Adriano Rossi: Gli studi linguistici? Ecco cosa ne penso.

 

Adriano Rossi: Gli studi linguistici? Ecco cosa ne penso.

Adriano Rossi

L'ex rettore dell'Orientale dice la sua sullo stato degli studi linguistici in Italia

Professore Rossi, cos'è la linguistica?

"Essere linguisti all’Orientale, veramente, ha un significato molto diverso che in altre università!
La linguistica si è evoluta in tempi abbastanza recenti dalla glottologia, di cui il professor Silvestri, per esempio, proprio all'Orientale è stato titolare praticamente sempre durante la sua carriera. E anche la glottologia, a sua volta, è un'invenzione relativamente recente di studiosi italiani – Pagliaro e Belardi in particolare – che l'hanno introdotta negli anni trenta in sostituzione di quella che era la linguistica comparata delle lingue classiche. Quindi la parola ‘linguistica’ non esisteva nelle università italiane e nella maggior parte di quelle europee fino a poco prima dell'ultima guerra, tanto per dare un'idea. Non è, però, che non si studiassero le linguistiche delle varie lingue; la cosa è molto più complessa di quanto non sembri da un punto di vista etimologico-lessicale.
L'Orientale, naturalmente, era un’università in cui si studiavano le linguistiche delle diverse lingue che sono sempre state insegnate fin dalla sua apertura all'inizio del 1700, quasi trecento anni fa. Originariamente, applicando come tutte le linguistiche d'Europa i parametri della lingua latina a lingue altre, anche molto lontane da quelle d'Europa e dal latino, in particolare, che è stato a lungo la lingua normativa di tutte le descrizioni linguistiche.
L'Orientale è stata la prima università ad aver condotto qui dei cinesi – a Napoli, nel caso particolare, ma comunque in Italia e in Europa – cominciando a porsi per tempo, anzi molto tempo prima di molte altre università, il problema di come descrivere lingue per le quali gli strumenti descrittivi del latino non vanno bene. Gli stessi strumenti che ancora oggi noi usiamo per la grammatica che si insegna nelle scuole – soggetto, predicato, complemento, genitivo, dativo, e così via – sono tutte cose che vengono dalla lingua latina e non hanno affatto applicazione possibile alla lingua cinese, per fare un esempio in particolare, già che ci siamo chiamati a lungo Collegio dei Cinesi proprio perché università specializzata in questo ambito.
Quindi da noi, insomma, essere linguisti, significa per prima cosa avere un'attenzione alle categorie descrittive delle lingue molto lontane da quelle d'Europa. È questo il modo grazie al quale gli studi linguistici, da noi, sono spesso un ponte tra l'Europa e continenti lontani dall'Europa: non solo imparando e insegnando le lingue ma anche studiando le categorie per descrivere e per imparare le lingue che oggi sono oggetto della filosofia del linguaggio, della metalinguistica e di tante discipline moderne che si sono evolute negli ultimi tempi.
E questo è anche il senso per cui, a me personalmente, interessa studiare linguistica ed essere linguista, pur avendo studiato la linguistica applicata al greco al latino e alle lingue classiche naturalmente; perché fino a trenta-quaranta anni fa si diventava linguisti obbligatoriamente così! Non si poteva essere linguisti se non si era studiato prima il latino, il greco, o il sanscrito. Non c'era possibilità di essere definti così, mentre oggi invece esiste un linguista cinese, giapponese, e così via, che può benissimo non aver mai studiato né il greco né il latino in vita sua."

Che cosa consiglierebbe ad un giovanissimo linguista?

