Ascanio Celestini. Io cammino in fila indiana

 

Ascanio Celestini. Io cammino in fila indiana

Ascanio Celestini

Intervistiamo l’artista di scena alla Galleria Toledo gli scorsi 11 e 12 dicembre con lo spettacolo Il razzismo è una brutta storia

L’attore romano, voluto dall’Arci (l’associazione che, in collaborazione con Feltrinelli, ha organizzato e sostiene la campagna di sensibilizzazione da oltre un anno), narra una serie di racconti messi in fila uno dietro l’altro. Storie, personaggi ai bordi della paura e della violenza, tra responsabilità ed indifferenza.
Lei dice che il razzista è una persona complessa, con una sua cultura – anche se appunto sottolinea deteriorata – ma comunque da conoscere per riconoscerla. È un po’ come quella frase di Umberto Eco che diceva di combattere il mostro dall’interno in modo tale da conoscerlo e riconoscersi razzisti.

“Rispetto alla questione della complessità, io credo che il razzista non è soltanto razzista. Nel senso che il razzista non odia l’africano in quanto nero, insomma; lo odia perché è povero, odia il nero povero. Non l’africano ricco, non il Presidente degli Stati Uniti. C’è, in realtà, nell’odio razziale il conflitto di classe. In più, io credo che in qualche maniera non ci sia la persona che è razzista e la persona che non lo è. È piuttosto qualcosa che appartiene un po’ a tutti. È come se la nostra vita fosse piacevole quando è invisibile, quando nessuno entra nel nostro privato, o nella mia automobile quando sto fermo al semaforo rosso. Sto bene al supermercato perché tutto sommato prendo i prodotti, li metto nel carrello e non interagisco, non ho relazioni con nessuno. Mentre, invece, l’immigrato – per forza di cose – cerca d’avere relazioni con me, per sopravvivere. E questo a me da fastidio. Poi, nel momento in cui mi trovo davanti a lui capisco che sono razzista anch’io, prendo coscienza di questo conflitto che io stesso vivo. Molti altri invece no, lo vedono semplicemente come un’intrusione.”

Ascanio Celestini, benvenuto nel Paese di Monnezza pieno di Monnezza. Una fogna a cielo aperto ma quel cielo è sempre notte. Parlava così nel gennaio del 2008, in un intervento alla trasmissione di Rai3 Parla con me in merito all’emergenza rifiuti. A distanza di quasi tre anni, cosa pensa sia cambiato?

“È che c’è tutta una politica fondata sull’emergenza, sul disastro. Ti racconto questa. Noi siamo stati a L’Aquila un paio di giorni fa, per lo spettacolo, ed io faccio un’intervista. E questa persona mi dice: «Qui viene presentato tutto come provvisorio. Le case sono provvisorie, come tutto il resto ma, in realtà, non è provvisorio per niente! Non può essere provvisoria una casa che costa 2,700 euro al metro quadrato per costruirla». Per cui, è come se ci fosse una provvisorietà infinita, che non finisce mai e che, paradossalmente, diventa a suo modo stabile. L’emergenza in quanto tale è qualcosa che dovrebbe durare poco, perché poi si interviene velocemente e l’emergenza finisce. E invece, quando l’emergenza comincia a durare due, dieci, venti e cinquant’anni, la cultura stessa dell’instabilità diventa stabile e nell’emergenza – come dico in questa storiella/canzoncina – non distingui più il giorno dalla notte. Non distingui il buono dal cattivo, chi interviene davvero da chi non interviene. Un po’ perché, se vuoi, nell’emergenza non c’è più la disciplina democratica. C’è il commissario che viene, ha i suoi superpoteri; però, quando comincia ad averli per dieci anni di seguito e più diventa una dittatura vera e propria. E un po’ perché nel caos dell’emergenza stessa non capisci più neanche qual è il tuo di ruolo.”

In alcune recensioni raccolte nella rassegna stampa allegata al suo sito si legge che, prima di diventare un film, La pecora nera è stato uno spettacolo teatrale, un monologo messo in scena nel 2005. All’interno di questo stesso spettacolo era anche contenuto un altro progetto, ovvero il laboratorio Storie da legare. Quindi, le rappresentazioni teatrali nascono da suoi lavori precedenti?

