, c’erano altri mondi.
Il terzo tipo di etimologie sono quelle relative ai nomi dati dai parlanti alle attività linguistiche. Ci tengo molto perché si tratta di momenti in cui i parlanti usano certi termini per indicare l’attività linguistica che stanno facendo – parlare, dire, domandare, rispondere. Questi nomi non li danno i grammatici ma i parlanti stessi facendo una sorta di autocertificazione linguistica che comincia con il mondo greco poiché i Greci hanno una sensibilità acutissima di quello che fanno quando parlano.
A me interessano questi aspetti: l’uomo, il mio paese – che reputo uno dei più belli in assoluto – ed infine il parlare, perché se non si parlasse non ci sarebbero nemmeno i linguisti."

Nei suoi ambiti di studio rientra l’indagine della protostoria linguistica.

"Mi interessa quel periodo chiamato della protostoria linguistica in cui le lingue si manifestano nei testi per la prima volta. Manifestandosi per la prima volta nei testi ci fanno intuire qualche cosa su un loro punto d’arrivo formativo, cioè su qualcosa che precede immediatamente ma che è molto importante perché se prendono poi forma nei testi significa che sono arrivate ad un livello tale di complessità che la testualità scritta non è più soltanto uno strumento di sopravvivenza quotidiana, ma è qualcosa che deve durare oltre la contingenza. È per questo motivo che mi interessa la protostoria linguistica, mentre sono più cauto sui due momenti successivi oppure su quello precedente, la preistoria linguistica, su cui possiamo fare solo delle ipotesi."

Qual è il legame fra gli studi comparatistici in questo senso e la ricerca etimologica?

"Il problema è questo: gli studi che fanno indagini comparative per stabilire situazioni culturali, umane che possono riportare molto indietro nel tempo, cioè alle soglie della storia, sono importanti perché a volte ci fanno capire le motivazioni di una parola. Quando si usa la parola ànthropos, un buon etimologo dovrebbe interrogarsi su quale fosse la concezione dell’uomo alle origini della cultura occidentale del mondo greco. Se non ti documenti su questo attraverso una rete molto fitta di verifiche incrociate, se non vedi cosa pensa che sia l’uomo Omero o Erodoto e via discorrendo, non puoi nemmeno capire perché questi autori usano ànthropos in un certo modo e quale sia il suo valore.
Quello che vorrei far capire a quelli che non si occupano di etimologia è che il valore uomo per ànthropos non può essere un punto di partenza: uno non si inventa su due piedi una parola per designare l’uomo come si può fare invece per una nuova macchina fotografica.
E allora che cosa ci fa la parola ànthropos nella consapevolezza degli antichi? Occupa un posto perché l’uomo è uno e molteplice, c’è l’uomo importante e non lo chiamerai mai ànthropos, c’è l’uomo ancora più importante e lo chiamerai in un altro modo e poi quello che è l’uomo generico che non ha né nome, né mestiere, né storia che gli altri possano conoscere lo chiamerai ànthropos. Non si tratta di parlare dell’uomo, bensì delle diverse condizioni delle persone ed una di queste è quella che poi viene espressa dalla parola ànthropos.
Quando poi ànthropos diventa il nome generico e generale per uomo, conserva ancora la traccia di questa sua origine: se era l’indicazione per l’uomo qualunque e anomino, può anche essere la designazione collettiva ed iperonimica per indicare tutti gli esseri umani. Nelle parole resta sempre qualcosa di quello che sono state e l’etimologo, per capire queste cose, deve sapere quale fosse la concezione dell’essere umano nel mondo greco antico e quindi ha bisogno di questi studi comparati."

La glottologia e la linguistica sono discipline profondamente composite e si legano a numerosi altri ambiti di studio: la Semiotica, la Sociologia, la Psicologia. Ci parli della natura di questa interdisciplinarietà e di come essa influenzi il lavoro dello studioso.