"Naturalmente bisogna sapere quali sono gli interessi di questa o di questo giovanissimo linguista. Sta studiando lingue o teorie linguistiche? Per quali fini, e inserendoli in quale prospettiva?
Non so, credo che l’importante sia questo: per quali fini, anche lavorativi ma non necessariamente appiattiti sul discorso del lavoro.
Ad esempio ci sono linguisti che studiano perché hanno interessi di linguistica computazionale, perché fin da bambini, magari, sono vissuti in ambienti di ingegneri – con padri e fratelli maggori ingegneri e così via – ed io stesso ne conosco molti. Questi linguisti hanno un interesse per la descrizione delle lingue radicalmente diverso da una persona che vuole fare l’interprete di traduzioni politiche, ad esempio, o da una persona che vuole studiare la teoria grammaticale del sanscrito e capire come mai la prima cultura antica di cui abbiamo almeno testimonianze scritte – che è quella in lingua sanscrita dell’India antica – ha prodotto una descrizione della lingua che a noi oggi sembra così moderna.
Ecco, sono tutti simili e tutti diversi, persone di questo tipo sembra non avere nulla in comune: uno che fa l’interprete e uno che fa il consulente linguistico nell’ambito di un sistema informatizzato, produzioni di software e cose del genere. Eppure, con la lessicografia, oggi, si vive; per esempio, con i dizionari computerizzati: se ne producono in continuazione ed è un ramo industriale che dà lavoro a parecchie migliaia di persone. Molte meno in Italia perché la lingua italiana rappresenta un ostacolo per questo tipo di cose e molte più in Inghilterra e in America, perché naturalmente l’inglese è – come una delle due lingue di un dizionario – una lingua che agevola la larga diffusione di un prodotto. E poi ci sono tutte le produzioni intermedie, delle varie interfacciature delle diverse culture: da anni sto personalmente compilando e seguendo con gruppi di giovani studiosi un dizionario etimologico di una lingua iranica minore, da noi molto poco nota, il baloshi. La si conosce solo perché si dice che in quelle regioni viva Osama Bin Laden, perché altrimenti non ne avrebbe sentito parlare nessuno. Questo, però, per dire che anche le lingue di interesse culturale relativamente minore sono un problema interessante per chi applica criteri lessicografici moderni alla descrizione di queste lingue e anche alla ricostruzione etimologica del loro lessico di base: c’è sempre una visione culturale che ha qualcosa da insegnare, inglobata in tutte le lingue."

Che spazio ha la linguistica nella sua università?

"La linguistica intesa in tutti i possibili sensi ha sempre avuto molto spazio all’Orientale: l’interfacciamento tra culture europee e non europee passando attraverso la conoscenza della lingua è sempre stato centrale in questa università; la lingua come mezzo di produzione letteraria, anche di alto livello e, in epoche più recenti, come strumento anche diverso da quello delle letterature.
E questo è l’eterno problema degli studenti che studiano una lingua, che sono sempre incerti su qual è la quantità di letteratura che è giusto si associ allo studio della lingua stessa. Ora, parlare di letteratura può sembrare appiattente perché si pensa subito ad un romanzo, ad una poesia, ad un poema e così via; ma nelle lingue a letteratura orale – come quelle africane, quelle dell’India, dell’Indocina, eccetera – ‘letteratura’ significa una gamma grandissima di prodotti che vanno dal teatro, alla poesia orale, alla canzoni, ai poemi, ai proverbi, alle filastrocche, eccetera.
Da questo punto di vista, se mettiamo insieme tutti i nostri esperti – che insegnano discipline completamente diverse da lingue e letteratura X o lingua Y, linguistica generale, lingusitica storica, etnolinguistica, linguistica comparata, linguistica della traduzione, e così via – ne abbiamo tantissimi che insegnano sotto etichette diverse in cui non è immediatamente riconoscibile la competenza linguistica, perché è stata sempre una nostra scelta, appunto, usare la lingua come interfacciamento.
Ma tutto è relativo e, quindi, se considerati in proporzione rispetto alla quantità di culture mondiali che l’Orientale avrebbe voluto studiare e continuare a studiare e a insegnare, gli esperti che abbiamo potrebbero sembrare pochi. E da un altro punto di vista, se veniamo considerati dagli altri atenei cittadini, i nostri colleghi linguisti ci dicono: «Beati voi che ne avete molti!».
Ecco, bisogna come sempre capire qual è il punto di equilibrio di quel momento storico.
Certo, all’Orientale – per scelte errate e anche naturalmente per i grandi tagli che questo e i precedenti governi erroneamente fanno a questo tipo di finanziamenti – sta diminuendo la quantità di esperti linguistici di tutti i tipi, quantità di cui l’università avrebbe bisogno per svolgere appieno il suo ruolo. Mentre quando io ero rettore, quindici anni fa, si insegnavano e studiavano trentotto diverse lingue, oggi purtroppo non è così; ne studiamo e insegnamo una ventina con tutti i relativi esperti linguistici che sono necessari. Ma quella della diminuzione non è una nostra scelta, però così è."

Che spazio trova la lingustica in Italia?

