Cristina Vallini: Etimologia e linguistica. Nove studi
Cristina Vallini: Etimologia e linguistica. Nove studi
A margine di Etimologia e linguistica. Nove studi, di Cristina Vallini, introduzione e cura di V. Caruso, Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, Napoli, 2010
(ISBN 978-88-95044-83-5 – pre-print per l'OPAR)
Gli scritti di Cristina Vallini contenuti in questa raccolta vanno considerati innanzitutto per il loro intrinseco, anche quando non esplicito, valore filosofico oltre che linguistico. La preoccupazione mostrata dall'Autrice appare visibile infatti, nella sua definita completezza, in questo passaggio: «Comincerò col riflettere sulla modalità tipica del "discorso" etimologico, che opera sempre, anche quando sembra procedere in modo descrittivo, in modo da forzare l’interpretazione». Il racconto etimologico, dunque (perché di "racconto" l'Autrice parla), «non è mai neutro ed oggettivo, ma contiene forti istanze di persuasione». Cosa che pone in forte discussione l'oggettività stessa del lavoro etimologico, per non dire che la smantella sin dalle fondamenta conducendolo ad una impietosa dimensione retorica. In tal senso, l'operazione è appunto anche filosofica in quanto promette di assumere tra le sue presupposizioni un discorso sul discorso e una forzatura dell'interpretazione; in che misura poi questa sia una forzatura sull'interpretazione dovrà comprenderlo ogni lettore attento. Ai lettori ancora più attenti resta invece la possibilità di scorgere in quanta parte dei Saggi che compongono il volume si ritrovi una interpretazione della forzatura. Infine, e visto che si è introdotto il riferimento alla filosofia, resta ineludibile la questione in sé: «Il ricorso all’etimologia in quanto petizione di verità è un ben noto espediente per conferire autorevolezza al proprio discorso»; in questi Saggi, insomma, senza mai dirlo si fa un discorso sulla verità – sulla sua rilevanza linguistica. Del resto, come scrive Valeria Caruso nell'Introduzione, «[i] "mondi etimologici" che ci vengono offerti coincidono quindi con le Sprachanschauungen dei singoli autori, dal momento che, nella pratica glottogonica, "un modello delle 'origini' opera in tutti"». Esempio trasparente: la presunta, ideologica derivazione di mātrimōnium da patrimōnium. Ci si chieda: che cos'è un "patrimonio"? E che cos'è un "matrimonio"? Ma, per quanto possa apparire scoraggiante, una simile posizione non intende adagiare il lettore nelle comodità di una lectio facilior: basti pensare che già in Aristotele non esiste in senso proprio un termine indeuropeo per il concetto moderno di 'matrimonio': «l’union de l’homme et de la femme n’a pas de nom», faceva notare Benveniste. Qualcosa deve intanto essere accaduto da quando una simile unione era senza nome ad ora che lo è sin troppo; e Cristina Vallini si porta con un balzo rapido, si direbbe di sapore vichiano, alle origini della questione; balzo a un tempo (e in senso vichiano) linguisticamente eroico, e che conduce dunque, se si preferisce dire così, a prima ancora che ogni polemica fosse già solo immaginabile: «Questa interpretazione metalinguistica, e le interferenze fra ideologia della lingua ed ideologia dei linguisti che essa riflette è lo scopo di questo mio "scritto polemico" che, nel caso in cui apparisse convincente, potrebbe indurre a rivedere alcune verità finora supinamente accettate». Un tempo eroico sia rispetto dunque ai tempi storici della linguistica intesa come disciplina scientifica munita di preciso certificato di nascita, sia rispetto ai tempi, non filogeneticamente ma solo ontogeneticamente risalibili, della relazione stessa tra verità e linguaggio. Il tempo reale ma preistorico e dunque perduto per sempre, e quello altrettanto reale delle premesse della riflessione linguistica, dei suoi antefatti, e dunque sì reale ma mentale, sono accomunati dal fatto di mancare di qualcosa. È alla luce di una simile mancanza che la riflessione sull'etimologia trova spazio, quando non anche, ovviamente, l'esercizio etimologico stesso: ecco dunque che la "scienza del vero" si circoscrive a questa evidenza, e con essa si misura. Una misura che, quindi, si gioca nello spazio ineludibile di una dismisura. Cosa quanto mai inattesa per "il vero", che altrettanto mai rinuncerebbe, ove possibile, alla sua completezza semantica. E infatti, nella prospettiva dell'etimologo, le verità supinamente accettate sono solo un "dopo" che non interessa fino in fondo – poiché