“Diciamo che io dal 2002 al 2005 ho fatto interviste in manicomi ed ex-manicomi in giro per l’Italia. Perché dico manicomi ed ex-manicomi? La legge 180 del 1978 (la cosiddetta legge Basaglia, dal nome d’uno psichiatra e non da quello che l’ha scritta!) non è una legge che chiude i manicomi; è una legge che riconsegna agli individui internati nei manicomi un diritto di cittadinanza. Precedentemente a ciò, queste persone erano considerate non più responsabili delle proprie azioni; ne era responsabile l’istituzione manicomio, per cui – di fatto – non erano più cittadini. Ecco, vivevano in trattamento sanitario obbligatorio. Col 1978, e con la legge 180, queste persone tornano ad essere dei cittadini e piano piano vengono portati fuori dai manicomi. Praticamente, l’unico manicomio è stato chiuso qualche settimana fa. L’ultimo manicomio pubblico, intendo, civile. Ne esistono ancora di privati, cliniche, OPG (ospedali psichiatrici giudiziari, quelli che prima si chiamavano manicomi criminali), SPDC (servizio psichiatrico diagnosi e cura) dove poi vieni portato in TSO (trattamento sanitario obbligatorio). Detto questo, io comincio nel 2002 a fare interviste con psichiatri, infermieri che avevano lavorato nei manicomi. E queste interviste le faccio all’interno di laboratori dove c’erano degli allievi (persone che seguivano, tra gli altri, il laboratorio Storie da legare) che ascoltavano con me le storie su cui poi lavoravamo insieme. Dopo tre anni, da tutti questi racconti e dall’esperienza di questo lavoro di ricerca sul campo, ne ho tratto uno spettacolo che è poi diventato un libro e che nel 2008 si è poi trasformato in una sceneggiatura.”

E quindi, spettacoli teatrali che diventano libri, poi lungometraggi. Documentati come Parole Sante che diventano cd-rom. Collaborazioni in tv, radio e giornali. Cosa accomuna tutto questo?

“Sì, per me non c’è tanta differenza. Alla base c’è sempre un lavoro di ricerca sul campo. Parole Sante, per esempio, nasce invece da un lavoro di ricerca sui call center. Un progetto durato circa due anni e a cui è poi seguito Lotta di classe, un romanzo che in un certo senso chiude un’ampia riflessione sul precariato in Italia.”

Ecco, lei in Lotta di classe dice: “La consapevolezza che tu appartenga o non appartenga ad una classe sociale, il problema è sociale prima ancora che economico, politico o ideologico.” Si tratta di quattro storie che respirano solitudine, isolamento e responsabilità alla violenza (vedi il personaggio del bambino, unica figura “positiva” quando consapevole, appunto). Poi, arriva a questa storia dello scrittore con la penna in mano e la pistola in tasca. C’è la spiega?

“Devo dire che ritengo molto interessante il linguaggio violento. Nel senso, c’è una violenza nel linguaggio che si basa soprattutto sul pregiudizio. Il presidente del Consiglio che dice «meglio avere la passione per le belle donne che essere gay» perché utilizza un linguaggio violento? Perché in realtà si basa su due pregiudizi: la donna che diventa strumento di piacere e l’inadeguatezza dell’ essere omosessuale. Piuttosto che quella frase meravigliosa del cardinal Bagnasco quando disse «Adesso apriamo ai matrimoni omosessuali, ed è possibile che si finisca alla pedofilia consenziente». Anche qui, perché è violenta questa frase, apparentemente quasi inoffensiva? Ė violenta perché alla base soggiace il pregiudizio secondo cui l’omosessuale sia pedofilo. Un po’ come avvicinare un cerino alla benzina, poi non sei tu che gli dai fuoco. Però stanno talmente vicini che la benzina prende fuoco, comunque. Allora, questo linguaggio in tal modo violento, se utilizzato dal politico o dal giornalista diventa strumento di violenza; mentre nelle mani di chi utilizza il linguaggio in maniera letteraria, ebbene lì diventa molto più interessante!
C’era una partigiana, si chiamava Marisa Musu, che mi raccontò: «La prima volta che mi spararono addosso, non me ne ero accorta che mi stavano sparando». Perché sentiva fischiare le pallottole, ma lei non sapeva che quello è il rumore delle pallottole che fischiano. Voglio dire, se noi non conosciamo la violenza che è in un certo linguaggio, non potremo mai riconoscerla. E la possiamo riconoscere attraverso la mediazione letteraria, piuttosto che attraverso la stampa o la politica. Per questo dico [lo scrittore] scrive con la penna in mano e la pistola in tasca. C’è della violenza nel suo linguaggio ed è bene che si esprima per mezzo della letteratura, però, visto che ha la penna in mano lui sì che può avere la pistola in tasca. Il politico no, perché se c’ha la pistola in tasca prima o poi la tira fuori e spara.”

