Camus e Pasolini, tra mito e tragedia
Camus e Pasolini, tra mito e tragedia
18 novembre 2010 – La terza e ultima giornata Camus Pasolini si tiene all’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”, nell’aula Matteo Ripa di Palazzo Giusso
Sisifo, Zagreo dunque Dioniso, Camus si serve della mitologia per evidenziare la distanza tra antichità e uomo moderno. Le sue sono forme nuove d’espressione, contaminazioni di generi tra saggio e romanzo. Zagreo è la vittima sacrificale consenziente ai fini della liberazione dell’uomo; figlio di Persefone e Zeus, egli, ne La mort heureuse, è morte e rinascita (da cui Dioniso per l’appunto, l’uomo che nasce due volte).
E ancora, Achille, Edipo, Antigone, il Prometeo de L’Homme Révolté. Il fine di Albert Camus è ancorare il mito nella realtà contemporanea attraverso il pensiero greco, ove il si è confermato dal no e il cui fenomeno pare che Nietzsche, a detta dello scrittore francese, abbia completamente tradito. Superare il terrore, l’oppressione che caratterizza la storia del XX secolo, la tentazione del nulla. Prometeo ha visto gli uomini voltarsi contro di lui: tra il terrore e l’arbitrario, l’umano e il destino non resta che la rivolta, aspirazione alla libertà.
Libertà e bellezza (quella di Elena) è l’unione che il pensiero moderno ha spezzato, assieme all’equilibrio. Titanismo contemporaneo e antichità: né Elena senza Faust né Faust senza Elena, riprendendo Goethe.
Ogni mito, in ogni opera, serve a chiarire la condizione dell’uomo (moderno) privato di, causa assolutismo storico.
Il convegno Camus Pasolini verte in toto su due temi: l’attualità e l’antichità ripensata, in opere di finzione ma non solo, tutte comunque utili a capire anche il presente.
Oreste Lippolis (Università “Federico II”) ci riporta al Pasolini cinematografico. Al Pasolini della consapevolezza che ogni nuova tecnica è una nuova arma per il potere che la userà a suo scopo. Riprendendo gli scritti Dal laboratorio (1965), PPP afferma che il cinema sta alla realtà come la scrittura all’oralità, nella misura in cui non esiste un grado zero della techne.
Capire Camus è capire l’engagement, dice Samantha Novello (Università di Torino), al di là d’ogni maniera egemonica di pensare. Lo scrittore mischiato alla vita pubblica del suo paese è artista – colui che guarda – quando testimone di libertà, fa arte quando questa è autentico e rischioso esercizio interiore.
Camus denuncia razionalismo e irrazionalismo come sintomi della stessa malattia. Il male genetico del nostro tempo, l’aspetto clinico del pensiero di Nietzsche, il cancro dell’efficacia della società e delle dottrine sta proprio nella scomparsa della credenza nella vita. Camus la chiama disumanizzazione, la psicologia “du ressentiment”, l’invidia che vede nell’esistenza dell’altro la controprova di non essere mai abbastanza. Bisogna uscire dalla logica di dominio e colpa che caratterizza la ratio occidentale; dalla ragione produttiva che vede l’uomo un niente da manipolare a piacimento; dalla schiavitù feticista girata all’utile, al successo, al risultato. E ritornare alla maniera greca di vedere le cose: “Il mondo è bello, fuori di esso nessuna salvezza”. E’ questa separazione tra bellezza/ragione e Dio/mondo a rendere quest’ultimo disprezzabile fino al suo sterminio. Insomma, la libertà è porsi fuori l’universo concezionale “du ressentiment”, della logica nichilista della ragione produttiva, alienazione dell’uomo moderno.
Marco Antonio Bazzocchi (Université Paris VII), nel porre il deserto come mito tra i due scrittori, prende in analisi Teorema ed Edipo re, due film realizzati dal poeta friulano tra il ’67 e il ’68. La prima opera si chiude con il protagonista Paolo che, da possessore a posseduto, perde tutto e cammina nudo nel deserto. Ecco il mito biblico: gli ebrei camminando nel deserto formarono quell’idea di unicità che riporta al padre, dunque a Dio – principio unico di potere. L’elemento erotico, il contatto sessuale con l’ospite è il mezzo attraverso cui i protagonisti vengono svuotati del loro pieno, o meglio, trovano il vuoto di cui erano pieni.
La fine di Edipo re è il ritorno all’infanzia invece, al prato dove veniva allattato dalla madre. Il prato è qui inteso come luogo del sacro fuori dalla città (luogo del patetico). Edipo è un bambino, un infans che non ha le parole giuste per spiegare. Ad Edipo, al confine tra sacro e patetico, non resta – come al Meursault de “Lo straniero” di Camus – di guardare in faccia la realtà ed infine accettare la catena del destino. Come un eroe dell’assurdo.
Paolo urla. “Ogni segno, per quanto arbitrario, può essere ricondotto al grido, cioè all’espressione linguistica orale biologicamente necessaria” (Dal laboratorio, 1965). “Questo fantasma della vocalità – che appartiene ad un diverso momento umano della civiltà, a un’altra cultura – persistendo accanto all’oralità-graficità, ne sdoppia continuamente la natura: rappresenta continuamente un suo momento storico arcaico, e insieme la sua necessità vitale” (Empirismo eretico, 1972, p.60). Urlo come disfacimento del linguaggio, perdita straordinaria delle caratteristiche fisionomiche del volto.
Il convegno si chiude con l’immagine di due volti – quelli di Camus e Pasolini – che si fondono in uno solo, un volto solare e “minerale” come quello di Mastroianni.
Claudia Cacace
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