il fondo sta esattamente nella direzione inversa rispetto a ogni "dopo", cioè nel "prima" o, se si preferisce, nella dimensione propria delle premesse: cosa che, insomma, fa di ogni discorso etimologico un ragionamento intrinsecamente teorico. Ma attenzione, pur sempre un discorso che può essere preorientato da un subdolo orientamento ideologico, e tanto da giustificare una «simmetria formale»: cosa che emerge appunto in occasione dell'analisi che Cristina Vallini fa della "coppia" mātrimōnium-patrimōnium. Eppure l'etimologia, che continua innegabilmente ad essere sin dal nome che la fonda "scienza del vero", «rischia per questa via di diventare programmaticamente cieca ai problemi del significato, come le leggi fonetiche, e quindi di perdere del tutto la propria connaturata capacità descrittiva»: come quando da un’opera d’arte di nome Fortuna ci si aspettasse che fosse fortunata essa stessa al di sopra di qualunque altra entità cosale e che addirittura trasferisse fortuna sugli altri (dunque una divinità di stampo monoteistico, e pertanto l’unica possibile), così dalla etimologia ci si è a lungo aspettato il faro di luce semantica su questa o quella parola, la sua visione totale, il suo dispiegamento (e non usiamo a caso questo termine). Ma la parola di dispiegarsi completamente non vuole saperne, e talvolta addirittura racchiude questo e quello, il chiaro e lo scuro, il sì e il no; essendo essa luogo totale, questa volta sì, non di un significato ma di significato, indipendentemente da sue specifiche occorrenze: alto/basso, chiaro/scuro, trasparente/opaco: perché mai stupirsi quando si sapesse che una stessa forma racchiuda in un solo tempo significati non semplicemente diversi, ma addirittura inversi? Una simile inversione è rubricata da Cristina Vallini nei termini di un'esigenza, e mai come in questo caso non tanto un'etimologia quanto una interpretazione letterale del termine aiuta a capire di che cosa si sta parlando: l'inversione è qualcosa che i due termini esigono di formare: «Tipico di questa esigenza ci sembra il caso di due termini greci, ¤λ‹φος e κεμάς, costretti dall'etimologia ad occupare, nell'ampio campo designativo dei nomi indeuropei di animali, rispettivamente le caselle del 'cornuto' e della 'scornata', grazie all'ingegnosa ricomposizione di serie lessicali più ο meno ampie ma — almeno apparentemente — concordi per quanto riguarda la Grundbedeutung. La storia di queste due etimologie, che ripercorreremo per sommi capi, chiama in causa, come si vedrà, il problema dei rapporti fra ricostruzione linguistica e ricostruzione culturale e, più specificamente, il problema delle unità di partenza ο di base (radici) nelle quali, con varie motivazioni, i comparatisti-ricostruttori tendono a riconoscere le lessicalizzazioni di potenzialità semantiche indotte per il tramite dell'etimologia (nel nostro caso i due valori 'cornuto'/'non cornuto')». È interessante e curioso notare come proprio la tensione con la quale tratta di una simile inversione sembra condurre l'Autrice a porre la questione dei "mondi complessi" delle origini indoeuropee. Origini rispetto alle quali, dunque, come già detto, si tratta della questione etimologica non tanto sotto il segno della diversità, quanto sotto quello della inversione. È interessante e curioso notare come proprio la tensione con la quale tratta di una simile inversione sembra condurre l’Autrice a porre la questione dei "mondi complessi" delle origini indoeuropee. Le origini rispetto alle quali, quindi, si tratta di questione etimologica sono origini di una vicenda linguistica non tanto se isolate o quantomeno indagate sotto il segno della diversità, quanto sotto quello della inversione. Del resto la tradizione di una via razionale all’etimologia è cosa nota; tuttavia, l’etimologia come mondo (Cristina Vallini parla appunto di "mondo etimologico") che in qualche caso si «presenta al lettore come immagine vera di una patria ideale, pervasa dai germi inequivocabili di una futura ed inevitabile grandezza» la dice tutta su una lettura della questione che solo ingenuamente potrebbe essere giudicata o definita come ottocentesca: essa merita infatti ben più ampio giudizio, poiché, trattando di etimologia, si deve costantemente tener presente che l’oggetto del discorso, e cioè l’oggetto del quale il discorso fa questione, è il soggetto del discorso stesso. Non c’è, insomma, modo di delimitare l’argomento etimologico declinato all’insegna di una