Cultura occidentale e arabo-islamica
Cultura occidentale e arabo-islamica
Dal primo incontro del XXV Congresso de l’Union Européenne des Arabisants et Islamisants sono emerse due tematiche cruciali: comprensione delle culture "locali" e loro difesa dallo spauracchio della globalizzazione. Ne abbiamo parlato con Silvia Naef, presidente dell’UEAI, e con Agostino Cilardo
Professoressa Naef, dal punto di vista della comprensione e del dialogo tra la cultura occidentale e quella arabo-islamica, quanti e quali giovamenti può portare questo tipo di manifestazioni?
"Manifestazioni come questa hanno una notevole importanza perché, nonostante si parli sempre più dell’islam e del mondo arabo, lo si fa spesso senza le necessarie conoscenze storico-culturali. Il Congresso, che unisce specialisti di tutto il mondo, può bypassare questo enorme problema. Penso che noi stessi studiosi incappiamo nell’errore di isolarci e, per l’appunto, questa convention può servire ad indirizzarci l’un l’altro verso nuovi approcci ai problemi. Approcci condivisi."
Ma le connessioni tra il mondo accademico e le "masse" sono sufficienti a ridurre le distanze?
"Effettivamente c’è il problema di come trasmettere il sapere a un pubblico più vasto. Il link d’interconnessione è ancora troppo scarso. A volte i media ricorrono alle consulenze di docenti esperti, ma è un pratica recente e non ancora sufficientemente utilizzata. In compenso ho notato segnali ottimistici: c’è un’attenzione maggiore, anche tra il grande pubblico, verso il cosiddetto "altro". C’è anche una curiosità propositiva: la musica araba, oggigiorno, viene normalmente ascoltata dai giovani europei. Anche la diffusione di piatti tipici arabi, ad esempio, può essere un segnale di positiva mescolanza culturale. Dunque, la cultura alta, così come la cultura "materiale" viaggiano di sovente più velocemente dei dibattiti accademici, ma anche questi ultimi contribuiscono alla loro diffusione. Sono ottimista."
Più cauta, invece, è apparsa la posizione del professore Cilardo.
"Nel mondo accademico arabo – sottolinea il preside della Facoltà di Studi Arabo Islamici e del Mediterraneo – bisogna sempre fare una distinzione tra atenei più "laici", aperti al confronto ed istituti tendenzialmente fondamentalisti. E questo lo sappiamo da sempre. Ma la cosa preoccupante è che siamo in una fase regressiva dell’islam. Quando si notano atteggiamenti difensivi è sempre un segnale di chiusura. Ne è la prova il fatto che le menti più aperte vengono continuamente contestate."
Lei crede che i limiti della globalizzazione, che viene spesso vista come minaccia delle identità culturali, possano aver esacerbato gli animi?
"Esattamente. Molti infatti leggono il fondamentalismo come reazione alla globalizzazione. Questi diversi movimenti integralisti, che hanno purtroppo preso piede in molte parti del mondo islamico, vedono gli “altri” come nemici, piuttosto che come possibili collaboratori. Non è il caso però di cadere nel pessimismo. Se la globalizzazione viene intesa bene, nel senso di promotrice di una piattaforma di valori condivisi, può assumere un’accezione più che positiva."
Ci può delineare quali caratteristiche dovrebbe avere quella che definisce globalizzazione positiva?
"Vede, la globalizzazione non è un fenomeno astratto, bensì un fenomeno umano, per la sua origine e le sue conseguenze. E in quanto tale deve essere sottoposta a critica, esige di essere interpretata sì, ma anche "governata". Si presta a diverse interpretazioni che possono creare emarginazione e incidere sull’ordine sociale preesistente. Per questo deve basarsi su due principi fondamentali: il valore inalienabile della persona umana e l’importanza delle culture, che nessun potere politico ha il diritto di impoverire e ancorché di distruggere. Del resto, il pericolo che le culture locali si perdano è molto forte. La globalizzazione deve tendere all’unità nella diversità."
Crede che il mondo arabo-islamico possa appropriarsi di quest’accezione nel rapportarsi al "mondo globale"?
"Tra gli studiosi arabo-islamici ci sono già tre approcci diversi alla globalizzazione. Ci sono i più scettici, che la demonizzano. Quelli addirittura affascinati dalla stessa. Ma quelli che a noi interessano di più sono i moderati: chiedono che la globalizzazione sia compatibile con gli interessi nazionali e culturali dei popoli. Questo approccio, che possiamo chiamare di “neutralità positiva”, auspica la riduzione delle disparità tra uomini e donne, il superamento delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, la promozione della democrazia e dei diritti umani."
Il miglioramento del dialogo tra le culture, a cui accennavamo all’inizio della nostra riflessione, sta dunque nella "conoscenza reciproca", al di là del pregiudizio, e nel "dialogo costruttivo su valori condivisi"
Antonio Celio