"Questo è oggetto di considerazioni delle società di linguistica – che sono le due grandi società, quella di Glottologia e quella di Linguistica, e poi ce ne sono altre naturalmente specializzate in singoli campi linguistici e aspetti metodologici – che continuamente lamentano la diminuzione di finanziamenti, di fondi, il diminuito spazio.
In realtà, se lo guardiamo rispetto a quando studiavo io, lo spazio oggettivamente per essere onesti è molto aumentato nelle università italiane: basta immaginare che oggi sono professori di ruolo della fascia più alta, cioè ordinari di linguistica generale o glottologia e di quel gruppo lì, oltre cento professori mentre quando studiavo io erano quindici; ma, naturalmente, tra dieci anni saranno assai meno di cento.
Bisognerà capire quale sarà l’entità del grande taglio, che avverrà comunque, indipendentemente dalle scelte governative: il grande taglio di finanziamento all’università pubblica che purtroppo non si riuscirà sempre a contenere, per quanto lo si combatta – anche se poco, in confronto a quanto accade in altri paesi europei.
Bisognerà vedere il taglio relativo che avverrà alle discipline linguistiche generali ed applicate, dei vari tipi: se sarà un taglio medio non ci sarà niente da fare perché nessuno dirà mai che non è giusto tagliare alle linguistiche, in media, quanto si taglia alla storia antica, alla letteratura italiana, alla chimica, alla matematica, eccetera. Se sarà un taglio proporzionalmente maggiore di quello che ci sarà in altre discipline, allora bisognerà assumere difese anche molto forti perché significherebbe che c’è una precisa volontà centrale governativa, ministeriale, eccetera, rispetto alle discipine linguistiche. Siamo in una fase di eccessiva confusione e di ristrutturazione dell’università italiana, ora non è facile fare previsioni."

Che applicazione potrebbe trovare la linguistica e che cosa non si fa per favorirne una migliore conoscenza possibile?

"Per favorirne una migliore conoscenza, la divulgazione scientifica dovrebbe essere fatta in modo completamente diverso. Anche riviste divulgative come Sapere – che per un certo periodo hanno dedicato un minimo spazio agli approcci linguistici di vario tipo – stanno invece ovviamente e gradualmente diminuendo. Sempre per motivi economici, per il frazionamento delle discipline scientifiche e per tanti motivi. Purtroppo mancano riviste di divulgazione scientifica: Le scienze, Sapere, tali riviste sono del tutto isolate e quindi non vedo un allargamento di questo possibile discorso.
In altri paesi europei la divulgazione scientifica avviene meglio che in Italia, per una più antica tradizione. Questo fa sì naturalmente che i docenti delle scuole intermedie, medie, licei superiori, eccetera, abbiano meno strumenti con cui attirare l’interesse di giovanissimi e studenti che, magari – se ci fossero strumenti di divulgazione maggiori – potrebbero essere instradati fin da epoche molto precoci, diciamo così, verso visioni in cui la linguistica potrebbe svolgere un suo ruolo di modernizzazione dell’apparato delle conoscenze. Questo non avviene per tanti motivi, anche economici, ma comunque per un arretramento culturale complessivo italiano. Significa che il primo appoccio dei giovanissimi e le prime descrizioni della propria lingua, nelle scuole di vario livello – a cominciare dalle elementari, scuole medie, eccetera – spesso sono piuttosto inadeguati.
Questo è dovuto anche all’editoria scolastica, ma non è semplice, perché non ci può essere un intervento dello Stato che impone che in ogni manuale ci siano dei capitoli obbligatoriamente scritti da linguisti professionali. Quindi sarà sempre possibile che chi scrive libri per le elementari e le scuole medie faccia degli strafalcioni, come è spesso il caso quando si arriva ad elementi minimali di descrizione di teoria linguistica; e in questo caso non è facile immaginare quale possa essere la modalità di intervento."

Crede che la linguistica debba essere insegnata anche nelle scuole superiori?

"Sono piuttosto scettico sulla possibilità di insegnare una materia che si chiami linguistica. C’è il modello americano e inglese – che ha funzionato molto negli anni Sessanta e Settanta e oggi, invece, meno – che ha scelto di introdurre parametri linguistici rigorosi nella descrizione della lingua inglese; che è la lingua del sistema scolastico, appunto, americano e inglese, anche australiano, canadese, nuovozelandese e così via. Ormai sono oltre quarant’anni che i ragazzi di questa parte del mondo – che non è una parte né piccola né insignificante, quella anglofona – finiscono le scuole superiori e anche medio-superiori, sapendo cos’è un fonema e cos’è un morfema, cos’è un allofono e un allomorfo e così via. Da noi, a volte, hanno difficoltà gli studenti del secondo esame di glottologia o di linguistica generale: una cosa che a tredici anni qualunque ragazzo inglese, americano, eccetera, conosce – come noi tutti sanno cos’è soggetto, predicato e complemento, verso quest’età – qui non si riesce ad inglobarla in elementi minimali. Quindi non direi tanto una materia che si chiama linguistica, quanto un diversa ristrutturazione dell’insegnamento delle lingue moderne, delle lingue classiche e, soprattutto, della lingua italiana. Attraverso le varie modalità con cui la lingua italiana si insegna, ovviamente, che non è solo la materia ‘lingua italiana’ o ‘letteratura italiana’, ma è anche filosofia, storia.
Immaginiamo tutta una serie di concetti storiografici e concetti filosofici in cui la componente linguistica è essenziale e non può essere astratta. D’altra parte non è mica facile che un ministro, chiunque sia, possa imporre la riscrittura di tutti i manuali di filosofia e di tutti i manuali di storia, e così via, con particolare attenzione a questi concetti e alla parte in cui l’approccio linguistico potrebbe dare una criticità fin da prima dell’arrivo all’università. Non avvenendo tutto questo, naturalmente, all’università arrivano persone per le quali non sono note le cose che sono in circolazione in paesi vicino ai nostri.
Sono tornato da poco dalla Germania, da Bonn, dov’ero all’unveirstià per un esame dottorale e parlavamo di cose molto analoghe: oggettivamente nelle scuole tedesche la situazione è più avanzata ma non solo per la linguistica, da tutti i punti di vista. L’Italia sconta il fatto di essere stato un paese in cui – come scrive De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita – fino alla guerra mondiale la popolazione era analfabeta per il 60-65%, mentre la Germania all’epoca lo era per il 15-18%, forse anche meno. Questa cosa nel tempo va avanti di pari passo e, quindi, qualunque materia consideriamo, la situazione nel complesso è insoddisfacente: la resa, i protagonisti dell’insegnamento e dell’apprendimento, i sussidi a disposizione, le strutture. Stiamo parlando di linguistica ma sarebbe sbagliato astrarla dalle altre discipline."