razionalità conchiusa ma bisogna accettare di riferirlo all’intera vicenda umana, o a temi quali la cosiddetta comparsa dell’uomo, o ancora alla cosiddetta nascita del linguaggio, e, per dirla tutta, alla cosiddetta preistoria linguistica. Ecco dunque perché è una elusione tutto sommato ingenua del problema quella che mette in atto chi pensa di poter trattare di etimologia senza tener conto del valore filosofico di una simile trattazione. Una trattazione che, dunque, non si sottrae in alcun momento al fatto dell’inizio, ed è in un simile fatto che si ritrova quella spinosissima nozione nota come "preistoria", uno dei cavalli di battaglia di chi si occupa di etimologia. Quando si dice preistoria si intende naturalmente la dimensione teorica, o, se si preferisce, quella immaginabile solo in teoria; e, va da sé che cosa significa "immaginabile" se non qualcosa che ha a che fare con la rappresentazione, nel senso di una ripresentazione di idee o già note o soggette ad un principio di classificazione non facilmente aggirabile. Fa bene Cristina Vallini a rammentare la posizione di Nietzsche su alcune etimologie, emblematiche rispetto al quadro storico dal quale egli pur cercava drammaticamente di distaccarsi, e con le note conseguenze. Certo: l’autore della Nascita della tragedia dallo spirito della musica arrivava in cattedra venticinquenne come filologo ed è precisamente questa la collocazione che gli si deve dare quando lo si giudichi in base alla sua lettura etimologica di certe forme linguistiche destinate a sostenere un discorso filosofico. Una notazione, questa, che racchiude come un microcosmo origine e destini di qualunque impresa etimologica. Non è insomma sempre esaustivo voler leggere certe visioni dell’etimologia nel quadro culturale tipico dell’Ottocento, e questo nel libro di Cristina Vallini emerge chiaramente; diverso caso è se si vede l’Ottocento come uno degli innumerevoli segmenti possibili attraverso i quali leggere l’intera vicenda umana: una lettura nella quale si integra, naturalmente non vista, la zona buia, quella delle origini, quella del "prima"; una integrazione che costringe a fare i conti con un "vero" innegabilmente composto a sua volta di bianco e di nero, di luce e di notte, di visibile e di non visibile, dove il "visibile" è tuttavia anche la rappresentazione che ci si fa, a volte magistralmente, di tutto quanto visibile non è. Da qui la possibilità di vedere nel visibile lo spettro della ripresentazione. Questo stato di cose si riflette fin troppo bene nelle visioni etimologiche (ed è il caso di enfatizzare: visioni) di taluni studiosi. Si pensi ad esempio, in fatto di mondi possibili, a Pictet, convinto «di stare ripercorrendo i passi della primitiva nominazione». Una simile ripercorrenza se la può appunto permettere un ontologo alle prese, come pure in questo ambito talvolta si è visto, con i suoi pur legittimi entusiasmi. Senza eccedere tuttavia il campo nostro proprio, con Cristina Vallini abbiamo la possibilità di ripercorrere i nostri eccessi, o se si preferisce quelli della linguistica, come ben mostrano le grandiose e geniali intuizioni di Pictet o di Max Müller o ancora di ogni altro etimologo che abbia voluto dire qualcosa di immediatamente convincente su una forma linguistica – una immediatezza che quasi sempre ha il potere di resistere come tale anche alla luce sinistra della più severa norma legale. In tal senso Cristina Vallini dimostra, e proprio attraverso l’analisi dell’impostazione di Pictet, quanto la doxa possa influire sulla costruzione scientifica, se è vero come è vero che la teoria si esercita soprattutto in relazione a quelle zone buie di cui poc’anzi. Ma l’analisi dell’Autrice continua mostrando come visioni talvolta completamente diverse tra loro possano essere ciononostante oltremodo convincenti. Fu il caso di Otto Schrader che pure, agitato e soprattutto agito da «scrupoli pedagogici», collezionò quella «galleria di errori» che ben conosce chi abbia avuto modo di conoscerne gli scritti. Appunto: una "galleria di errori" che è lo spettro di ogni etimologo. Come ogni altra scienza umana, anche l’etimologia veniva insomma dandosi un metodo; e, come ogni altra scienza umana, essa non sempre sapeva espellere dal processo costitutivo del metodo stesso gli elementi di opinione del tempo in cui esso si formava. Con una differenza rispetto alle altre scienze umane: nessuna di loro ha il "vero" nel nome.
Napoli, 18 ottobre 2010
Alberto Manco