Si fa caso, leggendo svariate recensioni, a sempre più comuni riferimenti a Pasolini; o, almeno, critici che le riconoscono una buona dose di quella che è per esteso intesa come lezione pasoliniana. Uno tra tutti, Curzio Maltese su La Repubblica, in merito a Lotta di classe, dice: “Tanti anni fa Pasolini annunciò una mutazione antropologica che stava per abbattersi sul Paese, a cominciare dalle periferie della capitale. Celestini ci racconta com’è avvenuta”. E tra l’altro, il suo primo spettacolo si intitolava proprio Cicoria. In fondo al mondo, Pasolini (1998). Ora, lei che è considerato oramai uno dei rappresentanti più eloquenti del cosiddetto “teatro di narrazione”, che ci racconta?

“È vero che questo spettacolo, Cicoria, era in qualche maniera legato a Pasolini ed in particolare ad un diario di lavorazione scritto nel periodo in cui stava facendo Accattone. Più che altro, c’erano – in questo spettacolo fatto con Gaetano Ventriglia – delle ossessioni pasoliniane: il tema della passione, intesa come sofferenza, il tema del viaggio come iniziazione alla morte. Per il resto, la cosa che a me colpisce ancora molto del lavoro di Pier Paolo Pasolini è soprattutto questo voler stare a contatto, dentro le storie. È una prospettiva antropologica, quella per cui io non so se non vado a vedere. È un dover vivere, anche nelle contraddizioni insomma. Racconta la borgata perché vive in borgata, racconta l’Africa perché va in Africa, Pasolini scrive dentro la sua esperienza. Questo per me resta estremamente interessante, rispetto ad un’idea di una letteratura che appare distaccata, che vede lo scrittore scrivere nella sua stanza, come isolato.”

Anche Pasolini, d’altra parte, ha usato vari mezzi di comunicazione per altro nessuno adempiendo in pieno a quelli che sono i loro pre-stabiliti codici metodologici, quelli propriamente detti, nel cinema come nel giornalismo. Ha utilizzato vari registri senza mai conformarsi.

“Perché in realtà credo che ci sia un linguaggio che prescinda anche dal mezzo che viene utilizzato. Io dico spesso che l’opera è un po’ come una testa; l’artista sta dentro quella testa, quindi anche dentro l’ossessione che sta in quella testa e lì ci deve portare sia le persone con cui collabora per la produzione dell’opera sia lo spettatore, il lettore, o comunque il fruitore di quell’opera. È un lavoro che ne contiene tanti altri e che tu non fai mai da solo. Quindi, sì, è vero che io faccio un film, un documentario, scrivo un libro, lavoro in televisione, faccio un disco, uno spettacolo teatrale, però in realtà non sono mai cose messe in piedi da solo, sono sempre cose che in un modo o nell’altro fai con tante altre persone. Tu sei un po’ quello che gestisce il linguaggio, sul mezzo ci lavori insieme agli altri.”

Durante l’intervista, prove tecniche (alla chitarra c’è Matteo D’Agostino, e tanto basta) risate finte, applausi registrati ed echi di comizi razzisti, d’ogni specie. “Non sta succedendo niente…respira…”, dice all’inizio del racconto, come a svegliare, beffardo, dal torpore di un sonno troppo lungo questa patetica indifferenza ad ogni tipo, anche superficiale, di partecipazione umana di cui ciascuno è vittima e carnefice. Ed infine la frase, l’ultima, che chiude il racconto: “bella la realtà, peccato che esiste per davvero”.
Io cammino in fila indiana. E a un certo punto vedo uno che cammina a fianco a me. Riprendendo un’altra sua storia, Il paese delle carote, dove alla fine non si esaudì il desiderio di ciascuno bensì quello che avevano tutti, secondo lei quando ricominceremo a mangiare altro? Quando, svelata la legge che ci vieta di desiderare, conosceremo di nuovo il desiderio?

Claudia Cacace

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