Cosa è cambiato nello studio della linguistica da quando lei ha cominciato a fare ricerca?

"Qui vedrei dei notevoli cambiamenti, oggettivamente. Intanto, è arrivata in Italia l’ondata di interessi teoretici e descrittivi generali che non era facile che arrivasse finchè si era molto legati al latino, al greco, al sanscrito, alle lingue italiche e così via. C’era priprio quella che veniva chiamata la chiusura provinciale; molti storici della linguistica italiana, come Lepschy, De Mauro, l’hanno descritta esattamente in questi termini. Poi è iniziato il periodo che, credo, proprio De Mauro chiamò periodo delle traduzioni in cui fu molto attivo un linguista che purtroppo è morto molto giovane, Giorgio Cardona, che tradusse da solo venti-venticinque delle principali opere in lingua inglese che giravano in America, in Inghilterra e così via – da Lingue in contatto di Weinreich a opere di Chomsky e di linguistica generativa, eccetera.
Ci fu un afflusso, una grande disponibilità di opere che era difficile comprare e trovare nell’originale in lingua inglese negli anni Sessanta, e furono tradotte in italiano, con dei commenti, mentre a poco a poco, naturalmente, la generazione immediatamente successiva andò invece a studiare in Germania, in Inghilterra, in Francia, nei vari posti dove si erano formate delle scuole. Direi che il grande cambiamento è nella quantità di persone che sono andate a studiare, a perfezionarsi e a fare dottorati all’estero, che oggi insegnano e formano persone, e che hanno avuto contatto con moltissime diverse scuole e diverse esperienze.
La linguistica da campo, quella che si chiama field research, qui in in Italia era inesistente. Gli unici erano i dialettologi e i folkloristi che venivano guardati come dilettanti: giravano le campagne per raccogliere proverbi dalle persone anziane, canzoni, ninne nanne, e non arrivavano mai a cattedre universitarie perché questa attività era considerata in modo piuttosto snob.
Questa era l’attività di campo che avevamo noi, oggi invece ci sono centinaia di linguisti italiani – giovani ed anche meno giovani – che hanno imparato a descrivere lingue in Africa, in Asia, in Europa, in Oceania e così via. Effettivamente, la diversità è negli approcci, le esperienze, le metodologie, la facilità di accesso ad opere che era difficilissimo avere qui in Italia.
L’Italia sconta il fatto che il contatto con la lingua inglese è stato faticoso e ancora la generazione dei miei coetanei nel complesso preferisce parlare il francese e non l’inglese, perché nelle scuole l’inglese proprio non si insegnava e questo ha causato un ritardo nella presenza ai congressi internazionali in cui si parla ormai al novanta per cento dei casi in lingua inglese.
Oggi è del tutto normale per i giovani che viaggiano, ma trenta anni fa non era normale per i linguisti italiani essere presenti ed intervenire autorevolmente in convegni internazionali in cui la lingua del convegno era la lingua inglese. Questo ha fatto sì che il ricambio di esperienze, l’interscambio, sia stato meno produttivo e meno frequente per gli studiosi di lingua italiana rispetto a quelli di lingua tedesca o francese che, spinti di più verso l’internazionalizzazione, hanno imparato prima dei loro corrispondenti colleghi italiani a fare interventi in lingua inglese. Oggettivamente, oggi è molto diverso e gli studiosi italiani sono sullo stesso piano degli altri studiosi dei principali paesi europei, e questo è un grande cambiamento che è avvenuto nell’arco del mio insegnamento."

