Alessandro Triulzi sulle politiche ambientali: "deciderle o subirle"
Alessandro Triulzi sulle politiche ambientali: "deciderle o subirle"
"Anche quelle etiche sono questioni ambientali da comunicare"
Professore Triulzi, Lei è ospite delle Giornate di studio che si svolgono dal 24 al 26 marzo all'Orientale nella sede di Procida. Le Giornate sono dedicate a “Comunicazione e Ambiente”. Su che cosa verte il suo intervento?
"Il mio intervento verterà sulla comunicazione del diverso dal momento che come professore di africanistica mi occupo da sempre dell'indagine sull'altro e il diverso da noi. Parlerò delle memorie dei migranti che ormai costituiscono una realtà evidente nel nostro "ambiente Italia", un discorso che a mio avviso si inserisce bene in queste giornate di studio dedicate a comunicazione e ambiente. Infatti cosa più dell'uomo e del suo patrimonio culturale fa parte dell'ambiente? Noi professori dell'Orientale siamo abituati a occuparci di tutto ciò che è diverso, che è sconosciuto, di nicchia: a Procida intendo parlare della difficoltà di comunicare questa diversità, e anche dell'esigenza che deve esserci da parte di una cultura ormai matura come la nostra di comunicare con le culture diverse con cui i flussi migratori ci mettono in contatto."
Come considera il rapporto tra la quantità e la qualità delle informazioni che circolano su comunicazione e ambiente? Esiste una seria comunicazione ambientale di destra o di sinistra?
"La questione fondamentalmente è questa: esiste un gap tra chi decide le politiche ambientali e chi le subisce. Le politiche ambientali riguardano le masse nel senso che le scelte fatte in materia di ambiente colpiscono nel bene e nel male soprattutto le grandi masse, e cioè i più poveri. Mentre chi "fa" comunicazione ambientale e "orienta" in qualche modo tali politiche sono i ricchi che hanno, per ovvi motivi, maggiore accesso ai mezzi di comunicazione. Come far parlare il contadino boliviano? Come comunicare le sue istanze ambientali? Nell'epoca di internet, twitter, facebook colmare questo gap è possibile e doveroso: grazie a tali strumenti si può e si deve far divenire "di massa" le grandi questioni etiche e ambientali."
Parlare di Africa e di ambiente significa affrontare lo spinoso problema di come noi, già dissipatori di risorse e principali responsabili dell’attuale stato del pianeta, possiamo insegnare a chi ora si avvia allo sviluppo a seguire una strada più ecosostenibile. Lei ritiene sia possibile?
"Spinosa questione. Come convincere chi ora si avvia al progresso a non commettere i nostri stessi errori? Ma il punto è questo: dobbiamo convincere innanzitutto noi stessi a non perseverare in tali errori, dobbiamo ancora portare a termine nel nostro occidente il processo di metabolizzazione di uno sviluppo ecosostenibile. Solo se inizieremo ad esportare un modello di progresso non più basato sul consumo esasperato potremo sperare di essere convincenti nelle sacrosante crociate ambientaliste."
Per tornare più da vicino all’oggetto del suo intervento, le interviste televisive effettuate recentemente ai migranti provenienti dall’Africa settentrionale chiariscono che essi non hanno il nostro paese come destinazione finale. Ma il video con cui a settembre lei e il suo staff avete presentato l’Archivio delle Memorie Migranti aveva già evidenziato questa tendenza...
Il problema è questo: dei migranti che stanno arrivando negli ultimi giorni in Italia molti hanno parenti - fratelli, cugini, fidanzate - in altri paesi europei e chiedono, implorano, ovviamente, di raggiungere i loro cari. Con i numeri che ci sono ad oggi tali legittime richieste - legittime sia dal punto di vista umano che da quello del diritto più spicciolo - saranno evase in tempi lunghissimi. In un contesto di globalizzazione la richiesta che fanno i migranti, di più facile mobilità sul territorio europeo, va senz'altro sostenuta dal nostro paese anche perché non possiamo farci carico, noi da soli, di cifre così esorbitanti. Si stanno mettendo in moto tutta una serie di meccanismi che bloccano le volontà dei migranti e che mettono in pericolo un giusto processo di integrazione: con un flusso di migranti così elevato l'integrazione è difficile oltre che complicata dal "costringimento" nel nostro territorio di chi mira ad andare altrove. Ribadisco: in un sistema globalizzato non si può non pensare a una mobilità del migrante almeno su territorio europeo, magari con le opportune regole, ma queste regole devono essere condivise e tenere conto della situazione attuale."