"Per l’esperienza che ho fatto di queste nozioni non sono il solo a credere non poco all’interdisciplinarietà. Interdisciplinarietà significa un dialogo: io sono un linguista, tu sei un antropologo, e dialoghi con me cercando di essere un linguista ed io dialogo con te cercando di essere un antropologo. Succede sempre che si arriva solo ad un certo punto: l’antropologo non diventa linguista e il linguista non diventa antropologo. Io credo che più che di interdisciplinarietà con queste importanti scienze umane, si debba parlare di multidisciplinarietà; noi dobbiamo dire quello che possono dire i linguisti sul tema comune che è l’uomo.
I linguisti devono dire quello che sanno, non devono farsi belli delle penne dello psicologo o dell’antropologo o di altri ancora e aiutare gli altri che non sanno di lingua e di linguistica a vedere più da vicino, attraverso l’unica cosa che il linguista ti può portare, le parole. Viceversa il linguista non può studiare una parola importante senza rendersi conto di come è organizzato il mondo che circonda le parole. Le discipline devono essere complementari ma non sovrapposte perché quando sono sovrapposte ci si prende abbastanza in giro."

Quale delle cose che ha scritto la rende particolarmente orgoglioso?

"Nulla, assolutamente nulla. Io non sono affatto orgoglioso di quello che ho scritto perché è un’approssimazione e basta. Posso essere soddisfatto di essermi incamminato in una certa direzione. Conoscere è un imperativo categorico per me, ma pensare di aver conosciuto a sufficienza sarebbe un’autentica follia. Ognuno di noi ha davanti a sé un limite che poniamo noi stessi: il limite siamo noi. Io sono convinto di aver fatto qualcosa entro i miei limiti ma non tutto quello che potevo fare."

Riscriverebbe tutto ciò che ha scritto?

"Naturalmente sì, con una precisazione: che tu lo scrivi perché arrivi ad un certo punto. È come uno che si è incamminato a piedi per andare a Roma e alle porte di Napoli è convinto di essere arrivato. Non è così. Uno si incammina e si ferma ad un certo punto perché bisogna fermarsi e mettere in forma scritta quello che uno crede di poter scrivere. Lo dico anche ai giovani: scrivi perché ti accorgerai dei tuoi limiti, perché ti dovrai misurare con i tuoi limiti per superare il limite provvisorio che comunque c’è. Poi c’è un altro limite che non supererai mai perché è un limite oltre il quale non puoi andare.
Penso che quelli che si occupano di ricerca e di conoscenza abbiano degli spazi più o meno ampi, però ciascuno di noi è limitato, anche il più grande genio ha il suo limite. Quello che però conta è camminare il più possibile dentro il limite, non fermarsi e basta. Non bisogna mai pretendere di superare il proprio limite perché, se si fa questo, ci si prende in giro sé stessi ed anche gli altri."

Che cosa le piacerebbe scrivere in un futuro lontano?

"Libri che siano dedicati alla storia complessiva di parole importanti. Mi piacerebbe scrivere un libro sui nomi dell’uomo nelle varie lingue del mondo. Questa impresa non è stata tentata ed è un paradosso. L’uomo è al centro di tutti i problemi della conoscenza ma sui nomi dell’uomo non ci si è mai adeguatamente concentrati. Da dove vengono i nomi che le migliaia di lingue del mondo danno all’essere umano? Un lavoro del genere è un’altra cosa importante e sarebbe una bella scoperta."

Quali sono le domande più frequenti che i suoi studenti le rivolgono?

"Io dal primo novembre non sarò più professore dell’Orientale, quindi dobbiamo volgere la domanda al passato. Forse quella che mi rivolgevano più frequentemente, più che una domanda era una dichiarazione: «Non ho capito», ed io dicevo «Forse anch’io non ci sono arrivato del tutto a capirmi mentre cercavo di dire qualche cosa».
Quindi nessuna domanda in particolare perché ho l’impressione che chi fa domande abbia spesso un pregiudizio e quindi chiede per avere conferma della sua idea. Il vero problema è: riusciamo veramente a capire quello che uno dice?"