Trova adeguato al quadro internazionale il livello di studio della linguistica in Italia?

"Non so, come al solito si tratterebbe di confrontare sistemi universitari e capire. Non saprei. Nel complesso, tutto sommato, direi di sì; vedo più carenti altri campi disciplinari ma naturalmente non bisogna essere ottimisti perché ci sono tante cose che devono esser fatte.
Per esempio, tra i linguisti italiani c’è sempre stata una grande divergenza di opinioni sul fatto se sia positivo o no che esista un corso di laurea di specializzazione in linguistica. Credo che se interrogassimo cento linguisti cinquanta direbbero che è positivo e che ce ne devono essere più possibile, e cinquanta direbbero che è negativo e che ce ne devono essere meno possibile!
Perché naturalmente formarsi come linguisti è possibilissimo in qualsiasi sistema formativo in cui la linguistica abbia un suo focus specifico e non è detto che si debba chiamare per forza ‘Corso di laurea specialistica in linguistica’ o ‘Dottorato in linguistica’.
Ad esempio, anche nelle formazioni dottorali, noi abbiamo dei dottorati categorizzati per discipline, vari dottorati di linguistica e di linguistiche specialistiche – sia all’Orientale, sia a Napoli e in altre università italiane, spesso con federazioni tra università – mentre in America, invece, non esiste un dottorato di linguistica in quanto tale. Esistono dottori che fanno il dottorato di linguistica in dipartimenti di antropologia, di antichità classiche, di studi dell’Asia, di religioni dell’India, e così via. In quel momento si crea un team di studiosi, anche di università diverse, tre persone che seguono lo studente che fa il suo dottorato in linguistica; ma non per questo esiste un dottorato stabile che si chiami Dottorato in Linguistica. Ci sono vantaggi e svantaggi nei due sistemi, e la stessa cosa può valere anche per i corsi di laurea, ma dipende sempre da quale quadro di riferimento adottiamo."

Rispetto al contesto internazionale, in quale ambito lo studio della linguistica è particolarmente vivace?