Di fronte al flusso di immigrati si parla di necessità d’integrazione. Ma il processo di integrazione prevede due attori, l’indigeno e il migrante, che abbiano un’uguale propensione alla comunicazione della propria cultura e alla comprensione dell’altra. Si insiste spesso sui “nostri” limiti, ma dal suo punto di osservazione cosa può dirci dell’atteggiamento dei migranti?
"È sicuramente vero che se c'è un fallimento, o una difficoltà, del processo d'integrazione gli errori stanno da entrambe le parti. Ma è altrettanto vero che il processo d'integrazione tra A e B può iniziare solo se A e B stanno sullo stesso piano, se hanno uguali diritti, uguali possibilità di agire tale processo integrativo. Se, invece, un retaggio ex-coloniale ci fa porre in una situazione di superiorità rispetto ad un ex-colono a noi subordinato, se noi siamo i civilizzatori e "loro" quelli civilizzati, se scelte politiche opinabili non ci pongono sullo stesso piano, allora come possiamo pretendere dai migranti anche lo sforzo verso di noi? Lo sforzo più grande verso l'integrazione dobbiamo farlo noi, ma è un lavoro che bisogna fare insieme: bisogna lavorare con questi gruppi di migranti e forse l'Orientale è storicamente l'istituzione più adatta a farlo in quanto conosce tali popoli, la loro evoluzione storica e quindi può aiutarli a condividere la loro cultura e ad avvicinarsi alla nostra."
Per avvicinarci all'attualità politica: la "crisi libica" è stata preceduta dalle rivolte in Egitto e in Tunisia, come mai l'Occidente ha deciso d'intervenire solo ora?
"Ce lo chiediamo tutti. Come mai? Si è trattato di decisioni prese autonomamente da capi di governo senza consultare i parlamenti nazionali, senza grande consultazioni né interne né esterne. Ovviamente è chiaro che alle potenze occidentali, alla Francia e alla Gran Bretagna, non stanno a cuore i problemi della povera popolazione libica, o almeno in passato non se ne sono date un gran peso. È chiaro che a scrivere le regole del gioco sono gli interessi economici, anche l'Italia nel suo interventismo è mossa dalla paura di perdere qualcosa e dalla difesa dei suoi interessi economici nel paese. Io ritengo che bisogna ripensare a questo intervento e lasciare che le spinte democratiche di un popolo maturino autonomamente. Non sono più i tempi delle cannoniere in cui uno stato imponeva le sue regole ad un altro, un tale atteggiamento oggi come oggi è superato."
E come definire l'atteggiamento della Cina se non un po' ambiguo? Approva le risoluzioni ONU e poi invece biasima gli interventi militari degli Stati Uniti. Alla fine sembra che voglia mettere piede anche in Nord Africa dopo aver praticamente sostituito l'Occidente negli investimenti nell'Africa subsahariana.
"Il problema Cina è sempre lo stesso: si tratta di un investitore - un potentissimo investitore - che non si fa scrupoli umanitari. La Cina ha ribadito più volte di non voler intervenire nelle questioni di politica interna dei paesi con cui ha rapporti commerciali. Eppure noi questo alla Cina non possiamo più permetterlo, bisogna che si faccia in modo che se la Cina vuole discutere da pari a pari con le potenze occidentali, questi scrupoli cominci a farseli, dobbiamo costringere anche questo paese a porsi questioni etiche e umanitarie. Anche questa è comunicazione ambientale."
Concetta Carotenuto
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