Che cosa sta leggendo in questo periodo?

"Gad Lerner, Scintille. È un libro autobiografico dove una persona di intelligenza straordinaria si mette a confronto con il passato drammatico della Shoah e delle sue origini ucraine, della sua famiglia. Rivive questa dimensione con angoscia ma si mette anche a confronto con la realtà del Vicino Oriente, del Libano in particolare, dove si reca e lo fa con uno spirito gioioso, costruttivo, vitale e noi abbiamo bisogno di questo tipo di libri che dicano con sincerità e con totalità l’esperienza che noi facciamo della vita. Un libro per confrontarsi con sé stessi e che consiglio a tutti di leggere."

E che cosa sta scrivendo?

"In questo periodo sto riflettendo sull’uso che, di parole importanti, diventate poi importantissime, ha fatto Aristotele. Sono impegnato a studiare il valore di parole come semaine, synbolon ed anche altre parole che Aristotele codifica come parti del discorso. In questo momento mi interessa sapere come descriveva la lingua uno che grammatico non era, che però sapeva benissimo che è l’aspetto più importante dell’essere umano.
Con questo lavoro sto cercando, soprattutto, di mostrare anche ai miei colleghi linguisti che Aristotele non è un precursore della linguistica moderna perché non guarda le cose dentro la lingua, non guarda l’organizzazione della lingua ma considera le parole come rappresentanti diretti delle cose. Cosa fa uno quando parla? Porta la realtà a manifestarsi attraverso le parole. Le parole sono manifestazioni della realtà."

Come vede il futuro della Università pubblica in Italia?

"Lo vedo molto travagliato. Per una volta bisognerà fare un esame di coscienza e capire che cosa si può dare agli studenti in certe situazioni e non pretendere di poter dare altro o più di quello che si può dare. L’università italiana non si deve più pensare come quantificazione di sapere, magari con questa formuletta dei crediti formativi universitari che io, come preside, ho applicato – perché i peccati che potevo fare in ambito accademico li ho fatti tutti – ed insieme a me molti altri, quasi tutti. Il problema è un altro: l’università non si interroga affatto sulla sua funzione reale rispetto alla società. Chi formiamo e per cosa formiamo? È stato verificato che nelle facoltà umanistiche lo sbocco dell’insegnamento è ormai molto limitato, stiamo aspettando che vadano tutti in pensione per poter rinfrancare un po’ di quadri e comunque quand’anche li rinfrancassimo sarebbero quadri che, come ben sappiamo, si vanno restringendo.
L’università dovrebbe chiedersi che tipo di persone forma e per quali scopi le forma.
Quello che riqualificherà l’università non è solo il contenuto delle conoscenze ma i linguaggi impiegati per trasmetterli: questi linguaggi, oggi, si apprendono fuori dall’università attraverso l’informatica e Facebook.
L’università è ancora convinta che si entra, si apprende e poi si va a portare il verbo da qualche parte.
Quindi il futuro dell’università sarà travagliato finché non sarà completata una rivoluzione culturale dentro l’università stessa che i docenti della mia generazione non possono fare ma che dovrebbero fare quelli che stanno adesso tra i trenta ed i quaranta anni, perché passati i quaranta non si fa quasi nulla di nuovo."

Un auspicio di Domenico Silvestri per l'Università italiana.

"Il mio auspicio è che l’università italiana sia una università per gli studenti e non per i docenti: lo dico perché ho vissuto un’università che è stata profondamente autoreferenziale a livello dei docenti.
Auspico che sia un’università che si ponga il problema preliminare degli studenti, che li formi nel modo migliore possibile e li educhi ad un atteggiamento molto laico e molto relativo perché le conoscenze non sono mai definitive. Infine spero che li convinca che non bisogna mai smettere d’imparare."

Intervista raccolta da Chiara Pasquinucci - Direttore: Alberto Manco

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