"Credo dipenda molto dalle mode del momento. Per esempio negli anni Settanta e Ottanta è stato particolarmente vivace – vivacissimo, fin troppo vivace! – il ramo dei gender studies, in cui l’Italia come sempre è arrivata ultima; adesso sono passati praticamente di moda, negli Stati Uniti e in Inghilterra, da cui sono partiti. In quegli anni lì, se guardiamo, nelle nostre biblioteche, nei cataloghi librari, si producevano un’infintà di studi – nell’ordine di centinaia, di migliaia di studi – sul tema se il modo di parlare delle donne fosse diverso dal modo di parlare degli uomini, da tutti i punti di vista considerati: quello psicologico, linguistico, psicolinguistico, storico, etimologico, pragmatico, intonazionale, segmentale, e così via; oggi questa moda è molto diminuita. Ma ho fatto solo un esempio.
L’etnolinguistica, invece, ha avuto un momento molto vivace da noi, anche lì tra gli anni Settanta e Ottanta. Nella nostra università l’insegnamento è stato aperto quando è arrivato il professor Gnerre intorno al 1995, il che non toglie che io personalmente dirigessi una ricerca nazionale che si chiamava Etnolinguistica dell’area iranica fin dal 1983, mi pare, e che è stata la prima ricerca italiana in assoluto che abbia avuto questo titolo. Quindi, voglio dire, si può studiare anche l’etnolinguistica di una qualche area X senza avere l’insegnamento di etnolinguistica nel proprio ateneo o, viceversa, si può avere l’insegnamento di etnolinguistica attivato nel proprio ateneo e non produrre delle ricerche originali sul campo secondo quelli che sono gli interessi delle persone che ci sono. Io sono sempre un po’ contrario ad analisi basate su automatismi, schematismi, nominalismi, bisogna vedere caso per caso, periodo per periodo, quali sono gli interessi, le mode, le persone disponibili, eccetera.
Infine, per tornare alla domanda rispetto a quale contesto appare più vivace, bisognerebbe entrare nello specifico, enumerandoli uno ad uno, perché non sarebbe equo menzionarne uno e non un altro. In ogni caso, dipende sempre molto dai casi, dalle specializzazioni. Ad esempio, un docente dell’Orientale, il professor Bausi, è andato dall’Orientale all’Università di Amburgo – un’università con cui abbiamo un legame, un corso di laurea specialistica internazionalizzata di studi di lingue dell’Asia e dell’Africa – perché solo lì c’è una fortissima specializzazione per l’etiopico, che è la sua disciplina, e i fondi che il governo federale e la città di Ambrugo (che ha sua una autonomia finanziaria) mettono a disposizione dell’università per questi studi.
L’Orientale ha una tradizione antichissima in fatto di di studi etiopici, fin dalla fine dell’Ottocento, ed è tuttora il principale centro di studi, ma è in diminuzione, perché purtroppo i professori vanno via verso i luoghi dove hanno più mezzi a disposizione. I colleghi di Amburgo – oltre a dargli uno stipendio doppio del nostro, ovviamente – gli hanno dato la direzione dell’Enciclopedia Etiopica che sta uscendo ora e la possibilità di assumere otto giovani assistenti. È chiaro che a queste condizioni, un italiano, uno dei più grandi specialisti d’Europa che avevamo all’Orientale, sia pure molto a malincuore, come posso testimoniare, va in un altro posto. Però naturalmente non è che gli studi etiopici sono così in tutto il resto del mondo, solo ad Amburgo per circostanze particolari, politiche ed economiche.
Per questo parlo di specializzazione, perché per ogni altra materia troveremmo un centro dove le cose funzionano molto bene e altri centri dove le cose non funzionano tanto bene.
C’è una migrazione culturale che alcuni vedono come negativa, perché impoverisce il paese, la regione, la città e l’università di risorse, e altri vedono come positiva perché arricchisce, in questo caso specifico un’altra università, tedesca, con cui abbiamo una convenzione.
Ci saranno sempre modi diversi di valutare questa migrazione, perché quello che è impoverimento da una parte è arricchimento di un’altra parte. Se l’Europa dovesse andare veramente avanti nell’unificazione politica, culturale e così via, sarebbe una migrazione da un punto all’altro come le nostre migrazioni dal Sud al Nord e viceversa. Da una parte possono risultare negative, ma d’altra parte non sono cose da scoraggiarsi altrimenti tutti stanno sempre fermi allo stesso punto, nello stesso luogo, e si produce quello che si chiama provincialismo.
Io sono fortissimamente contrario, ad esempio, alla prolificazione delle università: l’Italia in questo momento ha oltre quattrocento comuni che sono sedi o di università o di pezzi di corsi universitari, di pezzi di Facoltà, ed è una follia. Finchè ho potuto e quando ho potuto, ho sempre criticato questa situazione: è un frazionamento delle disponibilità che non va bene. Ma se vogliamo osservarlo dal punto di vista degli studi linguistici di cui stiamo parlando, di linguistica generale, questo aumenta la possibilità dei giovani che si specializzano in lingustica di trovare un posto di lavoro nell’unveirstià per insegnare e fare ricerca. È vero, aumenta le loro possibilità, ma è giusto per il paese? Secondo me è totalmente sbagliato e sono assolutamente contrario.
Talvolta la stessa cosa può essere vista positivamente o negativamente, a seconda della fase di vita che si sta attraversando, del luogo in cui si vive, del parametro con si sta giudicando; bisogna sempre tenerne conto."

Quale università in Italia brilla particolarmente per gli studi in campo linguistico?

"L’Orientale non la metterei tra quelle che non brillano! Abbiamo i nostri problemi, le scelte sbagliate, altre cose… ma per gli studi di linguistica generale e di studi linguistici in senso molto ampio, come detto finora, l’Orientale è tra le prime università, secondo me. Ed è importante che ne siano consapevoli coloro che sono all’Orientale e chi si interessa di queste cose.
Ma ci sono tradizioni validissimi in tante università italiane. Io, per esempio, ho studiato a Roma all’univiersità La Sapienza e nelle varie università in cui si è articolata La Sapienza oggi c’è una buona tradizione, a Milano c’è un’ottima tradizione, a Padova un’altra ottima tradizione, ciascuna di queste, però, specializzata in diversi ambiti. L’Università della Calabria è un’altra che non esisteva nemmeno trentacinque anni fa e ha raggiunto un ottimo livello; una prova del fatto che anche partendo da zero si può mettere in piedi in pochi anni un ottimo centro per la linguistica generale e per le discipline afferenti.
Tuttavia, ci sono altre università che si sono impoverite senza loro colpa, semplicemente perché sono stati sottratti finanziamenti per aprire delle altre università: per esempio Pisa, che è sempre stata sempre un’ottima sede per gli studi linguistici e si trova, come altri, con un depauperamento. Man mano che vanno in pensione i colleghi non ci sono più finanziamenti per assumere altri colleghi che invece ci sarebbero, e di ottimo livello. La Normale di Pisa è sempre stata un ottimo punto di formazione in tutti i tipi possibili e immaginabili di linguistica, eppure anche lì hanno gravi problemi.

Può dirci il nome di un linguista italiano per cui ha avuto o ha particolare considerazione?

Questa è una a cosa a cui ci si dovrebbe sottrarre, è come il gioco del cerino! Tra le persone che ammiro molto c’è Tullio De Mauro, che tra l’altro frequento e a cui sono legato anche sul piano umano. Penso che per tanti diversi motivi abbia aperto delle strade e degli approcci molto interessanti, anche dal punto di vista dell’organizzazione degli studi linguistici in Italia ha avuto un notevole ruolo. Certamente come linguista è stato infinitamente più produttivo che come ministro, lo è stato per molto poco tempo e non so se non ha fatto in tempo o proprio se non ha potuto imprimere alle cose dell’università la stessa vivacità che ha impresso alla linguistica in Italia.
Ma naturalmente non è l’unico, perché ci sono tantissimi altri colleghi che ammiro non meno di De Mauro; solo che non posso fare un elenco perché, fatalmente, finirei col dimenticarne qualcuno."

Quali delle cose che ha scritto la rende particolarmente orgoglioso?

"Nessuna in particolare, non credo che uno studioso possa essere valutato da una singola cosa. In qualsiasi cosa si scrive non si può mai inserire tutto l’insieme delle cose che si è ricercati o su cui si possono dare suggerimenti. I suggerimenti agli altri, ai più giovani, di altre generazioni, vanno dati in una diversa serie di cose che vengono presentate a diversi pubblici in diversi momenti, anche in diversi momenti della propria vita. Quello che si diceva da giovani non è uguale a ciò che si dice quando gli anni di esperienza sono parecchi decenni. Sarebbe curioso mettere a confronto queste produzioni, in musica si fa spesso e si usa l’aggettivo “giovane” per parlare delle prime composizioni di un musicista; ma se si mettono a confronto le composizioni del giovane Mozart, del giovane Schubert con quelle di questi grandi musicisti maturi, si dovrebbe dire che il “giovane” Mozart, Schubert o Beethoven non valeva nulla, ma non ha senso! È proprio sbagliato mettere a confronto questo tipo di cose. Ognuno dà agli altri un insieme di cose che si evolvono nel corso della carriera ed è attraverso questo insieme di cose che va giudicato."

Quali sono le domande più frequenti che i suoi studenti le rivolgono?

"Non credo che ce ne siano alcune di particolare frequenza. Certo, un problema che mi sembra importante – per i motivi di cui ho parlato prima, di difficile inserimento di elementi minimi di conoscenze di linguistica generale nell’insegnamento scolare molto precoce, elementari e medie inferiori – ed è una concezione particolarmente errata che si portano appresso gli studenti, e quindi gli esseri umani, nel corso della loro vita è il rapporto scrittura-lingua.
Qui la difficoltà si vede proprio . Gli stessi docenti, anche linguisti di valore, talvolta si distraggono e dicono “questa lettera si pronuncia così”, oppure “questo suono si scrive così”; cose che non hanno senso dal punto di vista della teoria linguistica ma che fatalmente siamo portati a dire. Dopodichè, quando si fa lezione di cinese, la stessa cosa non ha senso nemmeno volendo perché non c’è una lettera corrispondente ad A, B, C, dell’alfabeto latino che noi siamo abituati a considerare come eterno, astorico, come l’elemento d’analisi della lingua in quanto tale.
Quindi, certamente, potrei rispondere che le domande più frequenti sono riguardo tutto quanto connesso alle inconmprensioni del rapporto lingua-scrittura – continuamente vedo che gli studenti a tutti, chiedono a me e anche ad altri – e le risposte sono sempre insoddisfacenti perché non è che nel giro di cinque minuti, dieci minuti, di una lezione o due lezioni, si può risolvere quanto non è stato affrontato per anni."

Come vede il futuro dell’università in Italia?

"Sono molto pessimista perché questo governo ha avuto un comportamento incosciente, al limite quasi della criminalità, verso le generazioni future tagliando ciecamente risorse e producendo danni che si vedranno tra decenni, anche, oltre che immediatamente.
Futuri governi, però, quali che essi siano, non faranno cose radicalmente diverse secondo me. Si vede che in tutta Europa – in Francia, in Germania, ne parlavo con colleghi, è così – i gravi problemi economici producono un forte attacco ai finanziamenti alla cultura e quindi le università vanno verso un depauperamento.
L’Italia sarà di fronte ad un bivio, far pagare – come la maggior parte dei paesi europei e non – i costi delle università agli studenti che si iscrivono e quindi aumentare la selezione sociale perché solo chi ha soldi può studiare, oppure no. Noi siamo già arrivati da anni a questo bivio e io stesso l’ho posto, come rettore dell’Orientale ho proposto tre volte aumenti delle tasse; non ho problemi, in questo senso. I rappresentanti degli studenti però hanno sempre votato contro e io ho spiegato – in privato, in pubblico, in documenti, in conferenze – in che senso era un errore.
Bisogna che gli studenti capiscano che quello che pagano con i contributi – che si chiama erroneamente tassa – copre circa un sedicesimo del costo totale della loro formazione. La domanda è: chi copre gli altri quindici sedicesimi? I cittadini italiani con le loro tasse, anche coloro i cui figli non andranno mai all’università. Allora è più giusto questo o è più giusto che aumenti moderatamente il contributo finanziario di chi invece se lo può permettere?
Se l’Italia non pone onestamente questo interrogativo all’intero paese – non solo all’interno di un consiglio di amministrazione, come abbiamo fatto noi – e se non dà una risposta equilibrata, intermedia e seria, finirà molto male. Si fingerà che le tasse universitarie rimangano a livelli bassi, e che i governi siano generosi, ma i finanziamenti che arriveranno all’università saranno tali che non si potrà fare più assolutamente niente. E quindi, naturalmente, ci sarà lo stesso la selezione sociale perché i figli delle persone agiate già ora vengono mandati – neanche più alla Cattolica di Milano come trenta anni fa – ad Harvard, a Cambridge e così via.
Se il paese non avrà il coraggio di discutere seriamente questi temi, la situazione sarà difficile: è un problema sociale non tanto di formazione universitaria, di quanto è giusto destinare a questa parte dell’assistenza sociale, diciamo così; come un sistema di borse di studio serio.
Da noi non solo sono poche ma sono inesistenti! Quelle americane sono dieci volte superiori eppure non si può dire che l’America sia un sistema così egalitario. Rispetto a questo punto, però – quello di aiutare i meritevoli, come dice la Costituzione Italiana – in altri paesi, compresi la Francia, la Germania, l’America, l’Inghilterra, eccetera, gli aiuti e le borse per i giovani sono reali.
L’Italia invece, ipocritamente, preferisce dare delle borse insignificanti e non porsi il problema; quindi la vedo male perché so che l’Italia non ha il coraggio di fare questo tipo di scelte e penso che avverranno, via via, nei prossimi anni, le cose negative che si stanno prefigurando."

Che cosa sta leggendo e che cosa sta scrivendo in questo periodo.

"In questo momento sto scrivendo un intervento per un congresso internazionale di studi achemenidi, di antica Persia, in particolare della capitale Persepolis e sto rileggendo tutto quello che c’è, di recente, riguardo questo. Purtroppo ho sospeso tutte le mie letture abituali da una quindicina di giorni – tra viaggi, interventi e cose simili – perché, oltre i libri di stretto interesse dell’argomento che devo trattare in quel periodo, non faccio in tempo a leggere altro."

Riscriverebbe tutto ciò che ha scritto?

"Ah, sì! Riscriverei tutto quello che ho scritto. Sono sempre molto convinto delle cose che ho fatto: rifarei tutto quello che ho fatto, rivivrei tutto quello che ho vissuto, non ho problemi, sono tranquillo; proprio il concetto di pentimento non mi sfiora, ho una visione piuttosto laica delle cose."

Che cosa le piacerebbe scrivere in un futuro lontano?

"Un libro come quello di De Mauro sulle aree di cui mi interesso, come lui ha scritto la Storia linguistica dell’Italia unita. Cercai di convincere un giovane linguista di area giapponese che avevamo all’Orientale e che ora è andato a Venezia – il professor Calvetti – di scrivere la storia linguistica del Giappone e, in parte, l’ha fatto ma è un cosa molto, molto complessa.
E io, che mi interesso di Iran, vorrei poter fare una cosa simile ma non sono affatto convinto che riuscirò a farlo per tanti diversi motivi, ivi incluso il fatto che l’Iran è un paese che non sempre apre i propri e questo tipo di studi vanno fatti sugli archivi come dimostra il lavoro di De Mauro."

Un auspicio del professor Rossi per l’università italiana.

"Che abbia il coraggio di discutere seriamente i propri problemi. In questo momento non sono discussi seriamente in molte università; ce ne sono anche di serie, ma in molte università si ragiona per slogan, si ragiona populisticamente ed è un errore. Sono sempre stato per una visione rigorosa delle cose, perciò direi: ragionare chiaramente e avere il coraggio di dire chiaramente quali sono i problemi e di trovare una soluzione che non sarà mai unanime ma sarà una soluzione condivisa, che avrà una maggioranza e una minoranza, cercando di fare il minor danno possibile agli altri, a coloro che non sono d’accordo."

Intervista raccolta da Azzurra Mancini

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